Cultura e Società

Libri allo specchio. Terzo capitolo: La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat di P. Weiss. A cura di M. Vigneri

6/08/25
Libri allo specchio. Primo capitolo: Senza sangue di A. Baricco. A cura di M. Vigneri

“La lettrice” Jean-Honoré Fragonard 1776

Introduzione di Stefania Pandolfo

Prosegue con questo terzo capitolo il dialogo con libri capaci di toccarci l’anima.
Nel rileggere La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat di Peter Weiss, Malde Vigneri coniuga con naturalezza due piani spesso difficili da tenere insieme: da un lato la concretezza storica e politica dell’opera (le rivoluzioni, la violenza, la follia) dall’altro una riflessione profonda, intima, sul tempo. Il tempo che contiene tutti i tempi, anche quelli della sua vita: la giovane psichiatra che scopre il testo, la psicoanalista che oggi lo rilegge con lo sguardo che matura negli anni.
Ne nasce un testo limpido e intenso, dove nostalgia, consapevolezza e desiderio si intrecciano con forza evocativa. Ho personalmente ammirato, in queste pagine che vi consegno, la bellezza che affiora sorprendendoti dove non te l’aspetti…proprio come un fiore nel deserto.

La Caporedattrice di SPIweb
Stefania Pandolfo


 Libri allo specchio

Malde Vigneri

Terzo capitolo: La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat di Peter Weiss [1]

Ovvero: Sulle Prospettive del Tempo

Parole chiave:temporalità, legami transgenerazionali, guerra, inconscio


In una domenica invernale del 1970, colui che da pochi mesi era divenuto mio marito volle condurmi ancora una volta al cinema. Dubitavo dentro di me, perché lui era un vero amatore e sceglieva film talmente di nicchia che spesso rischiavo di addormentarmi. Non fu così quel giorno: restai con gli occhi incollati allo schermo e con la mente in subbuglio per tutta la proiezione; e quella eccitazione non si è mai del tutto placata. E così ecco che oggi, cinquantacinque anni dopo, mi ritrovo a scriverne; di nuovo, perché nel 2008 ho già pubblicato un articoletto su Marat-Sade, questo il titolo del film, nelle pagine di Eidos[2], la rivista di cinema e psicoanalisi. Molte le ragioni che rendono imperdibile l’opera cinematografica di Peter Brook: una regia d’eccellenza, una fotografia sconvolgente e, naturalmente, la storia raccontata. Ma ne parlo qui, in una rubrica dedicata ai libri dell’anima, per un altro motivo: non solo perché il film è tratto da uno scritto di Peter Weiss pubblicato in una Prima Edizione della Collezione di Teatro della Casa editrice Einaudi, quanto forse soprattutto perché ciò che è contenuto in quelle pagine sotto forma di irresistibile testo teatrale, compone una sorta di palinsesto temporale a matrioska che mi affascina moltissimo: il libro di Peter Weiss scritto nel 1963; il soggetto cui esso si riferisce, ipoteticamente scritto tra il 1801 e il 1814 dal Marchese De Sade negli anni della sua permanenza nel Manicomio di Charenton; la rappresentazione della morte di Marat avvenuta nel 1793; la messa in scena nell’era del Primo Impero Francese dal 1804 al 1814; e infine il film di Peter Brook del 1967. E anche se ciò che mi colpì allora, giovane e appassionata psichiatra decisa a divenire psicoanalista, fu il coinvolgimento di malati manicomiali nella rappresentazione teatrale, alla rilettura di oggi, a distanza di mezzo secolo, è piuttosto la lunga e articolata teoria dei tempi ad intrigarmi. Ma facciamo un po’ di chiarezza.

Il titolo del testo di cui parlo, nella sua forma estesa recita: “La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat, rappresentati dai filodrammatici di Charenton, sotto la guida del Marchese De Sade”[3]. Nell’interessante appendice alla stesura teatrale della sua opera: Nota sullo sfondo storico del nostro lavoro (pag 123), Peter Weiss descrive i fatti di cui parla con la precisione di uno storiografo, pur se afferma di concedersi delle libertà. E’ appurato infatti che il Marchese de Sade durante le sue molte prigionie scrisse un grandissimo numero di drammi, commedie, pantomime etc… e che negli anni dal 1801 al 1814 in cui fu rinchiuso nel manicomio di Charenton fino alla sua morte perché pericoloso alla società per le sue opere, effettivamente “gli fu concesso di mettere in scena lavori teatrali con la collaborazione dei pazienti”. Non vi è tuttavia alcuna evidenza storica che proprio in quel periodo abbia allestito e rappresentato uno spettacolo sulla morte di Marat. Si tratta dunque di una “verosimile finzione” immaginata da Weiss sotto forma teatrale in cui il Marchese de Sade mette in opera l’assassinio di Marat per mano di Charlotte Cordey con la partecipazione e la recitazione di attori scelti fra gli stessi ricoverati del manicomio.  Mi sembra anche di ricordare, ma non ne sono sicurissima e forse è una mia costruzione, che chi rappresentava Marat fosse affetto anche lui da una dermatosi e che la giovane che impersonava la Corday con la sua depressione ne tratteggiasse i più intimi accenti. Il fatto è comunque che alle prime pagine l’elencazione dei personaggi già ci rapisce per la precisione con cui vengono raffigurate le caratteristiche di ognuno. Così Weiss descrive, tra gli altri, Jean-Paul Marat: “quarantanove anni, soffre di una malattia della pelle. E’ avvolto in un lenzuolo bianco e porta una benda attorno alla fronte”. E Charlotte Cordey ha: “ventiquattro anni. Porta una sottile camicia bianca taglio Direttorio … E’ perennemente sorvegliata da due suore, che la sorreggono, la pettinano e le rassettano le vesti. I suoi movimenti sono quelli di una sonnambula”. E così ci appaiono i pazienti sullo sfondo: “Comparse, voci, mimi e coro. A seconda delle necessità appaiono o con i loro camici da internati o primitivamente travestiti…Alcuni compiono movimenti coatti, girano in cerchio, saltellano, mormorano a mezza voce…”

E poi nelle pagine successive ritrovo quella atmosfera onirica che spesso i testi teatrali mi suggeriscono. Vicende di tempi diversi, se pur vicini, si intrecciano tra loro come fossero in qualche modo legati. Come, rivolto agli spettatori tra cui Coulmier, “il direttore dell’asilo, vestito elegantemente, col mantello e il cilindro” e la sua famiglia, il Banditore recita: “Noi qui mostriamo gli avvenimenti parigini ch’ebbero luogo in tempi ai nostri assai vicini. Perciò lasciate che indisturbati assistiamo a quel che una volta avvenne …”.  

 So bene come dalle note storiche che concludono l’opera di Weiss, autore di profondo orientamento marxista e intensamente impegnato, si evinca chiaramente un intendimento politico e che la rappresentazione della Rivoluzione Francese, con allusioni al Direttorio e al Primo Impero Francese, rifletta, come uno specchio, i fervori degli anni 60. Così come proprio il Marat-Sade di Peter Brook anticipi il Sessantotto divenendone poi un’icona. Violenza politica, natura del potere della guerra, alienazione e dissennatezza, rendono sia il testo di Weiss sia il film di Brook assolutamente e tristemente attuali. E Weiss riesce a rendere la struttura metanarrativa del suo Testo Teatrale uno strumento di lotta e di ribellione ideologica. Ma per quanto la mia anima pianga la follia della guerra, mi accorgo, oggi che lo scorrere temporale è oramai un’istanza pressante nella mia lunga vita, di ripensare al testo di Weiss con un nuovo intento: nel lasciarmi condurre dal vortice degli anni che lo scandiscono e dal sinusoidale intreccio cronologico, rifletto sulle nostre concezioni psicoanalitiche sul Tempo e su ciò che noi chiamiamo l’atemporalità dell’Inconscio. Penso al Tempo Acronico invocato da Francesco Orlando nella sua supplica al Padre (ricordate?) e lo sento, quello, collocato al di là della vita. Il tempo umano invece è come il Fiore del Deserto, sembra aprirsi verso l’infinito ma all’interno racchiude tutti i colori della sabbia e del sole… Io non penso che il tempo dell’inconscio sia vuoto di sé, penso che sia molteplice e onnipresente. Anzi penso che il Tempo e i Tempi siano il tessuto connettivo dell’Inconscio. Presenze attive che come il sangue nelle vene del corpo permeano ogni aspetto dell’esperienza umana. Penso ai Tempi che pulsano, si muovono, danzano e si intrecciano come un vasto crocevia, legando l’uomo in gioia o nel dolore a sé stesso ma anche simultaneamente alle sue eredità transgenerazionali, storiche, mitologiche. E come dimenticare Apollinaire? Chiamava “il Tempo dell’Ora” quello della contemplazione artistica e della intuizione poetica. Sarebbe come dire che è l’afflato pulsionale ed emotivo a fermare il multitempo inconscio agganciandolo (ponte, giunzione, sono altre traduzioni della parola freudiana Trieb) al singolo momento della singola storia. Ma sarà poi l’intrinseca e individuale politica dell’inconscio a determinarne il destino dando purtroppo molto spesso battaglia oppure concedendo quella pacificante complicità che rende la nostra vita estesa. Se l’inconscio mi è amico i miei tempi per quanto oramai esistenzialmente ridotti si espanderanno a quanto lui saprà offrirmi e creare per me, regalandomi quella simultaneità e pura presenza che mette in scena il teatro della vita.

Rileggo Weiss e quello che a me pare un drammatico spartito metateatrale nella sua architettura a piani prospettici (come ho trovato scritto a matita in chiosa nella mia calligrafia più giovanile), avvertendo infine il respiro del Tempo battere come fosse un cuore. Ve lo faccio sentire con le parole dello stesso Battitore (pag 117): “Pubblico gentile di un’era illuminata, dopo questo sguardo a un’epoca passata, volgiamoci di nuovo al dì presente… e prima che prendiate il cappello per andare, dateci licenza di ricapitolare ciò che qui di illustrarvi ci siam dati pena.”


[1] Weiss P. La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat (1967) Giulio Einaudi, Torino, 1979

[2] Vigneri M. “Marat-Sade” Eidos: Cinema, Psyche e Arti Visive, n. 10, novembre 2007-febbraio 2008.

[3] Weiss P. La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat, rappresentati dai filodrammatici di Charenton, sotto la guida del Marchese Di Sade. Dramma in due atti. (1963-1964), Giulio Einaudi ed., Torino, 1979

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