Cultura e Società

La psicoanalisi all’epoca del coronavirus. C. Schinaia

10/03/20

COSIMO SCHINAIA

LA PSICOANALISI ALL’EPOCA DEL CORONAVIRUS

La psicoanalisi può essere una preziosa risorsa per approfondire lo studio dei meccanismi di difesa individuali e comunitari nei confronti della presa di coscienza dei gravi problemi con cui oggi siamo costretti a  confrontarci, delle sfide con cui ci dobbiamo misurare in relazione al complesso e contradditorio contrasto all’epidemia da coronavirus che comincia a pesare sulle nostre esistenze. Risulta impossibile parlare di un immaginario individuale senza considerare quello collettivo, che lo sottende e, anzi lo impregna, in un rapporto di codeterminazione reciproca. E non possiamo attestarci sull’immagine di un ambiente che sia solo un fuori sganciato dalla rappresentazione che ne abbiamo al nostro interno.

Alla psicoanalisi pertanto, più che ad ogni altro tipo di pratica e di teoria, credo sia affidato il compito di capire perché mai di fronte all’evidenza di un danno, di cui però non è chiaro quali siano la grandezza e la pericolosità, le donne e gli uomini stentino a rendersi conto di quello che è successo, di quello che sta avvenendo e di quello che ancora può succedere.  Oscillano tra il panico e l’indifferenza, tra il catastrofismo e lo scetticismo, mentre dovrebbero  guardare agli eventi attuali con occhi limpidamente allarmati, certo, ma né ingenuamente ottimistici o irresponsabilmente indifferenti, né distruttivamente catastrofisti.

Sono messi in atto vari meccanismi di difesa, la scissione, l’intellettualizzazione, la rimozione, il dislocamento, la repressione, il diniego, la banalizzazione. Ognuna di queste soluzioni difensive, volendo tamponare, ma anche nascondere, l’angoscia che deriva dalla difficoltà a confrontarsi   di un pericolo non immediatamente arginabile, può essere la manifestazione di una regressione alla posizione schizo-paranoide, per usare il linguaggio kleiniano, rischia di togliere valore ad ogni azione depressivamente preventiva e/o riparativa e mette in discussione i principi dell’etica della convivenza, se per etica possiamo intendere una funzione specifica della mente che la rende propriamente umana.

A questo proposito, sono belli i pensieri di Anna Ferruta (2020) che mette in evidenza il piacere della responsabilità personale, del prendersi cura della propria condizione come antidoto sia alla paura che all’indifferenza, perché permette di scoprire energie sconosciute, di utilizzarle per sé e di metterle a disposizione degli altri.

In rapporto alla complessità confusa che stiamo vivendo, va evidenziata l’assoluta necessità di un confronto continuo con gli altri saperi, con gli altri linguaggi, senza presuntuose ambizioni colonialistiche, né ricercate armonie totalizzanti, ma con la certezza della significativa peculiarità del contributo della cultura e dell’esperienza psicoanalitiche, che possono offrire risorse, strumenti e processi per affrontare costruttivamente le sfide che l’epidemia ci propone.

La conversazione fra differenti linguaggi scientifici e culturali può avvenire rendendosi ospitali per accogliere i ragionamenti e i sentimenti altri e, in tal modo, permettere, attraverso il sognarli, il pensarli e il ripensarli, la strutturazione di differenti e originali forme di linguaggio e di esperienza che non sono la somma dei linguaggi e delle esperienze di partenza, ma che trovano una loro configurazione e una loro vita autonoma e originale in relazione alla novità emotiva che ci troviamo a sperimentare.

Un uso più evoluto ed elaborato delle proprie convinzioni ideologiche, scientifiche, delle proprie famiglie culturali porta a posizioni insature e convoglia tendenze riparative in cui la preoccupazione e la responsabilità per la vita e il destino dell’individuo e della comunità predominano (Grinberg e Grinberg, 1975).

Pare che Albert Einstein abbia detto:

Non tutto quello che può essere contato conta e non tutto quello che conta può essere contato”[1],  dando anch’egli valore agli aspetti emotivi soggettivi che entrano in gioco anche nelle scienze sperimentali.

Del suo ammonimento dovrebbero trarre profitto molti discorsi televisivi di scienziati ed epidemiologi che, basandosi soltanto sulla descrizione drammaticamente oggettiva della catastrofe a cui dicono che stiamo andando incontro, non tengono conto della potenza delle difese psichiche a livello individuale e gruppale, che vengono a minare la consapevolezza dell’oggettività del danno subito, ma anche di quello che potenzialmente possiamo provocare.

 

Come fare fronte alla netta contraddizione tra, da una parte, le immagini del progresso, dell’inesauribile, dello sviluppo illimitato e, dall’altra, le zone rosse sempre più ampie (Lockdown zones dicono gli inglesi), le restrizioni fino alle interruzioni delle relazioni sociali, la riduzione fino all’abbandono delle confortevoli e assodate abitudini, le apocalittiche previsioni economiche e le informazioni sul progressivo aumento delle vittime che drammaticamente ci piovono addosso?

Scrive Jacques Press (2019, p. 266):

Di colpo si produce uno iato tra l’esigenza di azione connessa all’urgenza della situazione da una parte, e la paralisi del nostro funzionamento psichico dall’altra, per di più in un contesto molto particolare perché siamo noi gli agenti della distruzione in corso. Vi è il rischio di una teorizzazione concreta, di far aderire senza la necessaria distanza concetti psicoanalitici a una situazione che necessita di nuovi strumenti di pensiero per essere colta nella sua complessità.

Nel contatto con una nuova realtà è necessario pensare con strumenti che, pur rifacendosi al noto, tengano conto dei nuovi contesti e sappiano interagire con essi, seguendo il suggerimento di Pierre Fédida (2007, p. 52):

Il ruolo dell’analista è quello di immaginare. […] Immaginare ciò che un altro ha vissuto.”

Immaginare anche davanti a ciò che appare come un buco, un bianco di immagini, un vuoto senza cavità. Più radicalmente, immaginare la scomparsa, il disfarsi, la cancellazione delle tracce (Galiani, 2009).

Scrive René Kaës (2013):

Dobbiamo arrischiare delle analisi nuove, fabbricare degli strumenti mentali, proporre dei modelli di intelligibilità per pensare di nuovo e provvisoriamente questo rapporto con lo sconosciuto che noi abbiamo scelto come il nostro modo d’essere al mondo.

 

Ecco alcune considerazioni di Freud del 1915 a proposito della guerra, che sembrano calzare a pennello con i nostri vissuti all’epoca del coronavirus, fatti di perplessità, di confusione, di difficoltà ad esprimere giudizi fortemente assertivi:

Presi nel vortice di questo tempo di guerra, privi di informazioni obiettive, senza la possibilità di considerare con distacco i grandi mutamenti che si sono compiuti o che si stanno compiendo, o di prevedere l’avvenire che si sta maturando, noi stessi non riusciamo a renderci conto del vero significato delle impressioni che urgono su di noi, e del valore dei giudizi che siamo indotti a pronunciare. Ci sembra che mai un fatto storico abbia distrutto in tal misura il prezioso patrimonio comune dell’umanità, seminato confusione in tante limpide intelligenze, degradato così radicalmente tutto ciò che è elevato. Anche la scienza ha perduto la sua imparzialità; […] Può darsi però che avvertiamo con intensità sproporzionata le sciagure di questo nostro tempo, e che non sia giusto confrontarle  con le sciagure di altri tempi che non abbiamo conosciuto.” (1915a, p. 123)

Sempre nello stesso saggio Freud mette in evidenza come in presenza degli eventi bellici del tempo, i disturbi di ordine nevrotico sembravano decisamente ridursi. Questa osservazione sembra confermata dai dati che emergono dai pazienti nelle zone di isolamento sanitario, in cui i disturbi ipocondriaci sembrano diminuire, lasciando spazio talvolta alla sana e matura preoccupazione, ma talaltra, purtroppo, a un acutizzarsi di una incontenibile sintomatologia panica.

Anche alcune riflessioni di Freud  sull’anticipazione del lutto sono lungimiranti e trovano un riscontro in molti atteggiamenti legati pessimisticamente alla contagiosità del virus vissuta come ineluttabilmente mortifera.

Freud nelle prime battute del saggio “Caducità” (1915b) quando, raccontando di una passeggiata in compagnia di un amico e di un giovane e famoso poeta “in una contrada estiva in piena fioritura” (p. 173), aveva scritto:

Quanto alla bellezza della natura, essa ritorna, dopo la distruzione dell’inverno, nell’anno nuovo, e questo ritorno in rapporto alla durata della nostra vita, lo si può dire un ritorno eterno […]. Se un fiore fiorisce una sola notte, non perciò la sua fioritura ci appare meno splendida.” (Ibid., p. 174)

Freud ha articolato uno degli aspetti fondamentali dell’esperienza legata ai cambiamenti a cui ci sentiamo costretti, alle loro conseguenze e alle relative paure: il lutto anticipatorio e il rischio del ritiro degli affetti dagli oggetti avvertiti come danneggiati o danneggiabili, cioè la condizione psichica che può mostrarsi espressivamente come apatia. Il saggio “Caducità”  suggerisce come l’ambiente e gli oggetti affettivamente investiti possono essere esperiti in un clima di perdita incipiente e di paura incombente della fine. Il lutto esperito dal poeta, testimone passivo di un’eventuale futura distruzione, non è elaborato, ma si tratta di una difesa narcisistica per evitare l’autentico e doloroso processo del lutto attraverso la sua anticipazione; la bellezza è anticipatamente perduta e a questo Freud si ribella, proponendo di riparare e ricreare il mondo danneggiato, sia quello interno che quello esterno, concludendo in questi termini:

Una volta superato il lutto, si scoprirà che la nostra alta considerazione dei beni della civiltà non ha sofferto per l’esperienza della loro precarietà. Torneremo a ricostruire tutto ciò che la guerra ha distrutto, forse su un fondamento più solido e più duraturo di prima.” (Ibid., p. 176)

Nel saggio del ’29, Il disagio della civiltà, Freud propugna come necessaria la limitazione individuale nella costruzione della civiltà, e, in tal modo, sembra voler proporre le basi per un’etica della collaborazione e della solidarietà, in cui ognuno rinuncia a qualcosa in nome del bene comune. Sublimazione, Prudenza, Condivisione, Rispetto, Cura, Conduzione, Responsabilità sono le virtù con le quali dovremmo far fronte alle difficoltà attuali; esse esprimono tutte, seppure su piani diversi, la necessità di una rinuncia pulsionale in nome dei valori comunitari. Le acute riflessioni freudiane dovrebbero esserci compagne di strada nel momento in cui i governi, le autorità scientifiche, ci chiedono di rinunciare a una parte della nostra libertà, per esempio di movimento e di contatto con gli altri, in nome del bene comune.

 

Bion, parla della capacità negativa,  mettendo in esergo dell’ultimo capitolo di Attenzione e interpretazione l’estratto della lettera del poeta inglese John Keats, ai fratelli George e Thomas il 21 dicembre 1817 su “la qualità essenziale dell’Uomo dell’Effettività”.

La capacità negativa viene definita come:

Quella capacità che un uomo possiede di perseverare nelle incertezze attraverso i misteri e i dubbi, senza lasciarsi andare a un’agitata ricerca di fatti e ragioni” (Bion, 1970, p. 169).

Questa “capacità negativa” consente di tollerare le deviazioni, i cambiamenti dei punti di vista, gli andirivieni nella ricerca di soluzioni terapeutiche adeguate e risolutive, restando se stessi e rendendo ancora più vivo nelle persone il desiderio di comprendere senza a tutti i costi riempire uno spazio per sentire e per pensare.

Le parole di Keats e le riflessioni di Bion sono un monito ad affrontare le vicissitudini dell’esistenza, accettandone l’incertezza e la complessità, evitando l’antieconomica illusione di pensare di potere governare quello che non è completamente governabile. Se troppo facilmente si riduce lo sconosciuto al conosciuto, l’incongruo al congruo, si corre il rischio di farsi complici delle resistenze legate all’angoscia e di allontanarsi dalla non immediata soluzione dei problemi.

Bion aveva già scritto in Trasformazioni circa la non-cosa (no-thing), intesa come l’indicazione di quei processi mentali in cui è possibile tollerare i limiti della conoscenza senza saturarli con una sorta di superbia pseudoscientifica, né cancellarli in nulla, niente-cosa (nothing), a causa dell’incapacità a tollerare la mancanza della non cosa (Bion, 1965).

Scriverà ancora Bion, riportando il rischio di non esercitare la capacità negativa al lavoro analitico:

Se è vero che l’essere umano, come la natura aborrisce il vuoto, non può tollerare lo spazio vuoto, cercherà di riempirlo trovando qualcosa che occupi quello spazio presentato dalla sua ignoranza. L’intolleranza della frustrazione, il disagio di sentirsi ignoranti, di avere uno spazio che non è riempito, può stimolare un desiderio precoce e prematuro di riempire lo spazio. […] Lo psicoanalista nell’esercizio della sua professione deve decidere se sta promulgando una teoria oppure un riempitivo che non si può distinguere da una paramnesia. […] La questione è se le paramnesie, le risposte che sono immediatamente comprensibili, quelle che possono essere usate per riempire lo spazio della nostra ignoranza, ci portano fuori strada verso un pericolo estremo se i poteri della mente umana sono pari alla sua distruttività” (Bion, 1987, pp. 231-232).:

Ancora Bion sottolineerà in Cogitations “[Il valore del] processo della consapevolezza di elementi incoerenti e la capacità dell’individuo di tollerare questa consapevolezza” (Bion, 1992, p. 201).

 

Le riflessioni di Freud prima e di  Bion poi sono, come abbiamo avuto modo di vedere, molteplici, profonde e ancora utilizzabili e ci permettono di considerare quanto sia necessario che, anche nelle vicende odierne legate alla diffusione del coronavirus, la psicoanalisi possa partecipare allo sviluppo di un’etica comunitaria.

Ogni progressione autentica mette alla prova la nostra capacità di tollerare la precarietà di verità in transito (Horovitz, 2007) senza cedere subito all’impazienza della significazione definitiva. Verità piccole, appena più grandi di un balbettio che sostenga un desiderio, ma verità da cui non si può prescindere perché sostengono e promuovono le trasformazioni psichiche e che possono utilmente essere esplorate in profondità a patto che non perdano la connotazione, lo statuto di verità in transito verso quella risoluzione delle difficoltà, che necessariamente ha bisogno di tempo e pazienza.

Gli psicoanalisti dovrebbero contribuire a ravvivare la capacità di pensare e sognare un futuro migliore e di impegnarsi nel contribuire alla valorizzazione del senso della misura e della sobrietà, reagendo ai sentimenti di catastrofe, di fine della Storia come finora l’abbiamo conosciuta, che in questi momenti difficili possono ci attanagliarci, contemplando con integrità e sincerità anche gli aspetti spiacevoli dell’esistenza, ma favorendo la possibilità di viverli con una maggiore coscienza riflessiva attraverso il paziente e continuo lavoro della simbolizzazione.

Italo Calvino fa dire a Marco Polo a conclusione di Le città invisibili (1972,  p. 164):

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

 

BIBLIOGRAFIA

Bion, W. R. (1965), Trasformazioni. Trad. it. Roma: Armando, 1973.

Bion, W. R. (1970), Attenzione e interpretazione. Trad. it. Roma: Armando, 1973.

Bion, W. R. (1987), “Turbolenza emotiva”, in Seminari clinici. Brasilia e San Paolo (225-234)Trad. it. Milano: Cortina, 1989.

Bion, W. R. (1992), Cogitations. Pensieri. Trad. it. Roma: Armando, 1996.

Calvino, I. (1972), Le città invisibili. Milano: Mondadori, 1993.

Fédida, P. coll. (2007), Umano/Disumano. Trad. it. Roma: Borla, 2009.

Ferruta, A. (2020), Coronavirus: una Sfinge del nostro tempo. Website del Centro Milanese di Psicoanalisi. https://www.cmp-spiweb.it/coronavirus-una-sfinge-del-nostro-tempo.

Freud, S. (1915a), Considerazioni attuali sulla guerra e la morte.  OSF, vol. 8.

Freud, Sigmund (1915b), Caducità. OSF, vol. 8.

Galiani, Riccardo (2009), “Introduzione all’edizione italiana”, in Fédida, (pp. 5-24), op. cit.

Grinberg, L. e Grinberg, R. (1975), Identità e cambiamento. Trad. it. Roma: Armando, 1976.

Horovitz, M. (2007), “Transfert et vérité » in F. Guignard e Th. Bokanowski, (a cura di), Actualité de la pensée de Bion (pp. 44-51). Parigi: Editions in Press.

Kaës, R. (2013), “Malessere sociale e malessere individuale: alleati o nemici?”, Relazione presentata al Seminario AFPP CSMH – AMHPPIA SIPP SPI “Malessere sociale e malessere individuale: alleati o nemici?”, Centro Psicoanalitico Firenze, 13 aprile. https://www.spi-firenze.it/category/eventi/archivio-relazioni.

Press, J. (2019), “Psychanalyse et crise environnementale”, in L. Magnenat,  (a cura di), La crise environnementale sur le divan (pp. 261-270) . Parigi: In Press.

 

Nota

[1] Not everything that counts can be counted, and not everything that can be counted counts. La citazione appare per la prima volta nel testo di William Bruce Cameron del 1963, Informal Sociology: A Casual Introduction to Sociological Thinking (New York: Random House). Einstein avrebbe scritto tale citazione sulla lavagna del suo ufficio all’Institute for Advanced Studies di Princeton, New Jersey, USA.

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