Cultura e Società

Parlando di e con Eshkol Nevo e del film Tre piani. M.G. Gallo

4/11/21
Parlando di e con Eshkol Nevo e del film Tre piani. M.G. Gallo

Parlando di e con Eshkol Nevo e del film Tre piani

A cura di Maria Grazia Gallo

I tre piani dell’anima non esistono dentro di noi.

…Esistono nello spazio tra noi e l’altro, nella distanza

 tra la nostra bocca e l’orecchio di chi ascolta la nostra

storia.

Altrimenti, tutti soli, non sappiamo nemmeno a che piano

ci troviamo, siamo condannati a brancolare nel buio….

Eshkol Nevo                                                              

Ho conosciuto Eshkol Nevo un pomeriggio di un’estate torrida nel 2019 quando venne a presentare nella mia città (Como) il suo ultimo libro: Tre piani.

Il suo nome e la sua scrittura erano a me già noti e familiari per il fatto di essere appena stata in Israele e aver letto diversi suoi libri, apprezzando in particolare La simmetria dei desideri.

In quell’occasione si diceva innamorato del lago di Como e riferendosi al caldo particolarmente intenso, ringraziava chi era venuto ad ascoltarlo preferendo lui ad una “fresca doccia” o ad una bella nuotata nelle acque lacustri.

Ma non appena iniziò a parlare di sé, del suo modo d’intendere la vita, la scrittura e del suo ultimo libro, credo che le sue parole per tutti noi presenti risultarono refrigeranti per la mente e per lo spirito.

Grande lettore di Freud e grande appassionato di cinema, ci spiegò come avesse costruito l’impianto del romanzo riferendosi a quello freudiano delle tre istanze psichiche (della seconda topica) e come fosse in cantiere la sua trasposizione cinematografica con la regia di Nanni Moretti.

Pensai subito: “come si combina un Nanni Moretti con E. Nevo e questo suo libro?”. La risposta sarebbe arrivata poco dopo.

Mentre parlava, risuonarono, sovrastando le sue parole, i rintocchi delle campane di una splendida chiesa romanica nella piazza.

Nevo si zittì e poi commentò che forse non era stato casuale quello “scampanellio”: stava forse dicendo delle sciocchezze, cose inutili? O occorreva fare una pausa, un silenzio e mettersi in ascolto: di se stesso e degli altri?

Era lì, certo, per parlare di sé e del suo libro, ma anche in ascolto di quello che noi avremmo detto, chiesto, di come avremmo reagito alle sue parole perché l’ascolto per lui ha sempre costituito il maggiore fascino: senza l’Altro non c’è “storia” e quindi non c’è neanche scrittura.

Non potevo e non posso che sentirmi in profonda sintonia con lui e con il nostro “mestiere dell’ascolto” dell’Altro.

Noi siamo perché esiste l’Altro ed è sull’Altro che si fonda la nostra identità e il nostro senso di appartenenza al gruppo.

A questo punto mi sono venute improvvisamente in mente come dei flash le ormai celebri parole pronunciate da Nanni Moretti in Caro Diario: “I medici sanno parlare, ma non sanno ascoltare! E comunque “le parole sono importanti!!!” (in Palombella Rossa, dopo aver mollato un ceffone all’intervistatrice).

Diversi hanno criticato questo film e la regia di Nanni Moretti ormai “vecchio” , ma al di là del suo stesso ironico e caustico commento (“certo, s’invecchia di colpo e di sicuro, soprattutto se a vincere a Cannes è un film in cui la protagonista rimane incinta di una Cadillac…”) credo che il film, pur con tutti i limiti di una trasposizione cinematografica di un libro, abbia molti pregi e si mantenga fedele allo spirito e all’intento dell’autore israeliano : le nostre vite sono inestricabilmente intrecciate le une alle altre; l’Altro siamo noi, la nostra storia, ciò che è presente e ciò che ci ha preceduto nel bene e nel male, nella cosiddetta normalità e nella follia.

A tale proposito ho trovato geniale la scena iniziale del film che si discosta dall’incipit del libro e che condensa, con un impatto violento e traumatico, le vite dei personaggi e ciò che testimoniano e rappresentano: istanze troppo rigide o eccessive, conflittuali tra di loro, la difficoltà e al contempo la ricerca dolorosa del dialogo e delle relazioni interne ed esterne.

Si aprono drammatici ed attualissimi interrogativi: cos’è l’etica? Quale il giusto senso della giustizia? (si pensi alla recente sentenza nei confronti del sindaco Mimmo Lucano e alle reazioni suscitate). Chi sono i nostri figli e in che modo c’interrogano sulle nostre mancanze, desideri, nodi irrisolti e sulla nostra storia? Quale maternità e quale paternità?

La scena è questa: un adolescente (Andrea) ubriaco alla guida sfrenata di una macchina investe ed uccide una donna e sfonda letteralmente e fisicamente lo studio/abitazione di Lucio, padre di una bambina e la cui casa interna vacillerà per le crepe di suoi dubbi angoscianti e impulsi che si riveleranno incestuosi. Assiste sgomenta e quasi sfiorata dalla tragedia, una giovane donna (Monica) e neomamma che sta per dare alla luce un figlio: nascita e morte, Eros e Thanatos in una stessa sequenza. Sul luogo del tragico incidente accorrono i genitori del ragazzo (Vittorio e Dora), due giudici entrambi: lui dallo sguardo implacabile, lei più mitigato da preoccupazione materna e tentativi di riparazione.

La storia parte da qui e si dipana: nel libro raccontata da un uomo (Arnon /Lucio) che parla al ristorante ad un amico che non vede da tempo, da una donna (Hani/Monica) che scrive una lettera ad un’amica e da una moglie vedova (Dvora /Dora) che parla al marito morto attraverso la segreteria telefonica: il bisogno di raccontarsi, ma soprattutto di essere ascoltati.

I tre piani sono quelli di un condominio elegante e borghese dove abitano le tre famiglie e i protagonisti delle storie. Quest’ultimi sono tratteggiati dallo scrittore con raffinatezza e acume psicologico, avvalendosi di tanto in tanto di considerazioni d’ispirazione “freudiana”.

Al primo piano abitano Arnon e Ayelet (Lucio e Sara nel film) con la figlia Ofri (Francesca ) di sette anni , una bambina che, dalla descrizione che ne fa Nevo, si direbbe precocemente adultizzata, una “poppante saggia” (S. Ferenczi) silenziosa , che “digerisce, riflette, soppesa”, con una grande capacità empatica, d’intercettazione di stati d’animo, desideri degli adulti e climi emotivi; spesso viene affidata dai genitori ad una coppia di anziani, Hermann e Ruth (Renato e Giovanna), che abitano sullo stesso piano.

A tale proposito ho trovato significativo e illuminante un sogno della moglie (ce ne sono diversi nel libro) improvvisamente rievocato da Arnon in cui c’è un capovolgimento di ruoli, della serie “chi cura chi ?”: il chirurgo Hermann da medico col camice si disvela paziente con la camiciola operatoria e rassicura  la madre del buon esito dell’intervento non della figlia realmente malata, ma di Ofri, quella percepita come la “più forte” che “può cavarsela meglio”.

Tra madre e figlia il rapporto è complesso e conflittuale: Ayelet, identificata con l’aggressore (una madre violenta verbalmente e fisicamente, che la picchiava con la cinghia in un “quartiere “bene” di Tel Aviv), ferisce, mortifica e aggredisce a sua volta la piccola come “un pungiglione ben camuffato dal miele”.

La bambina “radar”, che ben sa intercettare difensivamente lo stato mentale dell’Altro,percepisce e afferma che  Hermann è “guasto” e cioè sembra soffrire di un principio di decadimento senile o di Alzheimer e i due una sera scompaiono per diverse ore; vengono ritrovati dallo stesso Arnon nel bosco, meta abituale di padre e figlia: l’anziano è coricato in grembo alla piccola che con un capovolgimento di ruoli cerca di consolarlo e contenerlo. A tale vista, l’angoscia del padre cresce sempre di più e la paura che possa essere accaduto qualcosa di terribile si trasforma in una vera e propria ossessione: fantasie di molestie, di profanazione (stupro) all’interno di un rapporto i cui segnali morbosi nella relazione tra l’anziano e la piccola gli sembra ora di rinvenire sin dall’inizio.

Hermann dal canto suo non ricorda nulla e non può essere rassicurante né tantomeno rispondere alle incalzanti domande sull’accaduto di Arnon  che arriva ad aggredirlo fisicamente: l’amnesia senile che Lucio tenta disperatamente e invano d’interrogare sembra alludere e parlare di una sua parte dissociata forse a causa di un evento traumatico e di una questione irrisolta.  

Arnon e la vicenda che lo coinvolge rappresenta nell’intento dell’Autore l’istanza dell’Es, degli impulsi primordiali e dell’istinto, del desiderio senza limiti e barriere di alcun tipo, tantomeno generazionali: è impulsivo, in preda a sentimenti contrastanti e caotici e proietta in continuazione sulla vicenda la sua stessa morbosità e i suoi stessi impulsi.

Quando la nipote adolescente di Hermann, Karin (Charlotte nel film)), in visita ai nonni, va a trovare anche lui (Arnon) tra i due inizia un’ambigua relazione fatta di complicità e di sottintesi.

Karin è alle prese con le turbolenze e tutte le insicurezze dell’adolescenza; è alla ricerca di conferme narcisistiche rispetto al proprio corpo che cambia, alla possibilità di essere amata e guardata e di potersi rispecchiare nello sguardo dell’Altro; Arnon è stato il suo “amore” (edipico) infantile e con lui sfodera tutto il suo potere seduttivo: nel tentativo ossessivo di svelare il “mistero“ di ciò che secondo lui e proiettivamente può essere accaduto, Arnon lo agirà cedendo alla tentazione incestuosa con un rapporto sessuale “goffo” come lui stesso lo definirà.

Arnon può confessare tutto questo ,in prima battuta a se stesso e interrogarsi, perché c’è l’amico scrittore fidato e paziente che lo ascolta e al quale dice: “Apprezzo davvero il fatto che sei qui da due ore ad ascoltare le mie seghe mentali”.

Nel frattempo al secondo piano la fragile Hani  (nel film una strepitosa Alba Rohrwacher e rappresentante nelle intenzioni dell’autore l’istanza dell’Io) è  alle prese con la sua prima esperienza di maternità vissuta, in una coazione a ripetere, in piena solitudine (il marito ingegnere è assente per lunghi periodi a causa del lavoro) così come lo è stata la sua solitudine emotiva, in assenza di uno sguardo materno ricettivo perché in preda alla follia: la madre è ricoverata da tempo in una clinica per disturbi mentali.

Della sua storia veniamo a sapere, inoltre, che il padre è scappato in America quando lei aveva cinque anni.

Hani ha paura che se non racconta a qualcuno cosa le sta succedendo impazzirà e per questo scrive una lunga lettera/mail all’amica d’infanzia ,si direbbe un suo alter ego ideale, che, a differenza sua , “ha trovato la sua posizione nello scacchiere della vita”e verso la quale prova una “dolorosa invidia”.Tuttavia e proprio per questo è solo l’amica che sa e può ascoltarla.

A lei Hani chiede disperatamente “raccontami di me, così mi ricordo chi sono” per evitare o scongiurare lo “sbriciolamento”.

La lotta interiore di Hani  con i suoi fantasmi sarà dura: sempre più immersa nella solitudine evocherà allucinandola la presenza dell’Altro anche sotto forma del cognato, figura reietta dal fratello e al limite “folle” della legalità, in fuga, come lo è lei da se stessa e  respinto e rifiutato, come lei dalla madre, in cerca di un rifugio. Nella sua mente lo accoglierà.

Le sue voci interne persecutorie le parlano in forma allucinatoria attraverso un barbagianni e poi più barbagianni che dicono “solo cose brutte”, sul suo “modo di essere madre”.

Nonostante sia invasa dai fantasmi della follia materna (i “ghosts della nursery” di S. Fraiberg) Hani si cimenta con molta delicatezza e tenerezza nel suo ruolo di madre: sembra che qualcosa di buono anche se implicito ci sia stato nella relazione tra madre e figlia e che sia possibile far ricorso e appello agli “angeli della nursery” (Lieberman): di fatto un “angelo” arriva ed è la condomina del terzo piano (Dvora) alla quale la giovane madre chiede aiuto: nel film le chiede di farle compagnia e assisterla mentre fa il bagnetto alla sua piccola.

Questa scena è inedita e introdotta dalla regia di Moretti: in tal senso si differenzia dalla scena del libro (dove Dvora dice di aver visto davvero una persona aggirarsi nei pressi dell’appartamento di Hani)  e sembra spostarne genialmente il focus: la rassicurazione rispetto alla paura di follia e ad un’identificazione massiccia con una figura materna folle e inadeguata, non passa attraverso la smentita della realtà, ma attraverso la possibilità di una buona identificazione con una figura materna diversa e riparativa della propria.

La presenza, l’ascolto silenzioso ma partecipe e lo sguardo dell’Altro rassicurano la neomamma che può fare esperienza per la prima volta (esperienza correttiva) e anche se in un arco di tempo breve, di un buon contenitore e di una madre “sufficientemente buona”, in questo caso Dora: anche per lei questa è una nuova esperienza che metterà in moto e le permetterà il riavvicinamento al figlio. E contemporaneamente si avvierà in Dvora una vera e propria trasformazione.

Tutti i personaggi sembrano essere alla ricerca di una “casa” e anche Dvora ne è alla ricerca di una nuova e di una sua nuova identità dopo la morte del marito Michael (Vittorio): quest’ultimo, suo compagno di una vita, dopo l’ennesimo scontro violento con il figlio Adar (Andrea) che vuole scampare al processo per omicidio colposo, l’ha messa di fronte ad un aut aut drammatico: essere solo moglie e non avere come lui mai più rapporti con il figlio o solo madre.

I due coniugi, entrambi giudici e genitori di Adar vivono ed esercitano il loro ruolo sia genitoriale sia di giudici in modo diverso.

Michael incarna un Super-io molto rigido, severo, disumanizzante e implacabile e come genitore inchioda il figlio alla Legge con la elle maiuscola e alle sue responsabilità: dura Lex sed Lex e la sua integrità, come dice lo stesso Nanni Moretti, “sembra fargli perdere l’umanità” e la pietas. Il disprezzo per il figlio è annichilente, non dà chances di riscatto e di possibile perdono (“Sei un cretino e ci hai sempre deluso”).

Anche Dvora e il suo senso materno e di giustizia sono messi a dura prova, ma sfiorati dal dubbio, dall’interrogazione: più che risposte o affermazioni assertive e giudicanti, si fa molte domande tesa al recupero di un rapporto difficile con il figlio.

Le donne sia nel testo sia nel film sono più mosse da istanze riparative: cercano di “ricucire e di dare spazio all’altro” (Nanni Moretti) a partire dalla stessa pacata ed equilibrata Ayelet/Sara, moglie dell’intemperante e adolescenziale Arnon/Lucio; al contrario, gli uomini sono inflessibili, “fermi e ostinati nelle loro convinzioni” e poco o per niente disposti al dialogo interno e con l’Altro.

Non è sicuramente un caso che N. Moretti abbia accettato di vestire i panni di un giudice implacabile (“Il libro mi riguardava e mi parlava”): forse negli anni il suo giudice interno si è inasprito e ci ha lottato molto così come con la sua visione cupa del mondo e la progressiva caduta delle illusioni (anche ideologiche e politiche). Qualcuno ha rimproverato di non ritrovare più il solito regista e criticato la cupezza e i toni drammatici, anti-ironici di questo film. Ma è lo stesso Moretti a dire che nel periodo in cui l’ha ideato (dell’emergenza pandemica) “non c’era spazio per l’ironia”.

Nevo fa dire ai suoi personaggi (Dvora, Hani) che il più grande segreto che possiamo nascondere al mondo è  quello della vulnerabilità e che tutti noi, in fondo,  a causa delle nostre storie, viviamo profonde solitudini , ma possiamo sopportarne solo una parte. E’ importante poterle condividere ed essere ascoltati e accolti.

Le storie di Nevo non si sa come andranno a finire, ma sembrano suggerire quale può essere il rimedio e aprire ad una speranza : la presenza di un Io ricettivo e di un ascolto partecipato ed empatico. “Altrimenti, tutti soli, siamo condannati a brancolare nel buio”.

 Anche alla fine del film, nonostante tutto, sembra aprirsi uno spiraglio per tutti: forse c’è la possibilità di riavviare il dialogo con se stessi e con l’Altro, di maggiore indulgenza e riconciliazione con se stessi e di  apertura al mondo: tutti gli abitanti dei tre piani e protagonisti, ormai inevitabilmente mischiati, si ritrovano in strada richiamati dalle note di un corteo che sfila al ritmo del ballo più sensuale e passionale tra tutti i balli: il tango che intreccia passi, movenze e corpi.

E’ una scena di sapore felliniano e forse un omaggio a lui: metafora di come le passioni e il desiderio, così come la dimensione del piacere possano prendere vie più vitali e alleggerire la dimensione pur complessa e faticosa del vivere e delle relazioni.

Tutti sorridono, ma soprattutto sorride il “giudice” Nanni Moretti e il suo sguardo sembra essere prospetticamente più sereno; non può non venire in mente il Nanni Moretti della memorabile scena, quando in Caro diario guarda ballare, compiaciuto e con invidia, una splendida e sensuale Silvana Mangano e sembra voler esclamare: “come mi piacerebbe saper ballare come lei!”. Forse questa volta sente che ci può provare e che chissà… un po’ ce la farà.

Concludo con le parole di Nevo a commento di questo film: “E’ come camminare nel tuo sogno più bello, in un sogno profondo… Spero e credo che questo film c’insegni a perdonare a se stessi e agli altri e a ricordare che la nostra felicità è sempre legata a doppio filo alla felicità degli altri”.

Tre piani” di Eshkol Nevo. Recensione di Daniela Federici

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