Cultura e Società

Per approfondire la riflessione fra psicoanalisi e letteratura. M.F. Turno intervistato da D. Federici

7/11/22
Per approfondire la riflessione fra psicoanalisi e letteratura. M.F. Turno intervistato da D. Federici

PSICOANALISTI SCRITTORI

Intervista a Marcello F. Turno per approfondire la riflessione fra psicoanalisi e letteratura

a cura di Daniela Federici

parole chiave: #psicoanalisi, #letteratura, #psicoanalisieletteratura, #creatività

“Leggete in profondità, non per credere,

non per accettare, non per contraddire,

bensì per imparare a partecipare

dell’unica natura che scrive e legge”

Bloom, Come si legge un libro

Marcello F. Turno è psichiatra, psicoanalista SPI e IPA e della Federazione Europea di Psicoterapia Psicoanalitica (EFPP). È stato il promotore della Commissione sui media della SPI e l’ideatore del “premio Musatti”. Docente di Psicogeriatria presso un ateneo romano, oltre alla clinica ha svolto attività di ricerca in collaborazione con l’ISTC-CNR di Roma.

Ha collaborato durante gli studi di medicina con il coreografo-regista Gianni Notari (Teatro dell’Opera Roma, La Fenice Venezia) scrivendo numerose azioni sceniche per teatro-danza, fra cui Pater noster, Ichspaltung, Metamorphosis, Pirandello, Amlet, D’Annunzio, Saffeides, realizzate dal Nouveau Theatre du Ballet International di Venezia e da Immagine Danza di Roma.

Ha ideato il dramma manicomiale Electra per il Centro Drammatico Sperimentale di Genzano e Io Cesare, Bruto, forse la rivoluzione…, messo in scena con un gruppo di ex tossicodipendenti curando egli stesso la regia.

Ha scritto con pseudonimo e a quattro mani: Naomi ci ha stressato (Castelvecchi). Ha collaborato con Paolo Bianchini alla sceneggiatura di L’uomo del vento (Rai-Fiction) e ha ceduto con opzione a RAI-Cinema il soggetto Cambio loco. Ha pubblicato fra saggio e fiction Il mancato suicidio di Luigi Pirandello (Teda, 1a ed.) (Alpes, 2a ed.) e i racconti Storie nere in stanze d’analisi (Alpes). Di recente pubblicazione L’ispettore Fortunato (Alpes), un noir vintage ambientato nel 1953 che riporta fedelmente fatti di cronaca e atmosfere di quel periodo.

È giunto due volte finalista nel torneo IoScrittore con due differenti romanzi. È autore di saggi brevi di psicologia e psicoanalisi e di un manuale di psicogeriatria, Una notte senza luna (laBiblioteca 1a e 2a ed., Alpes 3a ed). Ha ricevuto il premio speciale “Moscati”, nell’ambito del “Premio Cronin 2022” per medici-scrittori, con un racconto di vita vissuta: il ritrovamento della documentazione fotografica della dr.ssa Luisa Guidotti uccisa in Zimbabwe durante il governo razzista di Jan Smith.

D.F. Per riflettere sulla letteratura partirei dalla parola: da analisti ne conosciamo bene l’importanza come strumento per portare alla coscienza, per quel farsi psichico che si appropria della realtà conferendole un senso, che costruisce il mondo interno facendone uno strumento di contenimento, elaborazione e comunicazione. La parola nasce nella carne, la sua magia e il suo potere evocativo scaturiscono dal linguaggio primordiale che l’ha vista prima di tutto un atto senso-motorio. Freud considerava poeti e scrittori alleati preziosi, spesso più avanti nella conoscenza del profondo, perché attingendo a fonti personali e invisibili, riescono a dare forma a ciò che lo studioso arriva a comprendere solo attraverso un lavoro faticoso. E suggeriva agli psicoanalisti di coltivare interessi umanistici per non trovarsi smarriti di fronte al narrarsi del paziente, perché il lavoro analitico è un dialogon, l’incontro di due testi che si intrecciano trasformandosi, estendendo lo psichico e il senso nella polisemia delle forme simboliche, in uno spazio intermedio che è comune all’opera creativa.

Come arrivi alla scrittura di un testo letterario e quali scrittori ti hanno ispirato di più?

M.F.T. Testo letterario è una parola grossa e impegnativa. Questa passione dello scrivere nasce durante l’adolescenza. Negli ultimi anni del liceo mi divertivo a descrivere momenti scolastici in cui prendevo in giro compagni e docenti. Ebbene la professoressa di lettere mi dava il permesso di leggere questi componimenti satirici con il consenso dei compagni che si divertivano sì, mentre qualcuno un po’ se la prendeva. Certo in quel momento il mio modello era Marziale, Tito Maccio Plauto e il loro italicum acetum, il prendere in giro per il prendere in giro,insomma l’ironia che tutt’oggi mi accompagna… Sicuramentesono stato un lettore precoce e compulsivo (e una cosa a cui tengo molto è che non ho guardato la TV dai 18 ai 36 anni, salvo qualche partita o Tribuna politica) e già nella prima adolescenza spaziavo da Twain a Manzoni, da London a Pasternak e Dostoevskij. Però ascoltavo la radio e leggevo.  Ma mi sono confrontato la prima volta con quello che si chiama stile leggendo Verga e Allan Poe, due scrittori all’opposto e così se mi veniva in mente qualche storia (ma chissà perché vengono in mente storie) le scrivevo alla maniera di… Solo ai diciotto anni arrivo a una mia composizione originale in una sorta di stream of consciusness di immagini e situazioni che descrivevano il mondo emozionale del protagonista. Una cosa abbastanza difficile e complicata che mi valse, bontà loro, il primo premio in un concorso interscolastico.  Ero comunque digiuno di psicoanalisi e avevo solo letto un libro di Jung sui tipi psicologici che, devo dire, mi affascinò e mi fece decidere per la mia futura strada.  

Comunque, per tornare alla domanda, c’è sempre una noxa, un qualcosa di distonico, un particolare che non sempre è al suo posto e mi parassita la mente, un pensiero balocco con cui mi metto a giocare e che pian piano si carica di particolari, quando mi sento saturo comincio a scrivere aprendo uno scenario su quel gioco mentale che sino a qualche giorno prima neanche esisteva. Il mio pensiero diverge, fa ipotesi per cui inventare una storia diventa così una sorta di necessità: devo vuotare il sacco, scaricarmi. Nella mia analisi personale questo mio modo di essere è stato affrontato, ma senza risolverlo, non ho fatto alcuna scelta e da sempre convivo con questa duplice identità. Insomma non mi reputo un analista che a un certo punto della sua vita si è messo a scrivere, molti lo fanno e lo fanno anche bene. Prima di ottenere dei profitti lavorando come professionista ne ho ottenuti con la scrittura: sono stato iscritto alla sezione DOR della SIAE dagli anni ’70 fino a metà anni ’90 e incassavo regolarmente i miei compensi di diritti d’autore per i lavori che venivano rappresentati. Per uno studentello di medicina non era male.

D.F. Freud scrisse a Schnitzler che vedeva nella letteratura una sorta di doppio della psicoanalisi: condividendone fonti e oggetto, autore e psicoanalista utilizzano entrambi l’interpretazione, l’uno per creare, l’altro per penetrare la tramatura invisibile del racconto del paziente, slegando l’elaborazione secondarizzante. La psicoanalisi deve molto al rapporto con l’intelligenza letteraria, così come quest’ultima è stata influenzata dal sapere analitico sulle dinamiche del profondo.

Nel tuo lavoro di scrittore quanto hai attinto a modelli narrativi o strutture simboliche di matrice psicoanalitica? Quanto pensi che l’esercizio alla funzione maieutica accanto ai pazienti abbia inciso sulla tua scrittura nel costruire trama e personaggi?

M.F.T. Freud ci aveva visto bene: la scrittura di Schnitzler si sovrappone alla psicoanalisi. A questo proposito la prima azione scenica che realizzai si ispirò liberamente al suo Doppio sogno. Il maestro Gianni Notari mi affidò una cassetta chiedendomi se l’ascolto mi facesse venire in mente qualcosa. Era Prozession di Karlheinz Stockhausen, ventotto minuti di musica contemporanea che talvolta riascolto non senza emozione. Sembra di percepire i rumori dell’inconscio più profondo, se solo l’inconscio avesse una dimensione spaziale, euclidea. Di getto scrissi un passo a tre, Pater noster, che partiva solo da un’immagine, un flash di Doppio sogno che sulla scena diventava una sofferta triangolazione edipica. Avevo appena vent’anni e per un attimo vedere una mia idea diventare un balletto da camera rappresentato nel foyer del Teatro dell’Opera, mi dette la sensazione che davanti a me si poneva pericolosamente un bivio e potevo fare delle scelte dettate dalla inebriante situazione del momento. Non avvenne per puro caso: Notari fu ingaggiato dal Maggio Fiorentino, mentre io risultai irreperibile. Il giorno dopo, sacco in spalla, volai per gli Stati Uniti e così solo cinque mesi dopo seppi cosa era accaduto dopo quella serata al Teatro dell’Opera.

Ma attenzione, in quello che avevo scritto non c’era il parlato, c’era la danza, l’immagine, un qualcosa che sfuma nel gioco di luci e di movenze, siamo nel sogno… Però quello che più mi ha influenzato è stato il nostro metodo psicoanalitico, l’indagine, lo scavo archeologico, lo scoprire la differenza fra i piccoli segni che Freud riconosce a Giovanni Morelli, medico e critico d’arte. Analizzare piccoli dettagli porta a scoprire la Verità e questo mi ha insegnato a essere meticoloso e mai approssimativo. Per esempio in quest’ultimo noir vintage mi sono avvalso dell’emeroteca della Biblioteca nazionale per essere il più preciso possibile: la sequenza dei giorni, il novilunio, il numero delle riviste d’epoca, le vincite al totocalcio o il prezzo del biglietto del tram o del caffè. Nella storia che racconto la psicoanalisi non compare come teoria e prassi, ma come metodo, poiché è stato scritta tenendo sempre presente un aspetto della psicoanalisi: la paziente raccolta di frammenti di vita, di sogni, di sedute, acting e talvolta frasi che apparentemente sembrano senza significato. Ovvero quello che Carlo Ginzburg chiama appunto paradigma indiziario. In realtà L’ispettore Fortunato è una metafora sulla psicoanalisi. L’ispettore è un uomo che cerca indizi e verifica ipotesi fino ad arrivare a una scoperta sorprendente (il trauma?) che dà senso a tutta la storia, per cui non fa altro che mostrare come mettere insieme i vari elementi raccolti strada facendo per arrivare a quella Verità di cui parlavo prima.

D.F. Proust dice che ogni lettore legge se stesso, che un libro è uno strumento ottico che ci permette di comprendere quel che forse, senza di esso, non avremmo mai conosciuto di ciò che siamo. Scrivere, così come leggere una storia, è sempre l’occasione di un viaggio per farci carico dell’alterità di noi a noi stessi – come accade nei sogni – e della possibilità di farci trasformare da quell’incontro. Ogni personaggio offre l’opportunità di rappresentare degli aspetti della propria vita psichica, così nella tessitura di una storia si oscilla fra uno scrivere per la trama, per ciò che già si “conosce” e si vuole rappresentare, e l’esplorazione che il punto di vista di un altro ci permette, scavandolo da dentro e schiudendo traiettorie impreviste.

Quanto da scrittore hai misurato la sorpresa dell’inconscio al lavoro, da inseguire per la curiosità di vedere fin dove va a finire? Ti sono capitati riscontri di lettori che hanno colto sfumature che non avevi considerato? I pazienti fra i possibili lettori hanno influenzato la tua scrittura o leggerti ha creato effetti imprevisti nelle relazioni analitiche con loro? 

M.F.T. Proust in parte ha ragione, nella lettura non solo ci immergiamo in un’atmosfera, in un mood, ma inconsciamente viviamo la vita dei personaggi. Per qualcuno parteggiamo o in lui ci identifichiamo, mentre altri li detestiamo o li odiamo ed è un motivo per cui un libro non può mai essere letto una volta perché nella prima lettura noi siamo presi dal meccanismo, per essere spettatori dobbiamo stabilire la giusta distanza anche se, direbbe Freud, possiamo essere contemporaneamente lettori e protagonisti di quella lettura come appunto accade nel sogno. Comunque molti scrittori partono da una suggestione e scrivono senza sapere dove si va a parare. I buoni scrittori in realtà non scrivono niente, sono i personaggi che raccontano la loro storia e questo sia Proust che Pirandello lo sapevano bene. La Memoria, direbbe Proust… sì tutto si gioca lì. Negli anni ’80 in occasione del cinquantenario della morte di Pirandello realizzai insieme a Michele Mirabella e a un altro amico recentemente scomparso un vasto plot sulla sua vita e nel nostro incipit mettemmo che erano proprio i personaggi che andavano da lui per trovare vita nelle sue pagine, come I sei personaggi… Chiaramente quella sceneggiatura non è mai assurta a film e da qui nasce un mio personale consiglio: chi scrive o crea in generale deve avere un buon rapporto con la frustrazione. La creatività ha un mercato e se i mediatori dicono che il tuo prodotto non va bene non è detto che sia realmente così. Prendiamo i casi di Guido Morselli o John Kennedy Toole o Stieg Larsson, per citarne solo alcuni, che hanno avuto successo solo dopo morti e mi spiace per loro.

Proust era uno scrittore, ma molti fra quelli che scrivono, me incluso, sono dei contastorie. Ad esempio la serie Millennium di Stieg Larsson, autore molto lontano da Proust, ha venduto cinquanta milioni di copie. Sarebbe bello capire cosa hanno in comune i personaggi della Recherche e quelli di Millennium.

Circa i pazienti… dobbiamo considerare che in questo antropocene digitale non si è poi tanto invisibili. Quando i pazienti entrano per la prima volta nel tuo studio sanno già tutto di te (o forse sanno anche cose che tu di te stesso non sai, per restare con Borges), qualcuno fa riferimento alle pubblicazioni; solo uno, ricordo, mi disse che era venuto per una consultazione perché aveva letto Il mancato suicidio di Luigi Pirandello, ma era uno che nella letteratura ci era dentro fino al collo.

D.F. La finzione letteraria può essere una via d’accesso alla consapevolezza o ciò che ci permette di fuggire la realtà, può fungere da filtro e visione riflessa per poter scrutare verità altrimenti intollerabili. Nella tua esperienza di lettore quanto consideri che i buoni libri siano strumento elaborativo per il nostro mondo interno? E quanto lo è la scrittura?

M.F.T. La finzione letteraria può generare insight. Basta chiedere ai colleghi per sapere quanti di loro hanno sentito dire: stavo leggendo un libro e improvvisamente ho capito… La letteratura si pone come effetto di mirroring: quante ragazze si sono identificate nelle quattro sorelle March e quanti ragazzi hanno vissuto avventure nei panni di Jim Hawkins? Questo per l’adolescenza. In età adulta la letteratura è un viatico a cui non si può rinunciare. Esprimendo tutto il suo potere riflessivo, aiuta ad avere una visione sul mondo emozionale dei personaggi e dell’autore e a capire se stessi.

Anche lo scrivere ha la sua funzione. Ho esperienza personale con pazienti anziani che durante il trattamento si sono messi a scrivere (e anche molto). Poi dopo un anno o due mi hanno portato i loro appunti… li ho accettati perché ho immaginato che lì c’erano storie che non erano in grado di raccontare: pensabili, ma indicibili. E così è stato, anche se buona percentuale di quello che leggevo mi era già stato “narrato”. Ma quello che ho potuto cogliere è stato l’ordito emotivo su cui lo scritto si articolava: considerazioni su atroci e terribili vissuti o su azioni passate che suscitavano profondi sensi di colpa e turbamenti. Molto emozionante, devo ammettere. Il contenuto di quegli scritti è stato oggetto di commento e la sensazione che i pazienti riportavano dopo la scrittura era di liberazione e pacificazione. Ma esistono anche altre situazioni oltre la scrittura: dottore guardi un po’ cosa ho dipinto? e mostrano il telefonino… è chiaro che stanno dicendo qualcosa, che si tratta di un incipit su cui lavorare.  

Che la scrittura possa servire a scrutare verità intollerabili che appartengono allo scrittore non so se sia veramente così. Certo in uno scritto c’è sempre qualcosa di un autore a meno che non scriva proprio di se stesso o una biografia. On the road è certamente autobiografico, lo sappiamo e questo non ci impedisce di poter bere una birra con Kerouack, ma se pensiamo che quello che scrive Brett Easton Ellis in American Psyco sia il suo non detto e che dentro di lui si agita quel mondo beh! non ci prenderemmo neanche un’aranciata altro che birra.

Se non è autobiografico un cameo c’è sempre, magari discreto come faceva Hitchcock nei suoi film. Talvolta autobiografica è anche la descrizione di un paesaggio, o parole che richiamano un ricordo letterario o frasi che sono un omaggio a qualcuno, diremmo una citazione.

D.F. In questo nostro tempo in cui languono le capacità simboliche e la nebulizzazione del senso del limite rende sempre più difficile avere a che fare con le angosce e con le perdite, coltivare dubbi e un senso di responsabilità, la parola che dà forma al non detto dentro ognuno di noi (e che quando manca lascia preda di un agire acefalo) non è solo contenuto, è anche atto sociale e relazione, cura e cultura. Quanto pensi che la buona letteratura possa favorire le risorse del pensiero? Credi che gli psicoanalisti, al di fuori della stanza d’analisi, potrebbero contribuire a diffondere una cultura di maggiore consapevolezza?

M.F.T. La letteratura non solo, ma l’arte in genere è quello che tu dici: relazione, cura e cultura. Permette al fruitore di mettersi in contatto con le parti più profonde del proprio essere. Pensiamoci un attimo, la conseguenza è il gusto/disgusto o la godibilità di un libro o di un’opera d’arte e questo non è uguale per tutti, poiché ciascuno di noi ho una sorta di relazione person to person con quello che legge o vede. Insomma è come se l’inconscio del fruitore potesse parlare con l’inconscio creativo (chiamiamolo così) dell’artista.

Gli psicoanalisti potrebbero contribuire a diffondere una cultura di maggiore consapevolezza ma devono soprattutto imparare a comunicare. Quando leggo gli scritti di illustri colleghi mi chiedo spesso per chi stiano scrivendo. Dimenticano di avere un pubblico e sembra scrivano per se stessi. Non ho difficoltà a dirlo, ma spesso non riesco a capire il loro linguaggio e la cosa peggiore è che non suscitano dentro di me curiosità. Quello che scriviamo nelle riviste del settore dovrebbero o potrebbero essere il punto di partenza di una ricerca, suscitare uno stimolo comune perché la curiosità è il motore della ricerca, lo capiremo mai? Quando scriviamo di casi clinici scriviamo di persone, differenti persone e ciascuna a modo suo è “un caso eccezionale” “irripetibile” ed è per forza così. Siamo come un’impronta digitale con “sfumature” comuni ma tutti diversi. L’ipotesi di interpretazione che poniamo a un paziente può essere buona per uno ma non per l’altro. La sfumatura, la piccola oscillazione, la tonalità fa la differenza. Spesso nello scrivere di psicoanalisi si tende a elaborare per ogni caso che si incontra una sorta di “filosofia della psiche” certamente valida per chi scrive, ma forse non altrettanto valida per chi legge… I personaggi a disposizione di uno psicoanalista sono infiniti e la letteratura dovrebbe avercelo insegnato abbastanza. In psicoanalisi abbiamo ancora molte cose da dire, cose che sono in movimento come i tempi che cambiano o il nostro divenire, ma noto che o le diciamo male o in ritardo. In psicoanalisi si scrive più che in ogni altra disciplina, una cultura di maggiore consapevolezza forse esige un rasoio di Occam psicoanalitico. In questo periodo pandemico è stato facile contare i vari inviti a seminari, congressi e incontri via web. Talvolta ne ho contati anche 4-5 a settimana. Cosa che non è successo fra i chirurghi, i fisici ma anche i filosofi e gli ingegneri. Ma cosa ce ne facciamo di questo materiale? Forse poco… Se ne deduce che agli analisti piace raccontarsi e raccontare (come del resto sto facendo io).

D.F. Nelle Lezioni americane Calvino richiamava il pericolo di perdere la funzione fondamentale dell’immaginazione, che la capacità di evocare immagini in assenza si atrofizzi in un’umanità sempre più inondata dal diluvio delle immagini prefabbricate. Invocava una pedagogia dell’immaginazione, per apprendere a elaborare le proprie visioni interiori, senza lasciarle soffocare sotto questa realtà aumentata in fruizione passiva né ammorbarle in un confuso fantasticare, perché quelle epifanie cariche di significati che spesso fondano l’immaginazione letteraria, animino una scrittura creativa che dia ordine e intenzione a quelle invenzioni. Immaginare ci serve a costruire le rappresentazioni con cui conosciamo noi stessi, gli altri, la realtà che ci circonda, con cui colmiamo i vuoti del pensiero razionale e pensiamo l’invisibile. “Il romanzo non indaga la realtà, ma l’esistenza. E l’esistenza non è ciò che è avvenuto, l’esistenza è il campo delle possibilità umane, di tutto quello che l’uomo può divenire, di tutto quello di cui è capace” (Kundera, L’arte del romanzo).

Pensi che la rivoluzione dei media, insieme alle enormi possibilità che ci ha aperto, destini al cambiamento i libri e gli spazi della lettura che nutrono l’immaginario e la funzione narrativa che fonda l’umano?

M.F.T. Kundera ha una splendida intuizione. È vero l’esistenza non è ciò che è avvenuto, l’esistenza è il campo delle possibilità umane, rendiamoci conto quanto Bion ci sia in questa affermazione. È un po’ quello che dicevo prima. Chi scrive, chi usa la fantasia, non si ferma mai a un’unica possibilità. Calvino, proprio in Lezioni americane, disse a proposito della fantasia cheè un posto dove ci piove dentro, dando a questa immagine una forte connotazione di contenitore, sempre aperto.

Noi siamo abituati a organizzarci la giornata, la vita e questo ci dà un immenso senso di sicurezza: a sera pensiamo che tutto è andato come avevamo programmato. Ecco basta pensare per un momento a qualcosa che sarebbe andata diversamente, non necessariamente storta, e ci troveremmo in un’altra storia, pensabile ma anche scrivibile. Non è poi così difficile.

Leggere è un fenomeno culturale e genetico allo stesso tempo. La passione per la lettura passa attraverso la famiglia e i buoni insegnanti ma altri possono sentirsi semplicemente “predisposti”, come un dono naturale. D’altro canto se in parte la lettura è stata sostituita da una cultura dell’immagine forse questa ultima cultura comincia ad essere accompagnata o sostituita da una cultura dell’ascolto: podcast e audiolibri. Sembra proprio che l’umanità abbia bisogno della narrazione.

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