
Parole chiave: Antisemitismo, Linguaggio, Psicoanalisi e politica, Antisionismo, Responsabilità intellettuale
Su Il Foglio del 3 giugno, David Meghnagi, psicoanalista e membro della SPI, interviene per riflettere sul discorso pubblico sui rischi dell’antisemitismo. In un clima in cui il linguaggio si piega a derive ideologiche, Meghnagi richiama la responsabilità degli intellettuali e l’urgenza di difendere la capacità di pensare.
Al direttore – L’antisemitismo da latente è tornato manifesto. Se non fosse per le implicazioni tragiche verrebbe da ridere amaramente all’idea che l’odio più antico possa declinarsi come “antisionismo”, “antirazzismo” e “anticolonialismo”. In questa perversa deriva le parole hanno perduto il loro significato. Filosofi e accademici, psicologi e anche psicoanalisti, hanno perso l’occasione per fare la differenza, partecipando chi più, chi meno, a un rito delirante di “purificazione” che sembra avere preso in ostaggio la capacità di pensare e di immaginare percorsi possibili per una composizione politica sostenibile dei conflitti che lacerano il vicino oriente. La voce dell’intelletto scriveva Freud, “è fioca”, ma prima o poi riuscirà a farsi strada.
David Meghnagi, ordinario Società psicoanalitica italiana
L’antisionismo è semplicemente diventato una chiave per rendere l’antisemitismo presentabile nei salotti. Le parole hanno perduto il loro significato, è vero, ma fino a un certo punto. Perché chi usa alcune parole oggi per creare parallelismi tra la tragedia di Gaza e l’Olocausto sa esattamente quello che sta facendo. Creare parallelismi irricevibili per provare eliminare gli anticorpi che hanno tentato di curare un male che non c’entra con Gaza: considerare non più un tabù l’idea di poter trasformare un ebreo colpevole di essere un ebreo.
“Paragonare Israele ai nazisti non è una critica: è antisemitismo travestito da giustizia” (Deborah Lipstadt, storica, già ambasciatrice americana)