Cultura e Società

“Racconti del pianeta terra” di N. Scaffai. Recensione di D. Federici

8/09/22
"Racconti del pianeta terra" di N. Scaffai. Recensione di D. Federici

Racconti del pianeta terra

A cura di Niccolò Scaffai (Einaudi, 2022)

Daniela Federici

parole chiave: #Antropocene, #crisi climatica,#ambiente, #ecologia

L’immaginario non è un semplice istinto,

è un vero e proprio metodo,

è una pratica, una cultura, una pedagogia,

un’educazione cognitiva.

E ovviamente è anche un fare politico,

una forma di resistenza.

Meschiari, Neogeografia, per un nuovo immaginario terrestre

Cos’è impensabile dell’emergenza ambientale in cui ci troviamo a vivere? Se con l’Antropocene abbiamo preso consapevolezza dell’ingerenza distruttiva dell’uomo sulla terra, quale ipnosi ci impedisce di organizzare una valida reazione al disastro che abbiamo innescato?

Negazionismo, assuefazione, delega: cosa fallisce nella comunicazione di una minaccia globale che non mobilita l’ignavia, come se gli effetti che abbiamo davanti agli occhi non fossero già qualcosa che ci riguarda, come si trattasse di una questione da poter essere affrontata solo da addetti ai lavori, scienziati, politici, economisti, riuniti in summit mai veramente proficui sullo sfondo di giovani generazioni accese di preoccupazione per il futuro, mutilato di prospettive, in cui si trovano a vivere.

Perché non ereditiamo il mondo dai nostri padri, dice un antico proverbio amerindio, ma lo abbiamo in prestito dai nostri figli.

Leopold, padre dell’etica della terra, sottolinea la necessità di modificare in maniera inclusiva i nostri modelli culturali, le gerarchie dei valori, il nostro modo di vedere il mondo e i soggetti non-umani, di allargare i nostri orizzonti su legami, affetti e convinzioni. Un’ecologia della mente come conditio sine qua non per un’ecologia naturale: la sfida di questa crisi è innanzitutto una sfida alla nostra capacità di immaginare linguaggi e scenari per contribuire a una politica ambientale. Ma l’immaginazione ha bisogno di essere nutrita e coltivata per non lasciarla atrofizzarsi nell’anestesia o nella colonizzazione strumentale delle ideologie.

Scaffai nel suo libro “Letteratura e ecologia” (Carocci, 2017), ha già portato l’ecologia letteraria di cui si occupa a mostrare come l’intreccio vada al di là di un tema mai come oggi centrale che si offre al narrabile e le costruzioni narrative che il discorso ecologico adotta per sensibilizzare.

Arte e natura sono imbricate da sempre perché ciò che ci circonda è matrice dei nostri paesaggi mentali e del periplo delle geografie interiori fra creature, habitat e forze misteriose. Dalle pitture rupestri nelle caverne di Lescaux, i vagiti delle nostre capacità simboliche costruiscono rappresentazioni del mondo e di ciò che ci accade, per comprendere e affrontare la complessità, per cogliere l’inesplorato; l’immaginario ci proietta nell’oltre, per far emergere connessioni e alternative, per riempire le lacune del pensiero razionale riflettendo l’invisibile.

Con questa antologia “Racconti del pianeta terra” Scaffai approfondisce la riflessione sul testo letterario come mitopoiesi, su quali percorsi e attraverso quali strategie è possibile fare cultura ecologica per espandere la consapevolezza delle questioni e indicare nuove e più inclusive possibilità etiche. La sua curatela riunisce 20 scritti fra racconti e pamphlet con l’obiettivo di illustrare le forme e i temi della narrazione dell’Antropocene attraverso mondi narrativi molto diversi e distanti fra loro, da quelli che precedono di gran lunga la coscienza ecologica ma che, riletti alla luce di questa visione, ne evidenziano motivi già immanenti e ‘profetici’, fino ai più recenti e interessanti scrittori del fantasy distopico e ai contributi letterari autorevoli di taglio più saggistico sul tema della crisi climatica.

Ghosh riflette sulle resistenze della letteratura a scrivere su questo presente come sintomo del più generale fallimento immaginativo e culturale che ne sta al cuore; Margaret Atwood commenta la crisi globale a partire dal conservatorismo degli umani; Zadie Smith sottolinea l’importanza di scardinare il circuito vizioso di vergogna e autoflagellazione del ‘cosa abbiamo fatto’ per sostituirlo con un più pragmatico ‘cosa possiamo fare’; Jonathan Franzen invita a smettere di fingere e coltivare invece un portafoglio di speranze bilanciato, che insieme al lungo termine del desiderio di cambiare il mondo, alimenti battaglie locali e ragionevoli, perché finché si avrà qualcosa da amare si avrà qualcosa per cui sperare.

Martin Amis, Ursula le Guin, Annie Proulx, James G. Ballard e Paolo Zanotti sono stati scelti come rappresentanti della scrittura distopica, l’immaginario con il suo carico simbolico in cui il senso della fine ci protegge dal rischio della fine del senso, perché la fine orienta la storia, concepisce conseguenze e attribuisce responsabilità, può aprire varchi nel presente a ricordarci che non è mai l’unica strada possibile.

Della rottura dell’equilibrio e del legame fra uomo e natura, dell’essere ‘animale’ misconosciuto come simile e ‘interno’ per farne realtà insignificante e assoggettata, senza diritti né memoria, ci parlano Rigoni Stern, Sebald, Volodine, Sjöberg, Coetzee e le Piccole Persone di Anna Maria Ortese, scritti di condanna a una prospettiva antropocentrica che fa dell’uomo senza più fraternità solo un ‘contenitore di viscere’. “Essi credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli”, scrive Leopardi, che insieme a H. G. Wells e Jack London ci parlano al ‘futuro anteriore’ di un tempo che non aveva ancora coniato la crisi ambientale ma ne covava i sentori per chi poteva intuirne l’orizzonte.

Primo Levi nel suo “Verso occidente” impiega i lemming – una particolare specie di roditori, che senza apparente motivo, si riuniscono in branchi per andare a morire in mare – per aprire un intenso discorso esistenziale su una volontà di vita che non è l’ordine naturale da dare per scontato e sul sogno dei rimedi farmacologici che possono rianimarla o sventarne le urgenze collassate. Un racconto da cui emerge potente il messaggio dell’importanza di un senso che spetta a noi infondere alla vita più che aspettarsi di trovarcelo, un impegno quotidiano che ha bisogno di cure, “perché se niente importa, non c’è niente da salvare”. Così scrive Jonathan Safran Foer, richiamando il nostro essere fatti di storie, quelle che ci fondano e le regole del nostro vivere, che è frutto di precise convenzioni e meta-narrazioni, che impiega una conoscenza mediata da costrutti linguistici. Allora la prerogativa – e in un certo modo la responsabilità – della letteratura di costruire narrazioni efficaci, che abbiano effetto sul modo in cui percepiamo la nostra esistenza in relazione a quella degli altri e della realtà che ci circonda, può avere la forza e il progetto di coltivare un umanesimo non antropocentrico che ridisponga l’umano a riconoscere alterità e interdipendenze.

Nello statuto disciplinare dell’ecocritica, scrive Serenella Iovino in “Ecologia letteraria” (2006), c’è un portato educativo sorretto da una visione ecologica della cultura e della mente, che vede la letteratura non semplicemente come uno spazio di idee ma come una poiesis che recupera le sue radici di discorso filosofico e in forza delle sue rappresentazioni significative del mondo può trasmettere consapevolezza ed espandere l’universo dei valori.

“La letteratura è necessaria alla politica prima di tutto quando essa da voce a ciò che non ha ancora un nome, e specialmente a ciò che il linguaggio politico esclude o cerca di escludere. (…) Allo scrittore può accadere d’esplorare zone che nessuno ha esplorato prima, dentro di sé o fuori; di fare scoperte che prima o poi risulteranno campi essenziali per la consapevolezza collettiva” (Calvino, Usi politici giusti e sbagliati della letteratura).

In che direzione potrebbe andare il romanzo contemporaneo se volesse dar conto del proprio tempo e narrare non solo ‘della’ natura ma ‘per’ la natura di cui siamo parte? Quali le strategie e le forme letterarie più efficaci per rispondere alla responsabilità di ‘educare a vedere’ le tensioni e gli aspetti più profondi e ambigui della realtà?

Un passo necessario è quello di uscire dalla logica di contrapposizione fra umano e natura. Se l’Antropocene manifesta da tempo i dissesti del paradigma asimmetrico e gerarchico che ha legittimato la tracotanza predatoria dell’umano, la contrapposizione si rivela inadeguata anche in una certa protesta ambientalista: la natura come sistema devastato dai nostri abusi che si ribella e ci punisce, ribadisce il divorzio concettuale mancando di cogliere il senso di essere un tutt’uno noi e la natura, che solo può chiamare all’impegno della reciprocità, al bisogno di cure e responsabilità. Perché la fatica è proprio di tessere una cultura che sappia agire come parte armonica della natura, che ridisegni tutti i ‘terrestri’ in un sistema più ecologico.

Una letteratura che possa avere al centro la natura non come teatro dell’azione umana ma come un personaggio che interagisce e si evolve, che può essere narrato oltre che descritto, offre un’utile prospettiva straniante, come dimostrato dal bellissimo “Il sussurro del mondo” di Richard Powers, vincitore del Pulitzer nel 2019.

Un altro ostacolo per la letteratura che scrive sul presente, sta nell’effetto da più parti rilevato di come il racconto apocalittico – che è preminente nel panorama narrativo e cinematografico –, se funge da occasione di catarsi delle angosce, non riesce però a produrre un reale e ampio effetto di consapevolezza, come agisse solo a fini evacuativi. La minaccia d’estinzione che si profila nei nostri orizzonti da almeno un paio di decenni non sembra avere presa e anzi schiudersi su una dimensione di non-tempo dove le vere possibilità di pensiero su quanto ci sta accadendo sembrano vaporizzarsi. Se aggiungiamo a questo alone di negazione un contesto che in modo sempre più diffuso rende difficile distinguere fra la fiction e la realtà dei dati scientifici e di quei cambiamenti che pure ogni stagione misuriamo, possiamo rilevare una sorta di sfondo psichico stuporoso che molto ricorda la regressione all’ambiguità di cui parla Bleger (1967). Si tratta di una condizione difensiva di fronte al traumatico che comporta l’acquiescenza passiva agli eventi, la perdita delle capacità critiche e trasformative, di legame e di pietas, per un’indifferenza alessitimica o un cinico individualismo. La forma di non integrazione di questi stati rende intollerabili ferite narcisistiche e dolore mentale, per sfuggire ai quali si sconfessa la realtà su aspetti specifici e nel vuoto che ne consegue, funzione illusoria e inautenticità possono slittare nella malafede e nell’impostura.

Lo ha mostrato splendidamente il film “Don’t look up” di Adam McKay (2021), evidenziando in chiave grottesca la cecità del pubblico oltre che l’ipocrisia politica, lo scollamento con la scienza e il ruolo manipolatorio della comunicazione nel narrare l’incombere di una minaccia globale come un trailer propagandistico. 

A sostenere che l’inettitudine all’angoscia sia una delle caratteristiche dell’epoca in cui viviamo, è anche Günther Anders, che richiama l’importanza di ampliare la nostra immaginazione per poter estendere la nostra capacità di avere paura. Carla Benedetti, nel suo libro “La letteratura ci salverà dall’estinzione” (2021), ne riporta un racconto scritto nel 1962 che ha come protagonista Noè. Dio, che lo ritiene l’unico uomo retto rimasto sulla terra, gli ha annunciato il diluvio che manderà, dandogli il tempo di costruire l’arca per mettersi in salvo con la sua famiglia. Noè è descritto come un uomo tormentato: “Non sono riuscito a rassegnarmi ai morti di domani e sono andato ogni giorno a caccia dei ciechi per aprire loro gli occhi e a caccia dei sordi per urlare nelle loro orecchie tappate, al fine di convincerli … che adesso dovranno fare qualcosa da soli con le loro mani.”

Una figura tragica che risulta molto attuale: profeta inascoltato della minaccia che incombe, si muove fra l’indifferenza dei suoi simili. Contravvenendo alle regole del culto, Noè si inventa un’astuzia, decidendo di sfruttare le debolezze umane invece di confidare nelle virtù. Si presenta sulla pubblica via vestito di stracci e con il capo coperto di cenere, prostrato e afflitto dal lutto per ‘la morte di domani dei suoi prossimi’.

Quando è accaduta la disgrazia?, gli chiedono.

“È accaduta domani.”

L’acrobata del tempo, lo definisce Anders, colui che è capace di mettersi nei panni di chi sarà domani, rovescia la prospettiva temporale: “Perché dopodomani sarà ciò che è stato”. Così costringe i suoi interlocutori a uscire dal modo abituale di percepirsi nel flusso degli eventi, inducendoli a pensare non più al domani a partire dall’oggi ma a partire dal tempo prossimo dell’indomani della fine. Anticipando la catastrofe futura e ponendola come già accaduta, Noè induce gli uomini a sentire in un altro modo, uno spaesamento che rincara prospettando che dopo il diluvio non rimarrà più nessuno a portare il lutto e potersi ricordare di loro. La prospettiva di una morte senza Kaddish (l’antica lamentazione funebre ebraica) ha la forza di sconvolgere gli ignavi, perché non avere chi ti ricorda equivale a non essere mai stato. E per rafforzare quell’esperienza che ha squarciato loro il velo, si mette a recitare il Kaddish rendendo concreto e vivo nel presente il dolore di domani: “E il lamento funebre che hai imparato da ragazzo per recitarlo sulla tomba di tuo padre, recitalo ora per i figli che moriranno domani, e per i nipoti che non nasceranno mai.”

Attraverso questo racconto l’Autrice riflette sull’importanza di essere catapultati fuori dai propri soliti punti di riferimento, chiedendosi con quali mezzi si possa suscitare anche negli uomini di oggi la consapevolezza di una profezia non semplicemente conosciuta nel logos ma appresa nel pathos. Perché Noè è una figura che non mira a esorcizzare la paura ma ad attraversarla, ed è proprio questo attraversamento la funzione feconda che ci rende capaci di comprendere, reagire e creare possibilità.

Ecologia deriva da eikos, che significa ‘casa’ intesa come habitat e logos, ‘discorso’. L’io che siamo è comprensivo dell’alterità e dell’ambiente che ci contiene e ci plasma. Averne miglior cura è una nostra responsabilità e può essere il migliore dei sensi da dare al nostro vivere.

Viene in mente Calvino: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio” (Le città invisibili).

Fra bibliografia e suggerimenti di lettura:

Anders, G. (1962) “Il futuro rimpianto” in: Brevi scritti sulla fine dell’uomo, Asterios ed., 2015.

Benedetti C. (2021) La letteratura ci salverà dall’estinzione, Einaudi.

Bleger J. (1967), Simbiosi e ambiguità, Ed. Lauretana, 1972.

Ghosh A. (2016) La grande cecità, Beat Ed. 2017.

Iovino S. (2006) Ecologia letteraria. Una strategia di sopravvivenza, Ed. Ambiente.

Meschiari M (2017) Geoanarchia, appunti di resistenza ecologica, Armillaria.

Meschiari M. (2019) La grande estinzione. Immaginare ai tempi del collasso, Armillaria.

Powers R. (2018) Il sussurro del mondo, La nave di Teseo, 2019.

Scaffai N. (2017) Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa, Carocci ed.

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