Cultura e Società

“Opus Incertum” di G. Pellizzari. Recensione di A. Moroni

27/01/20
“Opus Incertum” di G. Pellizzari. Recensione di A. Moroni

OPUS INCERTUM. Psicoanalisi, Conoscenza, Spiritualità.

di Giuseppe Pellizzari

(Mimesis Edizioni, 2019)

Recensione a cura di Angelo Moroni

Ho provato un sottile senso di vertigine nel leggere questo libro, ahimè postumo, di Giuseppe Pellizzari, e per diverse ragioni che cercherò qui di descrivere. La prima risiede nel fatto che l’Autore è stato uno dei miei più importanti maestri di psicoanalisi: l’ho frequentato per quasi vent’anni anni, prima come supervisore di training, poi come collega e amico, e ancora come fondatore e coordinatore, insieme a Vanna Giaconia, del Gruppo di Ricerca clinica sull’Adolescenza, del Centro milanese di Psicoanalisi. Più recentemente ci incontravamo quindicinalmente a casa di una molto ospitale collega di Milano, a discutere di casi clinici, per poi pranzare insieme. A casa della collega ciascuno era solito portare qualcosa, chi della farinata genovese, chi un dolce, chi una torta salata. Era sempre un piacere discutere insieme a lui, a tavola, di libri, film, serie TV, di filosofia, di psicoanalisi, e di pittura, sua grande passione (era anche un fine artista, e ogni tanto ci regalava qualche suo disegno).  Quando penso a quegli incontri mi viene in mente l’immagine di un villaggio africano in cui alcuni abitanti si riuniscono sotto un baobab intorno ad un “anziano del villaggio”, pacato e saggio, attorno ad un “senior” le cui parole erano sempre lievi e insieme toccanti, dense di esperienza, e, soprattutto, mai fatte cadere dall’alto. Non eravamo noi ad andare nel suo studio a parlare di clinica, era lui che veniva da noi. Il suo senso dell’umiltà e la sua discrezione sono valori che porterò sempre dentro di me. Quella del villaggio africano credo sia l’immagine di una convivialitá umana, delicata e affettivamente autentica, che mi è  capitato di sperimentare così intensamente in pochi altri gruppi di psicoanalisti al lavoro. La seconda ragione della leggera sensazione di vertigine percepita durante la lettura di questo libro, è dovuta al fatto che mentre lo leggevo, mi sembrava di avere in mano una parte importante dell’eredità del suo pensiero: un qualcosa di molto prezioso, da lui pensato e scritto durante il periodo della sua malattia e fatto pervenire, come ultima stesura all’editore solo poche settimane prima della sua morte. Un’eredità, un lascito culturale – pensavo leggendo- che lui certamente avrebbe desiderato che noi amici e colleghi avremmo fatto fruttare durante il proseguimento del nostro comune cammino di ricerca psicoanalitica, durante le nostre successive “esplorazioni”, termine a lui particolarmente caro. Perché, infatti, “Opus incertum” è innanzitutto il resoconto di un’esplorazione interiore profonda e sentita, dell’Autore, di quella che definirei la sua visione della filigrana più caratteristica dell’Umano, nonché delle sue origini, del suo “darsi”, della sua epifania. Si tratta di un resoconto condotto con un rigore filosofico sempre in dialogo con la psicoanalisi, intesa in primis come esperienza clinica, come relazione che cura, come Amore, come Grazia che accoglie l’altro e la sua sofferenza, trovando per l’altro sempre un posto, uno spazio. Solo a partire dall’esperienza della relazione, che modifica simultaneamente sia il paziente che l’analista, è possibile arrivare alla “teoria”. La conoscenza infatti, per Pellizzari, è innanzitutto un atto fondato eticamente, nel senso che parte dalla relazione con l’altro, dal riconoscimento preliminare della sua unicità e alteritá. La conoscenza è relazione. Per questo Pellizzari, oltre il Wittgenstein del “Tractatus logico-philosophicus” (1922), cita soprattutto il Lèvinas di “Altrimenti che essere” (1978), opera nella quale il filosofo lituano mette in crisi il primato dell’ontologia su quello dell’etica, poiché l’Amore viene prima dell’Essere: l’Essere dell’individuo non è infatti possibile prima di un atto d’amore e di un riconoscimento che lo fonda: è l’amore della coppia dei genitori, e soprattutto quello che soffonde lo sguardo materno nell’incontrare e riconoscere l’Essere peculiare, unico, differenziato, del suo bambino. Uno sguardo che si fa concavo, accogliente, che si fa spazio e fa spazio. L’Essere dell’uomo, per Pellizzari, ha cioè, innanzitutto, uno statuto affettivo.

Il libro è suddiviso in capitoli tematici, tra cui, emblematicamente “Limite”, “Lavoro”, “Alteritá”, “Incompletezza”, “Identità”, “Tempo”, e si chiude con un’apertura, cioè con il capitolo dal titolo “Ricercare”. Ogni capitolo è per così dire “a sé stante”, cioè lo si può leggere separatamente rispetto agli altri, perché agli altri è simultaneamente legato e slegato,  per ciò che sembra essere un intendimento specifico dello stesso autore. I titoli dei capitoli non identificano infatti aree concettuali vere e proprie, quanto piuttosto, dovremmo dire,  aree semantiche aperte. Ogni capitolo è infatti una sorta di “segno” dal quale si ramificano altre significazioni generative di senso. Per utilizzare una metafora creata dallo stesso Autore, potremmo definire quest’opera come una città, anzi come una Medina araba, nei cui vicoli perdersi per ritrovare se stessi e il nomadismo innato del nostro essere individuale, che è poi lo stesso che contraddistingue l’Essere universale dell’Uomo, le sue contraddizioni, le proprie originarie incompletezza e fragilità. Come scrive Pellizzari nel capitolo “Trasversalità”, “ Da ogni segno si dipartono tante strade, come da una piazza. Strade che si allontanano, apparentemente, da quel segno iniziale, e portano altrove, verso altri segni, dei quali, ancora, nuove strade si dispiegheranno a raggiera. Attorno a ogni segno si costruisce una città di segni. Naturalmente,  come appunto nascono le città. Come un albero. Non l’albero di Porfirio, che parte dall’astratto e man mano si avvicina alla terra. Ma l’albero della vita, che da seme terrestre genera una ramificazione spontanea imprevedibile” (p. 90). Allo stesso modo, in “Opus incertum” ogni capitolo è una piccola piazza da cui si dipartono molte strade di senso, in modo modulato, naturale, a promuovere un cammino associativo del pensiero, che proprio facendosi nomade e perdendosi in variegati intrecci polisemici, dunque può ritrovare il suo senso, sempre e comunque incerto ed incompiuto.  È il senso di un eterno cercare, di un continuo essere sorpresi, ad ogni angolo di via, da un orizzonte inedito, da un’aurora di pensiero, da quella che Pellizzari chiama la meraviglia. Si tratta dello stesso stupore che prova il bambino quando gioca con un oggetto della sua vita quotidiana, trasformandolo transizionalmente in un altro oggetto (una palla, ad esempio che diventa un’astronave, oppure un mondo che ruota intorno al sole). È infatti attraverso l’esperienza e la relazione con la realtà che il bambino, ma anche l’uomo in generale, conosce se stesso e il mondo. E’ questo un tema complesso e fecondo che Pellizzari aveva ampiamente trattato anche nella sua precedente opera, “L’oggetto” (2015).

Non è un caso che “Opus incertum” porti il sottotitolo “Psicoanalisi, conoscenza, spiritualità”, infatti esso va visto anche come un forte richiamo alla Psicoanalisi stessa perché non si fissi ossessivamente in schemi identitari e in sistemi teorici e metapsicologici troppo cristallizzati,  ma che al contrario sia capace a sua volta di “giocare”, di oscillare tra esperienza clinica, teoria e riflessione sui grandi temi esistenziali e spirituali che la vita ci pone continuamente innanzi. Un richiamo forte all’insaturo, ad un inconscio inteso come ignoto che ci interroga e chiama ad una sua inesausta esplorazione: quell’ignoto infatti siamo noi stessi, che ci portiamo dietro fin dall’inizio dei nostri giorni questa nostra originaria incompletezza, questa nostra perturbante hilflosigkeit che ha sempre bisogno dell’altro, del suo amore, della sua comprensione. E’ in questa prospettiva che vanno intesi, a mio avviso, i costanti richiami alla religione, che si spingono fino al concetto bioniano di “mistica”: una “religione” vista da Pellizzari non solo e semplicemente come “Avvenire di un’illusione” (Freud, 1927), ma al contrario come imprescindibile metafora della tensione dell’uomo verso il “Mistero delle cose” (Bollas, 2001) che lo circonda e di cui fa parte. Le religioni vanno cioè interrogate in modo trasversale, per il loro messaggio spirituale universale, per il loro riferirsi ad un “sacro” che poi è sempre in ogni caso insito nel vivere dell’uomo. Parallelamente, e ancora una volta metaforicamente, sembra indicarci l’Autore, è importante quindi che anche la Psicoanalisi non si chiuda in dogmatismi teorico-religiosi fini a se stessi poiché il “significato” continuamente si concentra e si decentra: “Come un respiro. Se si concentra troppo finisce con l’annullarsi in una progressiva asfissia, se si decentra troppo si disperde e svanisce. Deve trovare un ritmo. Le parole devono respirare per vivere. Il significato deve mantenere un suo nomadismo” (p. 90). La Psicoanalisi, sostiene Pellizzari, non può per sua stessa natura chiudersi nel fortino delle proprie certezze scientifiche o di scuola, ma deve continuamente farsi perturbare da una realtà che è sempre in movimento, e deve spiazzarci, continuando a portare la sua “peste” nel mondo. Infatti “Il respiro dei segni prosegue per tutta la vita. Il lavoro del pensiero non può legarsi rigidamente alle proprie acquisizioni, le ritiene provvisorie, come un campo base da cui partire verso altrove. Le scoperte scientifiche procedono da qualcosa di acquisito che viene messo in discussione, non come qualcosa da scartare, ma come qualcosa che sembra indicare nuove vie attraverso la propria incompletezza” (p. 91). Un pensiero troppo aggrappato alla propria identità, alla propria “teoria”, come ad un feticcio, è infatti un io regredito, invischiato e chiuso nella sua paranoia, ci ricorda ancora Pellizzari.

 

Nel volume si sentono chiari echi dell’insegnamento di Davide Lopez, analista e maestro dell’Autore, nonché di Giovanna Giaconia, soprattutto per quanto riguarda gli studi psicoanalitici di Giaconia sul linguaggio, con particolare riferimento ai collegamenti tra la  Psicoanalisi e la linguistica generativo-trasformazionale di Noam Chomsky (Chomsky,1972; Giaconia, Pellizzari, Rossi, 1997).

Ma è lo stile di scrittura, ciò che colpisce maggiormente: il testo è caratterizzato da un senso di leggerezza che lo attraversa come una fresca brezza marina che ad ogni refolo ci indica la direzione di una ricerca della scaturigine del pensiero. La ricerca di un luogo delle origini, dello spazio-tempo del venire al mondo, della meraviglia originaria dell’incontro tra Sé e Altro, sempre irraggiungibile, sempre ulteriore. Uno stile di scrittura che ricorda il Calvino di “Se una notte d’inverno un viaggiatore” (1979), stile che il lettore vive come un abbraccio, fin da subito, che lo coinvolge e avvolge pur mantenendo intatta la leggerezza ritmica del suo prosodiare. Personalmente, oltre a Lopez e Giaconia, ho ritrovato nel testo anche rimandi impliciti agli Indipendenti inglesi, particolarmente al Bollas de “La mente orientale” (2013) e a Masud Khan, quando lo psicoanalista anglo-indiano parla della mente del terapeuta come di un “campo lasciato a maggese” (1983). Rimandi espliciti sono invece quelli relativi a Winnicott,  in particolare a “Gioco e realtà” (1971), alla sua tematizzazione del concetto di “spazio transizionale”, e soprattutto al lavoro di Winnicott con gli adolescenti (i giovani pazienti a cui Pellizzari si è dedicato con totale dedizione clinica per una vita intera).

 

Come scrive uno dei suoi due figli, Giacomo Pellizzari, nella commovente, toccante premessa al volume, “Opus incertum” è una “sorta di visione d’insieme, di conclusione ultima sulle cose cui era arrivato” (p. 10), e non si può che concordare con lui. A noi allievi, amici, colleghi, non rimane dunque solo quell’immagine di noi seduti con il nostro Maestro sotto il baobab a discutere di psicoanalisi, adolescenza e contemporaneità. A partire da questa “conclusione ultima sulle cose cui era arrivato”, Giuseppe Pellizzari lascia a noi l’appassionante compito di continuare le sue esplorazioni, di tenere viva la passione del suo “ricercare” psicoanalitico ed esistenziale. Un compito importante, al quale certamente non ci sottrarremo.

 

Riferimenti bibliografici

 

Bion, W. R.(1992), Cogitations-pensieri. Armando, Roma, 1996.

Bion, W. R.(1970), Attenzione e interpretazione, Armando, Roma, 1973.

Bollas, C. (1999), Il mistero delle cose, Raffaello Cortina, Milano, 2001.

Bollas, C. (2011), La mente orientale. Psicoanalisi e Cina, Raffaello Cortina, Milano, 2013.

Calvino, I. (1979), Se una notte d’inverno un viaggiatore, Einaudi, Torino.

Chomsky, N. (1972), Il linguaggio e la mente, Bollati Boringhieri, Torino, 2010

Freud, S. (1927), L’avvenire di un’illusione, O.S.F. Vol. 7.

Khan, M. (1983), I sé nascosti, Bollati Boringhieri, Torino, 1990.

Lévinas, E. (1978), Altrimenti che essere, Jaka Book, Milano, 1983.

Giaconia, G., Pellizzari, G., Rossi, P. (1997), Nuovi fondamenti per la tecnica psicoanalitica, Borla, Roma.

Lopez, D. (1996), Il mondo della persona, Raffaello Cortina, Milano.

Pellizzari, G. (2015), L’oggetto. Viaggio di uno psicoanalista ai confini dell’esperienza, Antigone, Torino.

Winnicott, D. W. (1971), Gioco e realtà, Armando, Roma, 2005.

Wittgenstein, L. (1922), Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino, 2009.

 

Gennaio 2020

 

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