Cultura e Società

“L’ultima testimone” di C. Gregorin. Recensione di R. Amadi

23/05/22
"L'ultima testimone" di C. Gregorin. Recensione di R. Amadi

L’ULTIMA TESTIMONE

di Cristina Gregorin (Garzanti 2020)

a cura di Roberta Amadi

parole chiave: #trauma, #memoria, #après-coup, #esodo, #Trieste                                    

mi sono sempre sentito come privo di un posto nella realtà, come se non esistessi affatto, e mai questa sensazione è stata così forte in me quanto quella sera (..), mentre il paggio della regina delle rose mi trafiggeva con lo sguardo.

Sebald G.W., Austerlitz

È un romanzo dalla stoffa psicoanalitica questo lavoro insieme duro e toccante di Cristina Gregorin -opera d’esordio e menzione speciale della giuria del Premio Italo Calvino- che sullo sfondo di un’inquieta Trieste d’oggi racconta del confine orientale fra guerra e dopoguerra e dei traumi di quelle terre attraverso le generazioni.

A cominciare dalla copertina -con il titolo che rimanda ai temi della trasmissione e della testimonianza e l’immagine di una donna che guarda dentro di sé- per proseguire verso l’interno della struttura e dei contenuti passando attraverso la presa di forza del suo scenario di apertura, che ci affaccia, d’emblée, su una doppia morte.

Quella di Bruno, 94enne di origine istriana arrivato a Trieste sull’onda degli orrori della ‘guerra peggiore che ci sia mai stata’, e quella dell’amico Vasco ‘era come un fratello. Si è suicidato nel 1976 (..) L’unica che può conoscere la verità sulla sua morte è Francesca Molin, se ancora la ricorda, era solo una bambina.’ E’ con questa confidenza, mai prima di allora detta o in qualche modo lasciata trapelare ai familiari, che Bruno si congeda dal mondo, affidando negli ultimi istanti della sua vita al nipote Mirko il compito testamentario di ritrovare quella bambina ormai diventata donna: ‘ti prego, trova Francesca, per la pace di tutti’.

Da questa doppia morte e dal doppio tempo che introduce, prende così vita l’intreccio del romanzo, sapientemente articolato fra i diversi livelli della storia e delle generazioni dei protagonisti: quello dell’oggi su cui si dispiega il lavoro di ricostruzione/comprensione del lascito di Bruno e quello del secondo dopoguerra -scenario delle misteriose vicende su cui aleggia il segreto dell’atto suicidario di Vasco- e da cui è a sua volta possibile traguardare in controluce il dramma della guerra, dell’orrore delle foibe e dello strazio dell’esodo.

Un doppio tempo che ben si attaglia a quell’aspetto del funzionamento psichico denominato après-coup, in base al quale è un evento/colpo successivo che permette la re-iscrizione e la ri-significazione delle tracce di un antecedente rimasto in qualche modo ignorato. E’ quanto di traumatico accade nel presente che consente di riattualizzare il trauma di allora, aprendo alla possibilità di disvelare, tradurre, comprendere ciò che a suo tempo non ha potuto essere rappresentato e pensato.

Da questo punto di vista potremmo dire allora che la morte di Bruno, con la rivelazione del suo segreto e il potenziale del lutto che la sua perdita porta con sé, avvia un lavoro di legame fra eventi e tempi, fra una prima e una seconda scena, fra un primo e un secondo tempo che permette di rilanciare il lavoro psichico dei personaggi intorno a quanto era rimasto di inelaborato e silenziosamente sospeso lungo il filo delle generazioni.

Strappi violenti, soprusi, orrori, terrori, e inevitabilmente errori, che si sono succeduti e accavallati l’uno sull’altro, andando a lacerare gli apparati psichici degli individui, dei quattro adolescenti che sono i protagonisti dello sfondo della Storia del nostro libro, ma anche, inevitabilmente, di chi verrà dopo di loro. Perché Mirko e Francesca, in quanto nipoti di sopravvissuti alla guerra e ai crimini che hanno insanguinato la loro terra, e in parte anche le loro mani, sono entrambi depositari e portatori inconsapevoli di un accaduto che a loro non è successo, e che nel tempo è rimasto chiuso nel segreto e nel non detto ‘quelli erano stati anni in cui la sofferenza colpiva tutti -scrive Gregorin- senza concedere a nessuno il tempo di piangerci sopra. E dopo si voleva solo dimenticare (..) A volte però accade che quel che si credeva dimenticato riemerga e raggiunga anche chi quella volta ancora non c’era, come un’eredità non voluta.’

Sappiamo che i sopravvissuti -quando accade- iniziano a raccontare le loro esperienze molti anni più tardi, non soltanto per la difficoltà personale a re-incontrare l’orrore dentro di sé, ma anche per quanto accade nella vita psichica collettiva, impegnata a negare, rimuovere, cancellare il carico di colpa e di vergogna di cui sono portatori i traumi cosiddetti storici. Alcuni hanno teorizzato una ‘cospirazione del silenzio’ dove l’impossibilità ad esprimere i propri vissuti dolorosi trovava muta corrispondenza in chi non era ancora pronto a raccogliere il peso della testimonianza (Sonnino, 2022). Altri hanno parlato di un ‘periodo di latenza’ necessario prima che la collettività potesse affrontare quei traumi che tutti erano impegnati a negare (Mucci, 2008).

Per parlare dunque bisogna trovare le parole, quelle parole che le vittime non hanno, perché come ci ricorda Altounian citando Shoshana Felman ‘una vittima, per definizione non è soltanto chi è oppresso, ma anche chi manca di un proprio linguaggio, qualcuno cui hai rubato le parole con le quali avrebbe potuto articolare la propria vittimizzazione’ e che continua pertanto a rimanere in una condizione di oltraggio e di mancanza di sé. Ma c’è bisogno anche di un contenitore capace di recepire e trasformare quei sedimenti di sofferenza rimasti inespressi nella memoria in possibili processi di comprensione e di rimemorazione, andando a ristabilire una circolarità fra testimonianza e ascolto.

Intessendo un continuo passo doppio fra verità storica e verità materiale, Cristina Gregorin ci racconta quanto possa essere tormentoso e imprevedibile l’attraversamento di questo spazio/tempo siderale fra silenzio e parola. A partire dalla reticenza di Francesca, che pur lasciando l’esilio milanese per far ritorno a Trieste, oppone strenua resistenza alla richiesta di svelare quei ricordi ‘duri, imperfetti. Assolutamente segreti’ che ‘da tutta la vita sta provando a seppellire (..) ombre cannibali che finiscono per essere impalpabili (..) e intanto ti divorano le budella’. Grazie a un doppio registro di scrittura che ci permette di accedere al suo dialogo interno, possiamo cogliere tutta la conflittualità e l’ambivalenza del travaglio psicologico di questo personaggio che pare incontrare, in quello di Mirko, una polarità a tratti simile e a tratti complementare.

A questa donna che ‘non si è sposata e non è invecchiata’, sospesa nel tempo di un trauma cui sembra in qualche modo essere rimasta fissata anche attraverso il lavoro che svolge -mettere al mondo bambini- quasi a provare a restituire quelle vite che sono un tempo state tolte, la nostra autrice contrappunta abilmente un uomo che rappresenta in parte la componente slava dell’identità, un professore di storia che di fronte alla negazione e all’indignazione di lei è capace di aprire un varco: ‘a volte ci vuole tempo. Non pretendo che lei sia capace di raccontarmi, o abbia voglia di farlo subito’ e che, da storico, sa che ‘la memoria è una traccia, e pure se parziale o confusa può essere seguita e interpretata’. Qualcuno che pur sollecitandola la sa al contempo aspettare, e che turbato come lei dall’improvvisa rottura di un equilibrio, avvia un processo di indagine che va ad intessere un’impalcatura ‘esterna’ alla solitudine del singolo soggetto, uno spazio di garanzia e di riconoscimento all’interno del quale la parola testimoniale può essere tenuta e pronunciata. Un lavoro di costruzione-ricostruzione in cui vediamo intrecciarsi i diversi livelli della memoria -quello conflittuale di Francesca che ha in parte assistito agli eventi traumatici, e quello inconsapevole e disorientante di Mirko, che ne è invece sempre rimasto all’oscuro- e dove vengono via via convocati sulla scena i fantasmi delle perdite e dei torti subiti, così come dei tentativi di difendersene e di potersi riscattare. Al periodo dei terrori e delle atrocità sconvolgenti, fanno seguito quelli della delusione e del rancore per aver avuto ‘più guerra degli altri’, spingendo i giovani protagonisti di allora a stringersi intorno al patto di voler ‘saldare qualche conto con il mondo’ a proprio modo: ‘io non so cos’abbiano davvero fatto’ racconta Alba, la nonna di Francesca ‘se hanno picchiato qualche torturatore, delatore di ebrei e di partigiani, o infoibatore, non posso dire che mi dispiace. Oggi non sappiamo più cosa sia la guerra, e quella guerra. Ma se dobbiamo dimenticare quello che è stato, dobbiamo dimenticare anche loro’.

Con una scrittura sempre attenta a non sbilanciarsi e a non dire tutto, Cristina Gregorin ci conduce attraverso un continuo avvicendarsi di parziali disvelamenti che vanno gradualmente a mobilizzare il funzionamento psichico di Francesca rimasto paralizzato dal trauma ‘dapprima le sembrava di rivedere dei fotogrammi, lo stralcio minimo di un film ancora senza nesso. Poi aveva ricostruito piccoli episodi’ immagini che la emozionano mentre il ricordo, a poco a poco, si fa strada. Fino a culminare nell’ultima testimonianza, quella del suicidio di Vasco, dove l’improvviso riaffiorare di un evento efferato e tenuto fino ad allora segreto, torna con tutta la veemenza e la sua colpa a disorganizzare definitivamente un apparato psichico già sconvolto. Grazie alla presenza di un piccolo gruppo di destinatari, Francesca ricostruisce lo scenario in cui i due amici fraterni perdono l’assetto sotto i colpi di una violenza criminale, che nel ritornare, oscilla fino a fermare il suo asse rivolto contro Vasco. Ma nella perdita disorientante di questa bussola, viene da chiedersi, chi agisce e chi subisce? chi ammazza chi?

Alla fine del lungo percorso cui l’intera struttura del romanzo sembra tendere, ritroviamo la nostra testimone che ‘ora si sente molto leggera e molto sola’ a sottolineare la dimensione di sollievo ma insieme, e soprattutto, individuante che il lavoro elaborativo del trauma e della testimonianza possono assumere, attraverso un processo di iscrizione soggettiva che consente l’appropriazione di un funzionamento psichico e di una storia che diventa, personale. Il dire di Francesca infatti non riguarda, da un punto di vista psicoanalitico, l’evento, ma il travaglio psichico ed emotivo della sua traccia, rimasta a lungo in lei incistata e accantonata ‘avrei dovuto dirlo (..) invece non ho detto niente a nessuno’  e ancora ‘La paura non mi ha più lasciato (..) Non riesco a cancellare un senso di colpa per non averlo potuto evitare. Se avessi chiamato il vicino, se avessi parlato prima con la nonna, se avessi disobbedito…’. Un processo che ci rendiamo conto nel leggere il romanzo, da un lato rivitalizza, smuove gli irrigidimenti traumatici e permette di accedere ad un lavoro del lutto -come pare suggerire la conclusione del libro- dall’altro, e proprio per questo, espone il soggetto al peso della propria responsabilità e individualità.

Perché la testimonianza non libera catarticamente dall’orrore vissuto, ma lo ripropone in prima persona fra sé e un Altro, inaugurando uno spazio intriso di rischi e di possibilità. Nell’indagare la relazione fra morte e scrittura nel caso di scrittori-sopravvissuti come Primo Levi e Sarah Kofman, entrambi morti suicidi, Rachel Rosenblum si interroga sul ‘momento in cui la violenza del racconto che recano in sé appare sopraffarli, spazzarli via, annientarli’ e pertanto, in controluce, sulla possibilità di una qualità della comunicazione che sia in qualche modo in grado di evitare o ridurre queste minacce. Si può morire a causa del non detto, ma si può morire anche per aver detto, o per aver accolto o ascoltato male. E i rischi del racconto o della scrittura testimoniale sono per Rosenblum strettamente legati al ‘ritorno della colpa e (al)la manifestazione di una vergogna ottusa, lancinante, recalcitrante’ che potrebbero travolgere il soggetto se proposte in forma troppo diretta. ‘Il racconto temibile’ è quello che ‘non propone un discorso semplicemente testimoniale <<ho visto>>, ma un discorso legato al coinvolgimento dell’evento <<ho visto, mentre avrei potuto>> in qualche modo riguardante le ‘scelte orribili’ che ogni sopravvissuto si è trovato costretto a fare. Da qui, l’importanza di reperire forme espressive oblique, che consentano una comunicazione ‘di striscio’ magari attraverso l’analisi di un ‘testo-tutore’ che interponga una distanza protettiva rispetto all’esperienza dell’orrore, che non può mai essere affrontata frontalmente, se non a rischio, appunto, di essere ‘spazzati via’. Il trauma continua dunque a mantenere un certo grado di traumaticità e ad esso ci si può sempre e soltanto avvicinare, rimanendo per certi versi in una condizione di esilio rispetto alla possibilità di tornarvi direttamente.

La questione della qualità del dire, apre poi, specularmente, a quella fondamentale della qualità degli interlocutori cui le parole vengono rivolte, della dimensione giudicante e censoria o, peggio, indifferente che a volte assumono, ma anche della funzione riparativa che possono svolgere all’interno dei processi di trasmissione e di storicizzazione. 

Un vertice di riflessione che conduce non soltanto alla psicoanalisi e allo spazio clinico fra paziente analista, che comprende l’ascolto della parola -quando c’è- così come del silenzio, dell’agito, della somatizzazione, di ciò che passa-non passa tra le generazioni,  in un continuo stare/trovare un passaggio segreto che possa dischiudere a frammenti psichici immemorabili, un po’ come può capitare a Trieste, nel camminare, di ritrovarsi a fare una svolta che ti porta all’improvviso a traguardare il mare.

Ma che riporta anche alla dimensione collettiva della cittadinanza, della cultura e dell’imprescindibile necessità della presenza di un terzo che nel riconoscere, provi a ristabilire un ordine delle responsabilità. ‘Forse’ -scrive Gregorin- Bruno, Vasco e Liliana avrebbero avuto bisogno di qualcuno che gli mettesse una mano sulla spalla per dirgli che era finita, che ora spettava alla legge punire i crimini e al nuovo stato premiare gli atti generosi. Invece, dopo la guerra c’è stato solo il silenzio. Nessuna spiegazione, nessuna pacificazione. Si doveva andare avanti come vuole la necessità della sopravvivenza.

Dell’assenza di questa traccia parla ‘l’Ultima testimone’.

Altounian J., Tradurre ciò che non ha potuto dirsi, Psiche 2/2015

Mucci C., Il dolore estremo. Il trauma da Freud alla Shoah, Borla, 2008

Rosenblum R., Si può morire a causa del dire? Primo Levi, Sarah Kofman, Notes per la psicanalisi, n°8, 2016

Sonnino A., Trauma della Shoah, ebraismo e psicoanalisi, Angeli, 2022

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