Cultura e Società

Memoria, transfert e rimozione della cultura

5/05/14

Waud H. Kracke

MEMORIA, TRANSFERT E RIMOZIONE DELLA CULTURA (1)

a David Price

Bebê

Bebê è un uomo dalla grande energia e di una trainante dinamicità. Da molto tempo ormai si è guadagnato il rispetto lungo il fiume per la sua perizia come “motorista” di una barca, e ha lavorato per qualche tempo a bordo di un regatão – una barca commerciale, uno di quei negozi mobili che solcano il Madeira e il Rio delle Amazzoni comprando i prodotti della giungla e vendendo merci. Egli vi stava lavorando quando lo incontrai a Humaità nel 1989, mentre serviva i cercatori d’oro di fiume dell’alto Madeira. Parlava un Portoghese molto buono della varietà delle sponde del Rio delle Amazzoni, proprio con l’accento e l’intonazione dei garimpeiros, quei cercatori che la sua barca serviva; nulla, dai suoi modi al suo accento, lasciava trasparire che fosse Indiano. Tuttavia egli frequentemente tornava a far visita alla madre e al patrigno là dove abitavano, sulle rive del fiume Pupunhas, nella riserva di Nove de Janeiro, oppure nella casa che mantenevano a Humaità – una capanna di paglia con una sola camera da letto e una veranda, come le baracche dei raccoglitori di gomma. Quando egli veniva in visita da quelle parti, diventava il fulcro delle attività: qualora vi fosse stato un conflitto coi brasiliani bianchi nel paese, egli si sarebbe imposto come un leader vigoroso, eloquente ed efficace nel rappresentare il punto di vista paritintin. L’ho visto agire in maniera molto valida contro un bellicoso bianco, contestando ogni sua provocazione senza mai però lasciarsi coinvolgere.

Tuttavia, nonostante l’amore per la madre, il fratello e i suoi cugini, si allontanò da essi per il fatto che egli non aveva alcun tipo di padronanza della propria lingua madre, il parintintin, che parlò solo nei primi dieci o dodici anni di vita. E nemmeno serbava memoria, come mi disse in seguito nelle interviste che mi rilasciò, delle storie che affascinato aveva ascoltato quando suo padre gliele narrava.

C’era invero un punto debole in quest’uomo altrimenti molto valido ed efficiente: la sua paura della malattia. È fu proprio ciò, in effetti, che ha reso possibile che io lo intervistassi. O piuttosto è stato a causa della malattia che io ho potuto sedere accanto a lui, ogni giorno per un’ora o due, e ascoltare come egli stesso esprimesse la sua angoscia per il fatto medesimo di essere infermo – il suo primo malanno, mi disse, da quando era piccolo. Cadde stavolta ammalato in occasione della visita ai suoi genitori nell’abitazione della riserva sul Papunhas, di ritorno dalla città a causa di quella che egli pensava fosse una grave infezione al fegato. Io lo incoraggiai a recarsi presso la clinica ospedaliera, dove dopo qualche tempo gli fu diagnosticata un’infezione parassitica multipla, comprendente elmintiasi, amebiasi e probabilmente malaria. Più tardi gli furono forniti farmaci e gli fu prescritto riposo – la parte del trattamento per lui più difficoltosa da seguire, del resto non aveva neanche l’energia di sollevarsi dalla sua amaca. Egli era a tal punto terrorizzato e depresso dalla sua malattia che disperava di poter mai guarire. Mi sono quindi avvalso dell’opportunità di visitarlo quotidianamente, lasciando che egli sfogasse le sue ansie, spiegandogli quello che potevo della diagnosi e delle prescrizioni dei medici ed esortandolo a parlare della sua vita.

Egli passò molto tempo a parlare dei suoi sintomi, della sua spossatezza, della sua disperazione e sfiducia circa ogni possibilità di potersi riprendere. Giaceva nella sua amaca magro, pallido e molto indebolito, in marcato contrasto con quell’uomo energico che aveva affrontato l’antagonista regionale. “Fraco, fraco, fraco, fraco!” Mi salutò così quando arrivai, con una voce roca, carica di frustrazione e sconforto. Era stufo dell’incomunicabilità con il medico, le cui spiegazioni lo avevano lasciato confuso. Inoltre egli incolpava il luogo dove abitavano la madre e il patrigno che si affacciava sulla riserva, che considerava pericolosamente malsano, in particolar modo a causa dell’acqua stagnante, piena di foglie marce e rottami che, secondo un credo dell’Amazzonia, sarebbero la causa di malaria e altre malattie. Non aveva fiducia nell’ospedale – non senza un buon motivo per la sua precedente fama, anche se era stato recentemente rimodernato da personale qualificato – e chiedeva dei rezadores, ovvero i guaritori rituali, ma non aveva l’energia per recarsi da uno di questi. Così mentre le interviste progredivano e i trattamenti ospedalieri avevano solo un effetto lento, allo stesso tempo il suo sconforto cresceva.

Nelle prime tre interviste, egli continuava a lagnarsi dei dottori, della sua situazione, lamentando che quella fosse la prima volta che gli era mai capitato di ammalarsi a Humaità. Nella quarta intervista, egli si sentiva un poco meglio e mi spiegò come, secondo le credenze locali, la malattia soggiorni in un luogo e possa infettare coloro che ne vengano in contatto:

“La malattia vive attorno al vecchio Indiano [o velho caboclo] che morì là tanto tempo fa; la malattia rimane radicata nel profondo della foresta e infetta la gente. Talvolta è la stessa acqua che ti infetta.”

E spiegò anche come l’acqua stagnante fosse veicolo della malaria. Questa idea che fosse stata la morte di un “vecchio Indiano” ad aver causato la sua malattia, prefigura ciò che stava per accadere.

Alla fine di questa intervista, io chiesi quale fosse stata la malattia che aveva contratto da piccolo. Morbillo, rispose immediatamente. Questa fu la malattia che egli ebbe giusto prima di lasciare il luogo dov’era nato. Per avere un’idea di quale età potesse avere allora, gli chiesi se suo padre al tempo fosse ancora vivo. Quando posi questa domanda egli sembrò confuso. “Si, lo era, penso” disse come prima cosa, poi esitò: “No, credo di no, perché mia madre venne da sola a prendermi, quando ero malato.” Non riusciva a ricordare se suo padre all’epoca fosse ancora vivo.

Memoria

Il giorno seguente il medico prescrisse finalmente medicinali per i vermi e l’ameba. Bebê fu sollevato, ma non cessò la sua ansia. Incominciò di nuovo a lamentarsi della sua debolezza, ma cominciò a nutrire qualche speranza che le medicine avrebbero potuto aiutarlo. Ma continuava a tornare sul suo stato di spossatezza e commentava: “Non avevo mai immaginato che avrei potuto ammalarmi così! Io non sono ridotto in questo stato, quando sto bene!” Chiesi allora se si era sentito così, anche quando da piccolo aveva avuto il morbillo e la sua risposta confermò il mio sospetto, ovvero che proprio quella malattia avesse avuto un qualche significato speciale per lui: “È stato anche peggio. Ero diventato magro, magro, magro e debole, debole.” Sua madre doveva sorreggerlo. “Chi altro si ammalò, in quello stesso tempo?” I suoi due fratelli, disse. “E tuo padre?” chiesi “Era lì?” Bebê rispose con dolore nella voce: “Anche lui era ammalato.” Si arrotolò nell’amaca voltandosi verso il muro, mentre il suo viso mostrava una tristezza assoluta. Io rimasi silenzioso al suo fianco per un po’ poi chiesi: “Cosa stai pensando?” “Niente!” rispose. Dopo un po’ egli gemette ancora e poi gridò: “Mãe!” Quando mi avvicinai e gli chiesi: “Che cos’è?” lui disse: “Niente… volevo solo…” e si fermò. Io rimasi ancora pochi minuti, in silenzio, poi lo lasciai dicendo che sarei tornato il giorno dopo.

Nei pochi giorni seguenti, mi raccontò ciò che non avevo avuto bisogno di chiedergli: suo padre era morto per quella malattia, quella stessa malattia a cui lui era sopravvissuto. Questo era ciò che ricordava. Da questo punto in poi, incominciarono ad emergere altri ricordi del padre: come loro due andassero assieme in giro, come il padre gli avesse insegnato a cacciare e pescare, e le storie che usava raccontargli. Quanto infine lui e suo padre fossero stati vicini.

Transfert e Rimozione della Cultura

Da questo momento egli fu più speranzoso nei confronti della malattia e cominciò a essere più positivo circa i progressi che stava compiendo. Riuscì a raggiungere un rezador e recuperò il suo spirito. Lo stato d’infermità dunque aveva suscitato in lui il ricordo della morte del padre per via di quella stessa malattia alla quale egli sopravvisse, con tutta la complicata mescolanza di sentimenti che aveva provato in relazione all’evento – incluso forse il senso di colpa per essere sopravvissuto a quella stessa malattia per cui il padre era morto, insieme a così tanti dei suoi parenti stretti. Fu così doloroso che non era in grado di ospitarne il ricordo nella sua coscienza, ma non riusciva nemmeno a liberarsene. Ne visse invece il ricordo come se si fosse trattato di un fatto presente, dando origine a un senso di travolgente oppressione. Il senso di disperazione per non aver potuto evitare la morte del padre fu poi trasferito in un sentimento di fiducia circa la sua stessa guarigione.

Questa presenza del passato come presente, che insiste essa stessa sul fatto che il passato sia parte della realtà contingente, è la definizione di transfert. E il transfert di un ricordo passato nel presente, questa percezione del presente come un reiterarsi del passato, si può annullare solamente recuperando il passato come memoria. Questo fu ciò che Bebê fece. Il riportare la memoria a quel momento cruciale, con tutta la sua sofferenza, gli permise di rielaborare le relazioni con i suoi ricordi, con suo padre, con la sua stessa cultura – la cultura di suo padre che aveva rimosso e perso assieme al genitore medesimo.

C’è stata però una svolta particolare nel mio rapporto con Bebê, che deve avere plasmato il transfert. Bebê aveva strutturato il suo ego, il suo “io”, sul rifiuto della propria Parintintinidad(2) . Tuttavia, come antropologo, ero interessato a lui proprio perché era Parintintin. Non l’avrei incontrato se non lo fosse stato. Questo deve avere creato in lui una contraddizione, un conflitto profondo nel suo rapporto con me. Forse, come suggerì Willy Apollon quando gli presentai il caso di Bebê, è per questo motivo che lui non mi rivelò mai i suoi sogni: egli limitò il mio accesso al suo inconscio che aveva in modo ambivalente connotati Parintintin.

Non ho più visto Bebê, da quel periodo dieci anni fa quando avevo avuto modo di conoscerlo. Io non so se abbia recuperato la sua facoltà di parlare Kagwahiv, o se si ricorda ancora le storie che suo padre gli narrò. È possibile però che da quel giorno egli sia stato in grado di elaborare qualcosa di importante per lui.

Partire da casa per andare verso il fiume e diventare barcaiolo, come ha fatto Bebê, è un passaggio comune per un giovane Parintintin. Per i ragazzi di oggi, e da quanto riesco a ricostruire già per i giovani Paritintin da almeno uno o due decenni dopo la pacificazione del 1922, è una prassi regolare andarsene di casa nella tarda adolescenza per andare a lavorare lungo il fiume o nelle città, nella società brasiliana. E in molti casi, ciò che anticipa questo periodo errante nella società brasiliana è proprio la morte del padre del giovane. Di solito non si tratta di un evento così drammatico come la morte del padre di Bebê – che probabilmente però spiega la natura estrema del suo distacco con la lingua e la cultura Paritintin. In ogni caso, la perdita del padre viene vissuta come la rottura di un certo legame con la casa di famiglia. Forse – possiamo fare solo delle ipotesi – prima della “pacificazione” questo era il momento nel quale il giovane usciva in una spedizione di guerra per cacciare la testa di un nemico, oppure talvolta per vendicare la morte violenta, o per stregoneria, del padre. Ma la storia di Bebê chiarisce quantomeno il significato della rottura col legame paterno alla morte del genitore, nell’accelerare i tempi di distacco dei giovani da casa.

Il carattere estremo del caso di Bebê spiega tuttavia molto più di questo. La combinazione del trauma psicologico con la prassi culturale che ha portato Bebê a reprimere la sua lingua e la sua cultura, potrebbe non essere del tutto rara nel recente passato Partintin. La morte per malattia è una delle conseguenze più diffuse del contatto con la “civilizzazione” – “sifilizzazione” come Nunes Pereira usa chiamarla – e molta gente, Paritintin e di altre culture native del Brasile, possono aver avuto esperienze simili di perdita di un genitore nel momento in cui partivano per venire a contatto con l’involucro avvolgente della società brasiliana attorno a loro. Ciò può aver contribuito alla tendenza diffusa presso la più giovane generazione di molte culture brasiliane – com’è stato notato in particolar modo fra i gruppi Tupi – secondo cui essa s’allontana dalle proprie tradizioni e guarda allo straniero come ad un modello con cui identificarsi.

Ed è ancor più significativo il fatto che altri gruppi invece, come i Nambiquara, abbiano mantenuto una così forte aderenza alla loro cultura e alle loro tradizioni. Che cosa li ha protetti dalle conseguenze di questi traumi? Per i Nambiquara, non possiamo che riconoscere la grandezza del contributo dell’antropologo David Price, la cui opera sul loro conto – materiale di un altro saggio – è descritta in maniera irresistibilmente particolareggiata nel suo libro: Before the Bulldozer: The Nambiquara Indians and the World Bank (Price, 1989)(3) .                                                                                                                                                                                                            (Traduzione di Stefano Beggiora)

Note

(1)Il presente articolo è stato presentato al simposio Reconstructing Memory in Amazonia: Paper in Honor of David Price, organizzato da Catherine Howard e Beth Conklin all’American Anthropological Association, 98° incontro annuale tenutosi a Chicago, il 20 novembre 1999.
Il lavoro, nella versione italiana, è tratto dal libro Sconfinamenti: escursioni psicoantropologiche (a cura di S. Beggiora, M. Giampà, A. Lombardozzi, A. Molino), Mimesis Edizioni, 2014. (Per gentile concessione dell’editore)

“Parintintinità” [NdA]

In questo libro Price cerca di difendere gli Indiani Nambiqara dal furioso assalto dello sviluppo, che prese la forma di un’autostrada di mille miglia nel Brasile occidentale, finanziata in parte dalla World Bank. Si dimostra come processi burocratici che si svolgono a Washington possano distruggere vasti tratti di paese e portare alla miseria migliaia di persone. Le raccomandazioni di Price, basate su anni di lavoro sul campo con i Naquimbara, sono state ignorate dalla World Bank e dal governo del Brasile, allo stesso modo di come sono stati ignorati i pareri di ecologisti, demografi, esperti agricoli e forestali. Egli ripercorre qui gli eventi che hanno portato a un grave disastro ecologico nel Terzo Mondo, che continua oggi con la “cooperazione” e l’incoraggiamento del mondo sviluppato.

Bibliografia

Price D. (1989) Before the Bulldozer: The Nambiquara Indians and the World Bank, (Santa Ana, Calif.: Seven Locks Press)

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