Cultura e Società

Psicoanalisi e Letteratura. Intervista a N. Fusini a cura di D. Federici

25/08/23
Psicoanalisi e Letteratura. Intervista a N. Fusini a cura di D. Federici

Intervista a Nadia Fusini: una riflessione fra letteratura e psicoanalisi

a cura di Daniela Federici

Nadia Fusini è una scrittrice, critica letteraria, traduttrice, una grande studiosa vincitrice del premio Musatti (2022) perché nei suoi lavori si respira un’intima familiarità con il pensiero psicoanalitico. Ospite del tradizionale convegno “Le frontiere della psicoanalisi” a Lavarone, ha incantato con una riflessione che, fra Amleto e Don Chisciotte, ha fatto risplendere l’importanza del sogno e della fantasia per dare sostanza alla realtà e per avventurarsi nell’invisibile che ci abita oltre la ragione. 

Come sente in sé il rapporto fra psicoanalisi e letteratura? 

N. F. Leggere come faccio io è una forma di ascolto, ed è senz’altro una forma di apertura nei confronti dell’altro che incontro in absentia – il tramite essendo la lingua. C’è del transfert, implicato non c’è dubbio, c’è relazione, c’è pathos… In questo senso leggere è anche lasciarsi leggere…

D. F. La scrittura si fa arte tanto più sa cogliere nuclei profondi del nostro mondo interno. Concorda con l’idea che in un mondo felice la letteratura non esisterebbe? Che è nella solitudine e nell’incompiutezza dell’umano la spinta sorgiva a pensare il reale e a creare trame di significato nella nostra esistenza?

Come descriverebbe il valore della letteratura nella sua vita?

N. F. Penso che la felicità si trovi nel percorso della conoscenza, e che per giungere alla conoscenza bisogna frequentare anche le strade del dolore. Penso insomma, come dice Anna Maria Ortese  in una lettera a un’amica, che “la vera gioia sia vestita di dolore”.

In questo sta il valore della letteratura; la letteratura, quella non di consumo, quella che fa ‘tradizione’,  non è certo un’esperienza dell’ordine del ‘divertimento’, né della ‘diversione’,  della ‘distrazione’ – ma un incontro con la materia umana, e il dolore, la mancanza, la morte ne fanno parte integrale.

D. F. Nel suo libro Di vita si muore. Lo spettacolo delle passioni nel teatro di Shakespeare (Mondadori, 2010) scrive di porsi “in relazione enclitica, o d’appoggio” rispetto al suo Autore, un modo dell’amore in senso freudiano, e compone un testo erudito e toccante sull’opera del Bardo “impastato delle sue metafore, cotto al calore della sua immaginazione, profumato delle speziate sonorità dei suoi drammi, tutto echi”, sottolineando che conoscere quella magnifica opera-mondo che è Shakespeare accrescerà senz’altro il piacere di vivere. Come si insegna il valore della lettura? Come la critica letteraria penetra negli infiniti labirinti dei significati e accompagna all’incanto delle storie perché possano farsi esperienza? 

N. F. Come, in che modo… mi chiede. Mi verrebbe d’istinto di dire che non c’è trucco che io possa spiegare, né tecnica che io possa illustrare: c’è relazione, e cioè l’altro che ho di fronte mi insegna, mi nutre, mi  muove e commuove e mi guida a rispondere, a risponderne… È questione di passaggio, di farsi tramite, metaxu, direbbe Simone Weil. In fondo, l’interprete è un medium.

D. F. Com’è stato per lei il misterioso salto da lettrice e critica a creatrice di un’opera letteraria?

N. F. Per gradi… e poi d’un tratto, mi sono scoperta a parlare essendo parlata… Mi sono autorizzata ad essere autrice acconsentendo a una spinta che agiva in me con la forza che hanno le passioni d’amore.

D. F. Scrivere, così come leggere una storia, è sempre l’occasione di un viaggio per farci carico dell’alterità e della possibilità di farci trasformare da quell’incontro. Ogni personaggio offre l’opportunità di rappresentare degli aspetti della propria vita psichica, così nella tessitura di una storia si oscilla fra uno scrivere per la trama, per ciò che già si “conosce” e si vuole rappresentare, e l’esplorazione che il punto di vista di un altro ci permette, scavandolo da dentro e schiudendo traiettorie impreviste. Quanto da scrittrice ha misurato la sorpresa dell’inconscio al lavoro, da inseguire per la curiosità di vedere fin dove va a finire?

N. F. È la lingua la grande protagonista dell’avventura che è la creazione, e la lingua batte dove il dente duole… si sa.

Ma, ripeto, il dolore è conoscenza…Un poeta che amo, John Keats, lo insegna; una scrittrice che amo come Virginia Woolf lo ripete: l’esperienza della parola è una esperienza dell’anima, del ‘fare anima’, per riprendere le parole di Keats, appunto. 

D. F. Roth sosteneva che l’approccio non-romanzesco lo portava a sentire l’esperienza e certi nodi emotivi più profondamente di quando fondeva storie nel crogiuolo. Nell’equilibrio fra l’attingere a una verità del profondo per riuscire a coinvolgere il lettore e la misura di un’astensione di sé per poterne fare una storia di tutti, quali pensa siano le qualità e i limiti della forma letteraria dell’autofiction?

N. F. Non so esattamente dove sta il confine… Ma lo sento quando scrivo: sento che c’è trasformazione, non semplice illustrazione.  Pura descrizione. Perché alla fine è la lingua che comanda.

D. F. Freud considerava poeti e scrittori alleati preziosi, spesso più avanti nella conoscenza dell’anima, perché attingendo a fonti profonde, scoprono e danno forma a quel che lo scienziato impiega un lavoro faticoso per portare alla luce. E suggeriva agli psicoanalisti di coltivare interessi umanistici per non trovarsi smarriti di fronte al dialogon del lavoro analitico che intreccia due testi che si trasformano estendendo lo psichico in uno spazio intermedio che è comune all’opera creativa.

Pensa che la letteratura possa avere una funzione curativa per Autore e lettori? 

N. F. La buona letteratura sì, è senz’altro una forma di autoterapia: consola, conforta, nutre… Attenzione, però, ripeto: ci sono parole buone da mangiare; ma c’è anche molto cibo indigesto… Bisogna saper scegliere. Stiamo così attenti alla dieta del corpo, dovremmo prestare ancora più attenzione alla dieta dell’anima, della mente, della psiche…

D. F. Nelle Lezioni americane Calvino richiamava il pericolo di perdere la funzione fondamentale dell’immaginazione, che la capacità di evocare immagini in assenza si atrofizzi in un’umanità sempre più inondata dal diluvio delle immagini prefabbricate. Invocava una pedagogia dell’immaginazione, per apprendere a elaborare le proprie visioni interiori, senza lasciarle soffocare sotto questa realtà aumentata in fruizione passiva né ammorbarle in un confuso fantasticare, perché quelle epifanie cariche di significati che spesso fondano l’immaginazione letteraria, animino una scrittura creativa che dia ordine e intenzione a quelle invenzioni. Immaginare ci serve a costruire le rappresentazioni con cui conosciamo noi stessi, gli altri, la realtà che ci circonda, con cui colmiamo i vuoti del pensiero razionale e pensiamo l’invisibile. Pensa che la rivoluzione dei media, insieme alle enormi possibilità che ci ha aperto, destini al cambiamento i libri e gli spazi della lettura che nutrono la funzione narrativa che fonda l’umano?

Borges credeva che la cultura non s’intenda senza l’etica: come sente il mandato di chi fa cultura oggi, in un tempo di ombre e di grandi difficoltà a confrontarsi con l’alterità?

N. F. Credo nell’immaginazione, credo nell’homo ludens, per usare l’immagine  meravigliosa di Huizinga, che  nel termine homo include la  creatura umana, sia nella versione femminile, sia maschile. Il gioco ha in sé la grande virtù etica di farci vivere l’esperienza del sé come dell’altro; ci insegna, cioè, a  spostarci rispetto alla fissità dell’identità. Io sono l’altro, questo è il più bel gioco del mondo.

La letteratura, il teatro sono in questo senso prove etiche. Esercizi di flessibilità. Aperture all’alterità.

Quanto ai moderni media, molti di essi sono soltanto mezzi di distrazione di massa. Di alienazione di massa. Non c’è bisogno  di rileggere Marx, per sapere che l’umanità purtroppo ha bisogno – sì, bisogno – di alienarsi per sopravvivere. L’alienazione non serve solo al potere per governare, per  comandare…

Serve anche a chi vive per addormentarsi, per non farsi domande…

Perché vivere davvero ‘costa’.

Chi legge, chi scrive, chi pensa vuole vivere nell’incontro con l’Altro, e morire ad occhi aperti.

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Scrittrice e studiosa di letteratura inglese e comparata, Nadia Fusini ha curato e tradotto le opere di Virginia Woolf in Italia in due volumi nella collana dei Meridiani di Mondadori, 1998. Sempre per i Meridiani di Mondadori nel febbraio 2019 ha curato il volume John Keats. Per Einaudi nel 2012 esce Hannah e le altre. E nel 2016, Vivere nella Tempesta, saggio su  La Tempesta di Shakespeare.  Sempre per Einaudi nel febbraio 2021 Maestre d’amore. Giulietta, Ofelia, Desdemona e le altre. Presso il Mulino, nel maggio 2021,  Il potere o la vita, saggio su Gli ambasciatori di Holbein e l’Amleto di Shakespeare.

Di Shakespeare  traduce e cura le opere per la collana shakespeariana di Feltrinelli che dirige.

È inoltre autrice di romanzi, tra cui La bocca più di tutto mi piaceva, L’amore necessario,Due volte la stessa carezza… L’ultimo, María,uscito presso Einaudinel 2019, ha vinto premio Bergamo.

I suoi libri sono tradotti in Francia, Germania, Inghilterra, Brasile, Portogallo e Grecia

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