Cultura e Società

Perché gli uomini odiano le donne, LiberEtà, novembre 2017. Intervista a Nicoletta Bonanome

8/11/17

LiberEtà Nov. 2017 

Perché gli uomini odiano le donne

Parla la psicoanalista Nicoletta Bonanome

 INTRODUZIONE: Nicoletta Bonanome, psicoanalista e membro ordinario della Società psicoanalitica italiana, intervistata per il mensile LiberEtà , all’approssimarsi della Giornata Mondiale, analizza la dimensione dilagante della violenza contro le donne: la bizzarra idea che si uccida per “troppo amore”, il disprezzo per la fragilità e l’idealizzazione della “forza”, la difficoltà nell’uso  delle parole per dire le proprie emozioni. (Silvia Vessella)

LiberEtà 

Romualdo Gara

«Non sembra che gli uomini vogliano farsi carico di un problema che li riguarda così da vicino. A me, ad esempio, non è mai capitato di ricevere una richiesta di terapia da parte di un uomo con problemi di violenza agita». Nicoletta Bonanome, psicanalista e membro ordinario della Società psicoanalitica italiana, ha avuto in analisi tante donne che hanno subìto violenza da mariti, padri, fidanzati, ma mai un marito, un fratello, un padre violento»

Perché?

«Alla base di questo fenomeno, che è al tempo stesso politico, sociale, giuridico, culturale e psicologico, c’è un’enorme sottovalutazione, quando non una vera e propria negazione. Non è questione di incolpare qualcuno, ma quando tante denunce non vengono prese in considerazione, vuol dire che l’intera società non si fa carico del problema».

Lo vediamo in Tv e sui giornali. Quando vengono intervistati amici o vicini della donna violentata o uccisa, le risposte sono sempre: «Eppure il marito era una persona a modo». E poi le frasi: «Ha ucciso per troppo amore» o «ha ucciso, ma l’amava tanto» ci dovrebbero far chiedere di cosa stiamo parlando, di che cos’è amore.

«Le sensazioni che noi proviamo cercano per loro natura una comunicazione. Spesso però questa comunicazione manca perché è assente l’ascolto, che invece può rendermi consapevole dei miei aspetti violenti. Quello che provo è indubbiamente un segnale di come sto e mi permette di costruire una bussola su me stesso. Un mio baricentro. Se invece agisco, nel senso che faccio cose violente, questa bussola viene meno e l’altro diventa il baricentro della mia vita».

Con quali conseguenze?

«Il termine “cura” è sempre stato delegato a un femminile, così come il termine “comprensione” è relegato a un aspetto materno. L’uomo, invece, per salvare la sua mascolinità pensa che debba essere forte, senza emozioni, senza fragilità. Gli uomini, e la società in generale, hanno della donna una visione che definirei “gastronomica”, che ne propugna un uso e consumo voraci».

C’è quindi un problema di fragilità?

«Quanto più si vede la complessità della vita tanto più siamo a contatto con la nostra fragilità. Questo è un altro aspetto del femminicidio: ritenere la fragilità una malattia, mentre è esattamente il contrario: l’arroganza e la disfunzionalità della forza sono la malattia. Chi è che mena? I bambini piccoli, che non hanno un linguaggio adeguato per comunicare le emozioni. La nostra complessità fa sì che noi funzioniamo su un piano razionale e su uno emotivo. Le emozioni hanno per loro natura un carattere irrazionale, di estensione infinita che però deve essere contenuta nel reale. Non può dilagare, altrimenti ritorniamo all’homo homini lupus».

Forse non siamo poi così diversi da chi commise il ratto delle Sabine

«Anzi, forse siamo peggiorati. Quel rapimento di donne almeno aveva uno scopo. Qual è, invece, lo scopo dell’uccidere chi non realizza il tuo sogno di possesso e che non è più una persona reale, ma qualcosa che ti sei costruito?».

Come se ne viene fuori?

«Mi è piaciuto molto il discorso del presidente del Senato e il suo invito a farsi carico del problema della violenza alle donne e a prendere consapevolezza della loro violenza, aggiungerei soprattutto della microviolenza nel quotidiano. Le donne sono le vittime, ma non devono sentirsi colpevoli se il loro partner è violento».

 

 

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