
Parole chiave: Psicoanalisi, Centenario, Cura, Storia, Società Psicoanalitica Italiana
Nel suo articolo, uscito il 26 settembre 2025 su Huffington Post, Sarantis Thanopulos celebra il centenario della fondazione della Società Psicoanalitica Italiana: una storia intrecciata alla cultura democratica e alla civiltà della cura, rinnovando il valore della psicoanalisi come pratica di ascolto, libertà e rigore clinico.
La Società Psicoanalitica Italiana e la civiltà della cura
Sarantis Thanopulos
Quest’anno ricorre il centenario dalla nascita della Società Psicoanalitica Italiana (SPI). Nata formalmente nel 1925 a Teramo su iniziativa di Marco Levi Bianchini, la SPI è stata effettivamente costituita nel 1932 dallo psicoanalista triestino Edoardo Weiss e diventata parte della Società Psicoanalitica Internazionale fondata da Freud nel 1936. Si è sciolta nel 1938 con l’entrata in vigore delle leggi razziali. Rinata dopo la liberazione ha avuto come suo primo presidente il medico socialista e membro della resistenza Nicola Perrotti, alto commissario per l’igiene e la sanità pubblica nei primi governi De Gasperi. Di vocazione democratica e antifascista la SPI ha mantenuto sempre un legame forte con la società e la cultura italiana. È tuttora una voce significativa della società civile del nostro paese.
La cultura della cura, che la SPI ha promosso e sviluppato con passione e rigore, pone al centro del processo terapeutico l’esperienza soggettiva. La terapia analitica non applica principi tecnici, non ha un approccio correttivo al modo di pensare e di agire del soggetto sofferente, non cerca di adattarlo a schemi mentali-comportamentali prestabiliti, supposti socialmente adeguati. Non vede nel dolore di una persona un errore di giudizio o un deficit cognitivo, ma l’espressione di un’interruzione nel legame tra il suo intimo sentire sé stessa nel mondo e la rappresentazione, narrazione e realizzazione di questo sentire nelle sue relazioni con gli altri.
Lacan nella sua nota affermazione “Io sono dove non penso e penso dove non sono”, con cui riprende Nietzsche e di Kafka, rappresenta bene l’antinomia costitutiva dell’essere umano: la sua divisione tra una dimensione dell’esistenza in cui il senso del vivere, il sentire e l’agire coincidono e un’altra in cui il senso è dato dalla parola e diventa ragione che legge, definisce e elabora i sentimenti e le azioni. Dall’impossibilità di dirci (pensare il nostro essere e parlarne) Kafka ha tratto la conclusione che quando parliamo di ciò che siamo mentiamo. Lacan ne ha derivato l’effetto alienante della parola: quando la usiamo tendiamo ad alterare il nostro modo di essere, di diventare estranei a noi stessi. Freud ha avuto la stessa visione antinomica dell’essere umano, diviso tra Es (sono nella spinta erotica, pulsionale che anima il mio corpo) e Io (penso con l’immagine visiva e con la parola), Tuttavia, ha concepito il legame tra l’essere e il pensare in termini di continuità nella discontinuità: il secondo deve avvenire nel luogo del primo. L’albero è diverso dalle sue radici -tra loro c’è una discontinuità di costituzione- ma deve crescere in loro corrispondenza, attraversato, animato dalla sostanza vitale che esse gli trasmettono.
La parola rivolta all’altro non comunica ciò che siamo nella sua più intima essenza, (in sé inafferrabile dal nostro discorso). Stabilisce, nondimeno, con lui un reale contatto (tanto più vero quanto più è poetica), a condizione che non ci separi dal nostro intimo sentire che ci radica nel mondo. La cosa importante non è dire quello che siamo; è il pensare, parlare e agire ispirati dal nostro essere, senza mistificarlo o ignorarlo. Così questo sentire vive nelle nostre relazioni e ci fa vivere.
Si potrebbe dire con Freud, oltre Cartesio: “Penso se sono (sento di esistere e ciò che vivo esiste)”. La psicoanalisi si fa carico delle situazioni esistenziali in cui ciò che siamo entra in conflitto con la sua realizzazione, mediata dal pensiero strutturato dalla parola, nella realtà condivisa: la sua espressione verbale è inibita in una o più aree dell’esperienza, diventa mistificante o agisce in modo alienante (la prospettiva colta da Lacan). L’ingorgo del desiderio che ne deriva produce tensione psichica (ansia, angoscia, depressione) e il movimento della vita dentro di noi è deviato verso il bisogno di liberarcene.
Il lavoro dell’analista promuove il ripristino della circolazione del desiderio, consente il rimettersi in movimento, in gioco delle potenzialità e risorse creative del soggetto che sono state accantonate, rimosse con un impoverimento della sua vita erotica e affettiva e una riduzione del raggio della sua azione costruttiva. È un lavoro di connessione della rappresentazione cosciente che della sua vita ha chi soffre con la periferia dei suoi sentimenti e pensieri (i terreni marginali, lasciati incolti della sua esistenza) dove vive e respira clandestinamente la parte abbandonata di sé.
L’analista ha come suo alleato il sogno: lo spazio intermedio tra il sentire e il dire che è la cerniera della nostra soggettività antinomica. Lo spazio onirico è il luogo privilegiato in cui il rimosso torna, portando con sé il conflitto che ha causato la sua rimozione, ma anche la spinta irriducibile del desiderio di vivere che mai si arrende alle sue disavventure e frustrazioni e neppure alle sue catastrofi. Il lavoro sul sogno, che lo fa vivere come esperienza condivisa nella relazione analitica, sposta il movimento dei sentimenti e dei pensieri lateralmente rispetto alla logica lineare del conflitto che non ammette contraddizioni e conferma sempre l’inibizione. Fa respirare il materiale onirico ampliando la sua rete di relazioni nei luoghi in cui nulla è accaduto una volta e per sempre e ogni cosa è aperta a nuove collocazioni, evoluzioni e significazioni. Facilita il riemergere della vita che pulsa sotto la pattina della desertificazione.
La cura analitica esige: la rinuncia da parte dell’analista a trarre vantaggi personali dal suo legame con le persone in cura; l’astensione da ogni forma di giudizio nei loro confronti; l’astensione dall’influenza sulle loro scelte di vita; il riconoscimento della singolarità della loro esistenza, per principio libera da ogni canone non solo ideologico, ma anche scientifico; il rispetto dei loro tempi e modalità personali di elaborazione dei loro vissuti, che fa dell’analista uno strumento umano maneggevole per la loro ricollocazione nel mondo.
Le qualità che distinguono gli psicoanalisti della SPI, eredi di una grande tradizione clinica, sono la sensibilità del loro ascolto, la disponibilità ad ammettere i limiti della loro comprensione e a mettere in discussione le loro conoscenze, per apprendere dai loro pazienti, il “tatto” con cui si sintonizzano affettivamente e mentalmente con essi, la modestia con cui vivono i successi terapeutici. Per cent’anni hanno dato un contributo significativo alla civiltà della cura frutto di un sapere complesso sull’essere umano e la sua sofferenza e di una passione insieme ambiziosa e modesta. Lontani da aspirazioni di dominio e di potere. Oggetto periodico di attacchi ingenerosi (e spesso in cattiva fede) meriterebbero, invece, una certa riconoscenza.