Cultura e Società

Meghnagi accusa la sinistra “Non sa cos’è il sionismo” il Riformista, 04/06/2025

13/06/25
David Meghnagi

David Meghnagi

Parole chiave: antisemitismo, disinformazione, memoria, trauma, sionismo

In questa intervista pubblicata su Il Riformista il 4 giugno 2025, David Meghnagi riflette sul legame tra antisemitismo e disinformazione sul sionismo. L’articolo affronta le radici ideologiche e le trasformazioni dell’antisemitismo contemporaneo. Una lettura utile per chi interroga il presente alla luce della memoria e del trauma collettivo.

L’antisemitismo non è mai scomparso, ha solo cambiato volto. È la radice di un pregiudizio antico che continua a rinnovarsi, anche nei luoghi – come le università – in cui dovrebbe prevalere il dialogo. In un tempo in cui l’odio riemerge sotto nuove maschere, David Meghnagi – membro ordinario della Società psicoanalitica italiana e direttore della rivista Trauma and Memory – ci guida in una rifl essione lucida e profonda su ciò che sta accadendo in Europa e nel mondo.

Quanto è pericolosa l’ondata antisemita oggi?

«Da latente, l’antisemitismo è purtroppo tornato manifesto. Non sono ovviamente in discussione il diritto al dissenso e alla critica di quanto accade, che sono il sale della democrazia. È in discussione la logica di un antisemitismo che ha riscoperto una falsa innocenza declinandosi come “antisionismo” e “anticolonialismo”. Se il vecchio antisemitismo negava, ridimensionava e derubricava la tragedia della Shoah, il nuovo antisemitismo vuole appropriarsene. Cannibalizza la memoria della tragedia, trasformando le vittime di ieri nei carneficidi oggi. Pareggiando i conti, ci libera da un fardello di colpa incolmabile che  non essendo elaborato  assume forme persecutorie e ossessive».

Anche la comunità internazionale non ha aiutato storicamente…

«Nel 1975 l’Assemblea delle Nazioni Unite approvò una mozione che equiparava il sionismo al razzismo, votata dagli Stati arabi e dal blocco comunista e terzomondista. La risoluzione rimase in vigore anche durante il processo di pace che condusse agli Accordi di Camp David con l’Egitto nel 1978. La risoluzione fu revocata nel 1991 dopo la guerra del Golfo e con la conferenza di Madrid. Ma questa importante decisione non fu seguita da una rivisitazione critica della cultura politica e ideologica di cui si alimentava e su cui poggiava».

Perché?

«Innestandosi nella grave crisi che ha investito il mondo occidentale, la mancata rielaborazione della cultura politica che ha fatto da sfondo al rifiuto ontologico di Israele ha avuto – dopo il fallimento degli accordi di Oslo –  delle conseguenze devastanti.
Dopo il crollo dell’Unione sovietica si aprì uno spiraglio che rese in seguito possibile gli accordi di Oslo. Fu una corsa contro il tempo, fi nita tragicamente per l’assenza di obiettivi chia ri e condivisi sull’esito conclusivo che implica sacrifici sostenibili per entrambi. Un accordo politico regge se gli obiettivi sono chiaramente stabiliti. Altrimenti è solo una tregua, come Arafat affermò all’indomani degli accordi una sorta di hudna coranica».

E questo ha un impatto ancora oggi?

«Nella cultura della sinistra c’è sempre stata una grande difficoltà a comprendere le ragioni ideali del movimento sionista. L’idea che gli ebrei dopo millenni di esilio e persecuzioni  potessero aspirare a una loro patria, metteva a dura prova l’ambigua narrazione liberale e socialista dell’e mancipazione. Nel feroce dibattito che oppose il movimento socialista e comunista al movimento sionista e al movimento del Bund (che si limitavaa rivendicare il diritto all’autonomiaculturale e nazionale) si chiedeva agli ebrei di immolarsi per un bene più ampio. In questa perversa logica, anche l’uso della lingua ebraica poteva diventare una colpa».

Le università sono luogo di incontro tra identità e culture diverse. Un esempio è l’Hebrew University, nata esattamente 100 anni fa. Nelle sue aule hanno sfilato premi Nobel che l’hanno resa un’eccellenza nel mondo…

«L’università fu voluta da Weizmann e da Einstein. Non potendo esserci di persona, Freud inviò un messaggio toccante a cui l’Università è rimasta fedele: “L’Università è il luogo in cui si insegna il sapere al di sopra di ogni differenza di religione e di nazionalità”. L’Università si è sviluppata con l’apporto degli accademici in fuga dall’Europa. Le università italiane, che da un giorno all’altro hanno espulso il 10% dei loro docenti, hanno un profondo debito irrisolto con un’Università nata grazie anche allo sforzo dei docenti che hanno ricostruito lì le loro vite spezzate».

E questo testimonia che la rinascita ebraica sia avvenuta grazie alla cultura…

«“Chi vive in un’isola  -recita un antico proverbio che mia madre amava ripetere –  deve farsi amico il mare”. Israele è come un’isola in un grande mare arabo che dovrà un giorno rendersi amico. Dovrà farlo non per fare un piacere a chi, inneggiando alla“pace”, vorrebbe il suicidio di Israele. Dovrà farlo per restare fedele alla sua vocazione più profonda, per i suoi fi gli e per il sogno che l’ha animato nei secoli. Proviamo a immaginare che cosa diventerebbe il Vicino Oriente se gli israeliani, i popoli arabi e i palestinesi potessero un giorno allearsi nel segno della democrazia e nell’accettazione delle rispettive realtà nazionali».

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