Cultura e Società

Duttilità e rigore in psicoanalisi all’epoca del Coronavirus. Le COQ-HERON 2021/4 C. Schinaia

12/01/22
Duttilità e rigore in psicoanalisi all’epoca del Coronavirus. Le COQ-HERON 2021/4

Frank Stella, 1981

Parole chiave: Schinaia, ambiente, pandemia

DUTTILITÀ E RIGORE IN PSICOANALISI ALL’EPOCA DEL CORONAVIRUS Le COQ-HERON 2021/4

di Cosimo Schinaia

Se vogliamo vivere per sempre dobbiamo continuare ad adattare noi stessi al nostro ambiente e il nostro ambiente a noi stessi e dobbiamo inoltre prevedere e anticipare gli adattamenti che un giorno saranno necessari”.

Roger Money-Kyrle, 1931.

Introduzione: L’esperienza della pandemia ha evidenziato la necessità di riflettere sulle sfide globali che ci attendono a partire dall’interdipendenza dell’uomo/ collettività/ambiente. Cosimo Schinaia ritiene che la psicoanalisi possa contribuire ad affrontare la complessità dei problemi in gioco attraverso un percorso di consapevolezza evitando di cadere in catastrofismi o in meccanismi di negazione. (Maria Antoncecchi)

Cosimo Schinaia: psichiatra, psicoanalista, membro ordinario AFT della Società Psicoanalitica Italiana e full member dell’International Psychoanalytical Association

DUTTILITÀ E RIGORE IN PSICOANALISI ALL’EPOCA DEL CORONAVIRUS

Di Cosimo Schinaia

Se vogliamo vivere per sempre dobbiamo continuare ad adattare noi stessi al nostro ambiente e il nostro ambiente a noi stessi e dobbiamo inoltre prevedere e anticipare gli adattamenti che un giorno saranno necessari”.

Roger Money-Kyrle, 1931.

L’affermazione di Money-Kyrle può rappresentare bene l’elogio della duttilità e del rigore ed essere valida per la psicoanalisi e gli psicoanalisti al tempo del coronavirus.

   Nonostante l’emergenza non possa esser prevista per definizione e non possano essere prescritte regole di comportamento astratte e generali a priori, le sue dinamiche in atto possono essere vissute e studiate come un esperimento di dimensione straordinaria ed eccezionale che può fornire utili strumenti di elaborazione sia per quando ci sarà il ritorno a una quotidianità accettabile, per quanto non sovrapponibile alla quotidianità antecedente la crisi d’eccezione, sia per avere una dotazione esperienziale da utilizzare in eventuali successivi stati emergenziali.

   Pur essendo l’epidemia da coronavirus percepibile come una novità di straordinaria evidenza e intensità che rompe gli usuali parametri che regolano le relazioni, compresa la relazione analitica, essa è però accompagnata da aspetti di continuità con alcune situazioni del recente passato che ci hanno costretto a faticose riflessioni.

   La globalizzazione dell’economia, la presenza di Internet, i nuovi media, la relativa compressione dello spazio e la modificazione del tempo nelle comunicazioni, sono alcuni dei fenomeni che hanno preceduto e accompagnato questa fase e che, avendo penetrato nel nocciolo duro dell’esperienza psichica, hanno cominciato a ristrutturare le transazioni inconsce tra gli esseri umani attraverso nuove e spesso drammatiche modalità.

   La psicoanalisi può essere una preziosa risorsa per approfondire lo studio dei meccanismi di difesa individuali e comunitari nei confronti della presa di coscienza dei gravi problemi con cui siamo costretti a  confrontarci, delle sfide con cui ci dobbiamo misurare in relazione al complesso e contradditorio contrasto all’epidemia planetaria che comincia a pesare sulle nostre esistenze e a cambiare profondamente la condizione umana. Oggi, che il conflitto tra le libertà individuali e le esigenze di protezione collettiva è diventato più acuto, è ancora più necessario esplorare il rapporto tra, la sofferenza individuale e le organizzazioni simboliche e le pratiche terapeutiche della comunità di appartenenza.

Risulta impossibile parlare di un immaginario individuale senza considerare quello collettivo, che lo sottende e, anzi lo impregna, in un rapporto di codeterminazione reciproca. E non possiamo attestarci sull’immagine di un ambiente che sia solo un fuori sganciato dalla rappresentazione che ne abbiamo al nostro interno (Preta, 2020).

   Alla psicoanalisi pertanto, più che ad ogni altro tipo di pratica e di teoria, credo sia affidato il compito di capire perché mai di fronte all’evidenza di un danno, di cui però non è chiaro quali siano la grandezza e la pericolosità, le donne e gli uomini stentino a rendersi conto di quello che è successo, di quello che sta avvenendo e di quello che ancora può succedere.  Oscillano tra il panico e l’indifferenza, tra il catastrofismo e lo scetticismo, mentre dovrebbero  guardare agli eventi attuali con occhi limpidamente allarmati, certo, ma né ingenuamente ottimistici o irresponsabilmente indifferenti, né distruttivamente catastrofisti.

   Sono messi in atto vari meccanismi di difesa, l’intellettualizzazione, la rimozione, il dislocamento, la repressione, la banalizzazione, il diniego, la scissione. Ognuna di queste soluzioni difensive, volendo tamponare, ma anche nascondere, l’angoscia che deriva dalla difficoltà a confrontarsi con un pericolo non immediatamente arginabile, può essere la manifestazione di una regressione alla posizione schizo-paranoide, per usare il linguaggio kleiniano, che rischia di togliere valore ad ogni azione depressivamente preventiva e/o riparativa e mette in discussione i principi dell’etica della convivenza, se per etica possiamo intendere una funzione specifica della mente che la rende propriamente umana.

   In rapporto alla complessità confusa che stiamo vivendo, va evidenziata l’assoluta necessità di un confronto continuo con gli altri saperi, con gli altri linguaggi, senza presuntuose ambizioni colonialistiche, né ricercate armonie totalizzanti, ma con la certezza della significativa peculiarità del contributo della cultura e dell’esperienza psicoanalitiche, che possono offrire risorse, strumenti e processi per affrontare costruttivamente le sfide che l’epidemia ci propone.

   La conversazione fra differenti linguaggi scientifici e culturali può avvenire rendendosi ospitali per accogliere i ragionamenti e i sentimenti altri e, in tal modo, permettere, attraverso il pensarli e il ripensarli, ma anche il sognarli, la strutturazione di differenti e originali forme di linguaggio e di esperienza che non sono la somma dei linguaggi e delle esperienze di partenza, ma che trovano una loro configurazione e una loro vita autonoma e originale in relazione alla novità emotiva che ci troviamo a sperimentare.

   Un uso più evoluto ed elaborato delle proprie convinzioni ideologiche, scientifiche, delle proprie famiglie culturali porta a posizioni insature e convoglia tendenze riparative in cui la preoccupazione e la responsabilità per la vita e il destino dell’individuo e della comunità predominano (Grinberg e Grinberg, 1975).

   Come fare fronte alla netta contraddizione tra, da una parte, le immagini del progresso, dell’inesauribile, dello sviluppo illimitato e, dall’altra, le zone rosse sempre più ampie (Lockdown zones dicono gli inglesi), le restrizioni fino alle interruzioni delle relazioni sociali, la riduzione fino all’abbandono delle confortevoli e assodate abitudini, le apocalittiche previsioni economiche e le informazioni sul progressivo aumento delle vittime che drammaticamente ci piovono addosso?

   Scrive Jacques Press (2019, p. 266):

Di colpo si produce uno iato tra l’esigenza di azione connessa all’urgenza della situazione da una parte, e la paralisi del nostro funzionamento psichico dall’altra, per di più in un contesto molto particolare perché siamo noi gli agenti della distruzione in corso. Vi è il rischio di una teorizzazione concreta, di far aderire senza la necessaria distanza concetti psicoanalitici a una situazione che necessita di nuovi strumenti di pensiero per essere colta nella sua complessità.

   Ecco alcune considerazioni di Freud del 1915 a proposito della guerra, che sembrano calzare a pennello con i nostri vissuti all’epoca del coronavirus, fatti di perplessità, di confusione, di difficoltà ad esprimere giudizi fortemente assertivi:

Presi nel vortice di questo tempo di guerra, privi di informazioni obiettive, senza la possibilità di considerare con distacco i grandi mutamenti che si sono compiuti o che si stanno compiendo, o di prevedere l’avvenire che si sta maturando, noi stessi non riusciamo a renderci conto del vero significato delle impressioni che urgono su di noi, e del valore dei giudizi che siamo indotti a pronunciare. Ci sembra che mai un fatto storico abbia distrutto in tal misura il prezioso patrimonio comune dell’umanità, seminato confusione in tante limpide intelligenze, degradato così radicalmente tutto ciò che è elevato. Anche la scienza ha perduto la sua imparzialità; […] Può darsi però che avvertiamo con intensità sproporzionata le sciagure di questo nostro tempo, e che non sia giusto confrontarle  con le sciagure di altri tempi che non abbiamo conosciuto.” (1915, p. 123)

   Sempre nello stesso saggio Freud mette in evidenza come in presenza degli eventi bellici del tempo, i disturbi di ordine nevrotico sembravano decisamente ridursi. Questa osservazione sembra confermata dai dati che emergono dai pazienti nelle zone di isolamento sanitario, in cui i disturbi ipocondriaci sembrano diminuire, lasciando spazio talvolta alla sana e matura preoccupazione, ma talaltra, purtroppo, a un acutizzarsi di una incontenibile sintomatologia panica.

   Nel saggio del ’29, Il disagio della civiltà, Freud propugna come necessaria la limitazione individuale nella costruzione della civiltà, e, in tal modo, sembra voler proporre le basi per un’etica della collaborazione e della solidarietà, in cui ognuno rinuncia a qualcosa in nome del bene comune. Sublimazione, Prudenza, Condivisione, Rispetto, Cura, Conduzione, Responsabilità sono le virtù con le quali dovremmo far fronte alle difficoltà attuali; esse esprimono tutte, seppure su piani diversi, la necessità di una rinuncia pulsionale in nome dei valori comunitari. Le acute riflessioni freudiane dovrebbero esserci compagne di strada nel momento in cui i governi, le autorità scientifiche, ci chiedono di rinunciare a una parte della nostra libertà, per esempio di movimento e di contatto con gli altri, in nome del bene comune.

   Bion, parla della capacità negativa,  mettendo in esergo dell’ultimo capitolo di Attenzione e interpretazione l’estratto della lettera del poeta inglese John Keats, ai fratelli George e Thomas il 21 dicembre 1817 su “la qualità essenziale dell’Uomo dell’Effettività”.

   La capacità negativa viene definita come:

Quella capacità che un uomo possiede di perseverare nelle incertezze attraverso i misteri e i dubbi, senza lasciarsi andare a un’agitata ricerca di fatti e ragioni” (Bion, 1970, p. 169).

   Questa “capacità negativa” consente di tollerare le deviazioni, i cambiamenti dei punti di vista, gli andirivieni nella ricerca di soluzioni terapeutiche adeguate e risolutive, restando se stessi e rendendo ancora più vivo nelle persone il desiderio di comprendere senza a tutti i costi riempire uno spazio per sentire e per pensare.

   Le parole di Keats e le riflessioni di Bion sono un monito ad affrontare le vicissitudini dell’esistenza, accettandone l’incertezza e la complessità, evitando l’antieconomica illusione di pensare di potere governare quello che non è completamente governabile. Se troppo facilmente si riduce lo sconosciuto al conosciuto, l’incongruo al congruo, si corre il rischio di farsi complici delle resistenze legate all’angoscia e di allontanarsi dalla non immediata soluzione dei problemi.

   Bion aveva già scritto in Trasformazioni circa la non-cosa (no-thing), intesa come l’indicazione di quei processi mentali in cui è possibile tollerare i limiti della conoscenza senza saturarli con una sorta di superbia pseudoscientifica, né cancellarli in nulla, niente-cosa (nothing), a causa dell’incapacità a tollerare la mancanza della non cosa (Bion, 1965).

   Scriverà ancora Bion, riportando il rischio di non esercitare la capacità negativa al lavoro analitico:

Se è vero che l’essere umano, come la natura aborrisce il vuoto, non può tollerare lo spazio vuoto, cercherà di riempirlo trovando qualcosa che occupi quello spazio presentato dalla sua ignoranza. L’intolleranza della frustrazione, il disagio di sentirsi ignoranti, di avere uno spazio che non è riempito, può stimolare un desiderio precoce e prematuro di riempire lo spazio. […] Lo psicoanalista nell’esercizio della sua professione deve decidere se sta promulgando una teoria oppure un riempitivo che non si può distinguere da una paramnesia. […] La questione è se le paramnesie, le risposte che sono immediatamente comprensibili, quelle che possono essere usate per riempire lo spazio della nostra ignoranza, ci portano fuori strada verso un pericolo estremo se i poteri della mente umana sono pari alla sua distruttività” (Bion, 1987, pp. 231-232).:

   Ancora Bion sottolineerà in Cogitations “[Il valore del] processo della consapevolezza di elementi incoerenti e la capacità dell’individuo di tollerare questa consapevolezza” (Bion, 1992, p. 201).

   Le riflessioni di Freud prima e di  Bion poi ci permettono di considerare quanto sia necessario che, anche nelle vicende odierne legate alla diffusione del coronavirus, la psicoanalisi possa partecipare allo sviluppo di un’etica comunitaria.

   Ogni evoluzione autentica mette alla prova la nostra capacità di tollerare la precarietà di “verità in transito”, di conoscenze aperte, (Horovitz, 2007), di cui dovremmo nutrirci per giungere a un sapere insaturo senza cedere subito all’impazienza della significazione definitiva. Verità piccole, appena più grandi di un balbettio che sostenga un desiderio, ma verità da cui non si può prescindere perché sostengono e promuovono le trasformazioni psichiche e che possono utilmente essere esplorate in profondità a patto che non perdano la connotazione, lo statuto di verità in transito esposte senza fine a ulteriori trasformazioni in relazione a a nuove esperienze.

   Nel contatto con una nuova realtà è necessario pensare con strumenti che, pur rifacendosi al noto, tengano conto dei nuovi contesti e sappiano interagire con essi, seguendo il suggerimento di Pierre Fédida (2007, p. 52):

Il ruolo dell’analista è quello di immaginare. […] Immaginare ciò che un altro ha vissuto.”

   Immaginare anche davanti a ciò che appare come un buco, un bianco di immagini, un vuoto senza cavità. Più radicalmente, immaginare la scomparsa, il disfarsi, la cancellazione delle tracce (Galiani, 2009).

    Scrive René Kaës (2013):

Dobbiamo arrischiare delle analisi nuove, fabbricare degli strumenti mentali, proporre dei modelli di intelligibilità per pensare di nuovo e provvisoriamente questo rapporto con lo sconosciuto che noi abbiamo scelto come il nostro modo d’essere al mondo”.

   Dovremmo, pertanto, prendere le distanze da opprimenti vissuti cataclismatici e costruire le nostre riflessioni, adottando la funzione dell’erraticità, cioè di un costante lavoro di interrogazione di una realtà evasiva e versatile, plurale e ambivalente, e di come noi individualmente abitiamo e ci posizioniamo in essa con una dubbiosità discreta, con flessibilità e cautela, con uno scetticismo non cinico, ma permeato di una certa ingenuità indagatrice per scomporre e interpretare quanto nel mondo sta cambiando.

   Bion evidenzia la necessità “di realizzare l’ingenuità della visione, quando un problema è tanto sovraccarico di esperienza che i suoi contorni sono diventati confusi e le sue possibili soluzioni oscure. […] La capacità dell’analista di conservare la sostanza del suo training e della sua esperienza, e tuttavia di raggiungere una visione ingenua del suo lavoro, gli permette di scoprire da sé e a modo suo le verità scoperte dai suoi predecessori” (Bion, 1963, p. 107).

   Cercare di acquietare il senso di spaesamento, di volatilità e di precarietà dei progetti di vita di uomini e donne in fasi storiche nuove e non preventivabili come quella attuale, brandendo certezze del passato, novelli laudatores temporis acti,[1] come Orazio definiva i vecchi che non accettavano il nuovo del presente, e di conseguenza spiegare quello spaesamento facendo leva solo sui “sacri testi”, sulla forza della tradizione, è solo apparentemente rassicurante, mentre è sostanzialmente un’operazione antieconomica.

   Erik H. Erikson (1964) ha definito la fedeltà come “la capacità di restare coerenti con i principi liberamente scelti, nonostante le inevitabili contraddizioni dei sistemi di valore” (p. 128), ma il restare abbarbicati difensivamente a una visione del mondo non calibrata con la complessità socioculturale a cui dovrebbe far riferimento, non ha a che vedere con la fedeltà, ma con l’accettazione acriticamente fideistica dell’ortodossia e porta ad ululare con i lupi (Freud, 1921).

   Separarci dalle nostre certezze e abitudini teoriche e cliniche comporta vissuti di sofferenza e confusione, anche di inadeguatezza, ma dobbiamo evitare che, come gli eroi di certi racconti di fantascienza, gli analisti vivano, e propongano agli analizzandi di vivere, in spazi laterali e paralleli, contigui a quelli della storia e della vita reale, ma invisibili e inaccessibili. Bisogna porre attenzione a non contrapporre al tempo e allo spazio globalizzati e all’uso di nuovi sistemi comunicativi, il cui senso è fare da supporto vicariante alla relazione analitica in studio, quando è transitoriamente impedita, un nostalgico e lento tempo passato, un’improbabile ricerca del tempo perduto non riproponibile tout court ai giorni nostri, i giorni della pandemia. Una sterile contrapposizione simile la troviamo nelle dispute di football fra sostenitori di un gioco basato sulla tecnica individuale e la genialità ma lento, e sostenitori di un gioco basato sulla muscolarità, la potenza atletica e la velocità, ma senza fantasia.

   Dobbiamo porre molta attenzione nell’osservazione di modificazioni degli stili di vita, tanto intense quanto confuse, di vettori di cambiamento che velocemente modificano la loro traiettoria in situazioni di emergenza, dando il giusto valore a comportamenti sociali segnale, pur riconoscendone la transitorietà ed evitando di trarre conclusioni catastrofiche del tipo “tutto è cambiato” o, per converso, conclusioni consolatorie del tipo “sostanzialmente nulla è cambiato”. restare in oscillazione tra continuità e discontinuità, stare nell’incertezza, nell’indefinitezza, evitando il dogmatismo dottrinale difensivo, cioè abbandonando memoria e desiderio e avendo fede nella risposta creativa del proprio inconscio, senza cercare una redenzione o almeno una tregua in un sogno di appartenenza a modalità di contatto emotivo, come quello nella stanza di analisi, sentiti come assoluti e impossibili da modificare, pena la degradazione della relazione.

   Secondo Ruth Stein (1995), l’analista dovrebbe accettare la sofferenza di stare nel guado e pensarsi come un bricoleur [Claude Lévi Strauss (1985) usava  la metafora di un artigiano come il vasaio per descrivere  le modalità moderne di sistemare la conoscenza], bravo a costruire con l’equipaggiamento di attrezzi che ha a disposizione in termini di differenti esperienze cliniche e differenti teorie, come afferma Ludwig Wittgenstein (1953). Un bricoleur che faccia riferimento a un concetto polifonico di identità, all’identità come a qualcosa di nomade, in ogni caso ben più nomade rispetto al passato, e all’interno di reticoli circolari che vengono rappresentati in forme espressive deboli, cangianti, variegate. Identità transitorie, propedeutiche forse a future stabili identità, ma autentiche e autenticate anche dalla consensualità relazionale, pensate come da costruire negli accidentati percorsi della relazione analitica con i materiali a disposizione, piuttosto che entità originarie da scoprire. Questo vuol dire che che possiamo aprire  e sperimentare nuove vie conoscitive e relazionali, pur partendo da paesaggi familiari.

   Scrive Paul Israël:

Le regole, qualunque esse siano, devono potere essere rimesse in discussione e, nella nostra disciplina, essere sottoposte a un lavoro di rielaborazione tanto congiunturale quanto teorico per non correre il rischio di essere feticizzate e perdere tutto il loro senso vivente” (Israël, 1994, p. 33).

   Il temporaneo rimodellamento del setting che può rendersi necessario in situazioni eccezionali, come quella che stiamo vivendo, non ha a che vedere con la deregulation, cioè con modalità autarchiche e non rispettose delle regole tecniche con cui può essere condotta una relazione analitica, ma, attraverso l’istituzione di regole con modalità duttili o rigide, riguarda il modo in cui il terzo, la legge viene rappresentata nella relazione.

Prendere atto di questi fattori esterni nelle nostre istituzioni e nella nostra pratica privata non dovrebbe implicare necessariamente un appiattimento adattativo e passivo nei confronti di tali fattori. Potrebbe però favorire un processo di lento e doloroso ripensamento e di lutto di posizioni passate, caratterizzate da un certo narcisismo e da chiusura nei confronti della realtà sociale circostante, che sono state tipiche di certi periodi storici della psicoanalisi” (Kluzer, 2001, p. 114).

   Un passaggio a nuove regole, seppure transitorio e in attesa del progressivo ripristino del setting tradizionale, mette ovviamente in questione il rapporto che il gruppo degli analisti ha stabilito con le figure storiche di riferimento e con i miti fondatori ed esso coinvolge aspetti organizzativi, culturali, politici. Piuttosto che essere difensivamente arroccato in alcune aree di sacralità, il gruppo dovrebbe funzionare come un apparato complessivo sufficientemente strutturato, ma fluido e dinamico, capace cioè di tollerare i cambiamenti necessitati dalle mutate condizioni storiche sia esterne che interne. La risposta pertanto non può essere né la rigida difesa delle regole originarie all’insegna della feticizzazione, dell’ossessivizzazione burocratica, né la dissoluzione della propria identità nell’assenza di ogni valore ordinatorio.

   Mi sembra utile sottolineare la necessità di fare riferimento a diversi indirizzi, alla pluralità e alla complessità dei nostri orizzonti attuali in continua e produttiva evoluzione, per andare a una loro utilizzabilità in un buon contesto metateorico e metterli a confronto con l’esperienza clinica che scompagina e ricompone continuamente gli assetti teorici. Il continuo ripensare e ricalibrare la propria tecnica, aiuta ad alleggerirla delle microillusioni di onnipotenza euristica e introduce feconde problematizzazioni sull’angolatura che si tende in genere a adottare.

   Ovviamente non si tratta di un generico eclettismo teorico-clinico, né tantomeno di propugnare una sorta di intuitività onnipotente, ma di riflettere sulla relativa compatibilità e incompatibilità delle differenti modalità terapeutiche, per esempio su quanto venga perso e quanto venga mantenuto, su quanto ci sia di nuovo e quanto possa essere riconducibile al noto nelle analisi a distanza, su quanto debba riferirsi a una teorizzazione che sia contemporaneamente rigorosa e liberamente fluttuante, viva, elasticamente transitiva, fatta di continuità ed embricazioni tra differenti modelli, ma anche di rotture e disarticolazioni.

BREVI NOTE SULLE ANALISI A DISTANZA  

   La maggioranza degli analisti ha provato ad utilizzare le sedute in remoto o via telefono, non tanto e non solo come succedaneo dell’impossibilitato incontro nella stanza di analisi, ma come possibile accrescimento delle proprie “dotazioni tecniche” all’interno di un quadro di crisi sanitaria assolutamente imprevisto. Sono utili alcune osservazioni su quanto nelle sedute a distanza viene portato dai pazienti, che cosa ci fanno vedere e che cosa non ci fanno vedere del loro habitat e il significato che evidenziazioni e nascondimenti o messe in secondo piano possono avere all’interno della relazione transfero-controtransferale.

Vignetta clinica

   Giovanni si sente apparentemente rassicurato dalla mia proposta che le sedute possano continuare online, nonostante il confinamento. Nella prima seduta a distanza porta un sogno in cui, mentre è a letto che dorme, viene violentemente aggredito da un extraterrestre. Ho la sensazione che il sogno voglia segnalarmi la sensazione di impaccio da parte sua, se non di paura, rispetto a una presenza aliena, probabilmente la mia; una presenza assolutamente necessaria, come lui dice,  ma al tempo stesso intrusiva.  Alla mia interpretazione circa il timore di essere invaso nella sua intimità, (non faccio un interpretazione di transfert dicendo da me, per evitareche si senta in colpa per avermi attaccato, per avermi denunciato come responsabile), Giovanni dice di sentirsi obbligato ad accettare una nuova realtà che modifica profondamente i ritmi dell’analisi, che li altera, non rispettando i suoi tempi. Ricorda che, quando era adolescente, capitava frequentemente che sua madre aprisse violentemente la porta della sua stanza per verificare che stesse studiando e che, se lo vedeva sdraiato sul divano a guardare la televisione, anche se aveva appena smesso di studiare, cominciava a sbraitare e a minacciare punizioni, staccando la spina e interrompendo il programma che stava vedendo. Il confinamento e il relativo uso del computer sono da lui vissuti come un’intrusione ambientale (Winnicott, 1955), tanto da avere deciso di inquadrare il muro disadorno della stanza, concedendomi un immagine sotto un aspetto più anodino, più ufficiale ed escludendo ogni altra rappresentazione, considerata forse troppo intima. Giovanni non si sente ancora capace di condividere i suoi spazi e i suoi oggetti intimi, temendo che possano essere danneggiati dal mio sguardo.  Giovanni nasconde parti di sé, della sua stanza per il timore che, come sua madre, non sappia aspettare per capire meglio, che faccia interpretazioni affrettate e non rispettose dei suoi tempi e delle sue esigenze. È una scelta che fa parte della relazione analitica come immagine della rimozione.  

    Un’interpretazione troppo satura e convinta o troppo affrettata può rivelarsi chiusa in sé, disattenta verso le sue conseguenze, mortificando fino ad ottundere, le capacità immaginifiche, memoriali, associative e, quindi, collaborative, del paziente. Si tratta di questioni di tatto e discrezione, come proposto da Freud (1910, p. 326), di quel tatto che Ferenczi (1927-1928, p. 306) definisce come “la capacità di mettersi nei panni di un altro”, di quel tatto che Emmanuelle Chervet (2017) ha proposto in termini di adattamento alle esigenze di “ricevibilità” del paziente.

   Il clandestino può uscire dallo stato di clandestinità soltanto quando sente la sua identità sufficientemente forte e di essere in grado di affrontare la trasparenza in una prospettiva di cambiamento. Giovanni mi ha manifestato attraverso l’inziale nascondimento dei suoi spazi intimi, la necessità che si costituisse anche nella nuova realtà relazionale un buon contenitore analitico in cui potessero essere accolte le sue angosce, evitando di sovrapporre automaticamente la relazione attuale a quella precedente, in cui gli oggetti inanimati della stanza di analisi,  sostenevano efficacemente la continuità del setting, costituendosi come affidabili garanti del sentimento di sicurezza. Quando questo è potuto avvenire anche nel nuovo setting, « Il rischiararsi progressivo delle zone d’ombra messe dentro le cose, oltre ai benefici legati a un accresciuto movimento del pensiero, ha anche liberato la percezione, restituita al solo piacere di trarre godimento dalle cose » (Godfrind, 1995, p. 542)

   In altre situazioni cliniche, dopo le fasi iniziali dell’esperienza da remoto, ho potuto osservare alcune difficoltà quali lo spegnersi della tensione transferale, l’eccesso di concretezza e quindi la riduzione della simbolizzazione in rapporto anche con la contrazione dei momenti di silenzio, così decisivi nel cadenzare il ritmo, la spaziatura delle sedute. Altre situazioni cliniche hanno evidenziato una sorta di ipertrofizzazione del sensoriale percettivo che rischia di conseguenza di invadere il campo analitico bi-dimensionandolo. La bidimensionalità (altezza-larghezza senza profondità), creando l’illusione di un contatto tra pari ed eliminando la necessaria asimmetria, sottrarrebbe spazio al manifestarsi degli aspetti regressivi.

   I diversi sacrosanti rilievi critici non devono diminuire il valore di ponte, di mantenimento del contatto che tale esperienza ha favorito in un quadro assolutamente eccezionale, evitando però di decantarne le magnifiche sorti progressive, di mitizzarne il valore assoluto. Alcuni, infatti, hanno esaltato superficialmente il valore scopofilico di questa esperienza, in quanto ha permesso di osservare aspetti che altrimenti sarebbero rimasti silenti nel setting tradizionale, senza prendere in considerazione i significati di ordine voyeuristico-intrusivo. Vale pena sottolineare ancora il significato protesico in una fase emergenziale, che può essere utilizzata come un intervallo di studio e riflessione che transiti il ritorno, quando sarà possibile, a un setting che permetta un lavoro analitico corpo a corpo, più profondo e ricco e, quindi, capace di contenere tutti gli scambi emotivi della coppia al lavoro.

   Anche quando gli studi saranno riaperti completamente, alcuni problemi si porranno ugualmente. Ad esempio, mi è capitato che una paziente mi ha chiesto un incontro, in quanto questo è stato reso possibile dai dati di contagio in netta diminuzione nonché dall’istituzione di norme di spostamento più favorevoli  delle misure della precedente fase di confinamento. Entrambi, io e la paziente a distanza di sicurezza, eravamo dotati di regolamentare mascherina e la paziente indossava guanti altrettanto regolamentari. A un certo punto della seduta vis à vis, la paziente mi ha chiesto se poteva abbassare la mascherina e, al mio sguardo perplesso e alla mancanza di una risposta positiva, mi ha detto con un certo dispetto: “Ma è come fare l’amore senza togliersi le mutande!”. La sua esclamazione mi ha fatto venire in mente che nel 1564, dopo il concilio di Trento, fu decisa la censura dei “nudi scandalosi” del Giudizio Universale nella Cappella Sistina. Per fortuna Michelangelo era già morto. Fu un collaboratore e amico di Michelangelo, Daniele da Volterra, a coprire la nudità delle figure con le famose “braghe”, cosicché da allora è stato soprannominato il Braghettone. Le mascherine erano state vissute dalla paziente, ma anche da me come “braghe”, che coprivano la creatività, la bellezza, l’arte, ma anche la sessualità del nostro incontro, costituendosi come un ostacolo, forse una censura degli aspetti comunicativi più profondi.

Nella fase che segue il confinamento più rigido, con il ritorno negli studi, i problemi dell’asepsi, dell’igiene e del distanziamento di sicurezza (non lo chiamerei distanziamento sociale) rischiano di confliggere con la bellezza e la creatività delle comunicazioni verbali e non verbali della coppia nella stanza di analisi. Anche questo è un tema ineludibile, a cui avvicinarsi con prudente, paziente, ma anche  innovativa riflessione.

    Bion in un seminario a Parigi nel 1978 (In Resnik, 2006) dopo avere detto che l’analista deve essere un artista e concepire la stanza di analisi come la bottega d’arte e, quindi, che se non è un artista vuol dire che ha sbagliato mestiere, ha poi ridimensionato le sue affermazioni, dicendo che talvolta può essere necessarioto make the best out of a bad job (fare buon viso a cattivo gioco), come si dice, e decidere di fare quello che si può con il materiale che si ha a disposizione nel laboratorio.  Oggi anche noi dobbiamo fare buon viso a cattivo gioco.

CONCLUSIONI

  Alcune riflessioni di Freud sull’anticipazione del lutto sono lungimiranti e trovano un riscontro in molti atteggiamenti legati pessimisticamente alla contagiosità del virus vissuta come ineluttabilmente mortifera.

   Nel breve saggio “Caducità” (1915) Freud racconta di una passeggiata in compagnia di un amico e di un giovane e famoso poeta (probabilmente Lou Andreas Salomé e Rainer Maria Rilke) “in una contrada estiva in piena fioritura” (p. 173). In risposta alla pessimistica visione del futuro del poeta Freud scrive:

Quanto alla bellezza della natura, essa ritorna, dopo la distruzione dell’inverno, nell’anno nuovo, e questo ritorno in rapporto alla durata della nostra vita, lo si può dire un ritorno eterno […]. Se un fiore fiorisce una sola notte, non perciò la sua fioritura ci appare meno splendida” (p. 174).

   Freud articola uno degli aspetti fondamentali dell’esperienza emotiva legata ai cambiamenti imposti da situazioni emergenziali, alle loro conseguenze e alle relative paure: il lutto anticipatorio e il rischio del ritiro degli affetti dagli oggetti avvertiti come danneggiati o danneggiabili. Il saggio “Caducità”, che a mio parere andrebbe letto e studiato nelle scuole, suggerisce come l’ambiente e gli oggetti affettivamente investiti possono essere esperiti in un clima di perdita incipiente e di paura incombente della fine. Il lutto esperito dal poeta, testimone passivo di un’eventuale futura distruzione, non è elaborato, ma si costituisce come una difesa narcisistica per evitare l’autentico e doloroso processo del lutto attraverso la sua anticipazione; la bellezza è anticipatamente perduta e a questo Freud si ribella, proponendo di riparare e ricreare il mondo danneggiato, sia quello interno che quello esterno, concludendo in questi termini:

Una volta superato il lutto, si scoprirà che la nostra alta considerazione dei beni della civiltà non ha sofferto per l’esperienza della loro precarietà. Torneremo a ricostruire tutto ciò che la guerra ha distrutto, forse su un fondamento più solido e più duraturo di prima” (p. 176).

   Freud può farci da guida verso il futuro, spronandoci non ad essere euforicamente ottimisti, ma fiduciosi nelle capacità riparative e costruttive nostre e dei nostri pazienti.

   Gli psicoanalisti dovrebbero contribuire a ravvivare la capacità di pensare e sognare un futuro migliore e di impegnarsi nel contribuire alla valorizzazione del senso della misura e della sobrietà, reagendo ai sentimenti di catastrofe, di fine della Storia come finora l’abbiamo conosciuta, che in questi momenti difficili possono ci attanagliarci, contemplando con integrità e sincerità anche gli aspetti spiacevoli dell’esistenza, ma favorendo la possibilità di viverli con una maggiore coscienza riflessiva attraverso il paziente e continuo lavoro della simbolizzazione e dell’elaborazione.

   Italo Calvino fa dire a Marco Polo a conclusione di Le città invisibili (1972,  p. 164):

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

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[1] Laudator temporis acti (Orazio, Ars poetica, 173) (Chi loda e rimpiange il passato).

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