Cultura e Società

La psicoanalisi e l’immagine

19/09/12

ALCUNE  NOTE SULL’IMMAGINE

“Un giovane archeologo, Norbert Hanold, ha scoperto in un museo di Roma un bassorilievo; ne è stato attratto in modo tanto piacevole che è stato assai lieto di poterne ottenere un perfetto calco in gesso, da appendere nel suo studio in una città universitaria tedesca, così da poterlo studiare accuratamente. L’immagine riproduce, nell’atto di camminare, una giovane ragazza, la quale solleva un po’ la ricca veste, così da lasciare scoperti i piedi nei sandali. Un piede poggia completamente sul terreno, l’altro retrostante è sollevato e tocca il terreno solo con le punte delle dita, mentre la pianta e il calcagno si alzano quasi perpendicolarmente.(…)Il dottor Hanold, docente di archeologia, non aveva propriamente trovato nel bassorilievo, nulla di notevole per la sua scienza(…)il fatto è che egli era stato attratto da qualche cosa(…).Egli vi trova un che di “moderno”, come se l’artista avesse per la strada ritratto l’immagine “dal vero”. Attribuisce alla ragazza raffigurata nell’atto di camminare un nome: Gradiva, l’avanzante.”(Delirio e Sogni nella Gradiva di W.Jensen – S.Freud).

 

L’interesse per l’immagine della fanciulla del bassorilievo che, pure, non aveva nulla di notevole per la sua scienza  ma galvanizzava a tal punto il giovane archeologo tanto da volerne un perfetto calco per il suo studio è da ricondurre al fatto che egli era stato attratto da qualche cosa.
Ma da che cosa? 
Aiutata dal commento di Musatti alla Gradiva di Freud, provo a spiegarmi. 
“E’ assai comprensibile che nell’inconscio di Hanold il modo di camminare della fanciulla rappresentata nel bassorilievo, così simile al modo di camminare della compagna di giochi infantili, abbia consentito un’identificazione della prima con la seconda”.
L’immagine assume tale pregnanza identificatoria in base al “ritorno del rimosso”, rimosso “avanzante”, potremo dire, quale il nome dato, non a caso, alla Gradiva (“Gradiva, l’avanzante”).
Nell’immagine avanza un significato proveniente dal rimosso.In questo senso l’immagine più che una gestalt è un ritrovamento, come per il giovane Hanold. 
Attraverso l’immagine, l’individuo  fa un incontro con ciò che stà cercando di sé, senza sapere  di cercarlo; “contro ogni attesa e ogni sua intenzione”(Gradiva – W.Jensen). 

“La psicoanalisi ripristina l’importanza del visivo, della rappresentazione per immagini come prima forma di rappresentazione”(Ferruta.2005)
Direi che l’immagine è rappresentazione in assenza di rappresentabilità.
L’immagine  svela, è l’incontro con la storia del Sé ; si può dire che è lo specchio del  destino del rapporto con l’oggetto. Essa acquista un’ esuberanza evocativa nelle immagini filmiche, pittoriche, fotografiche, laddove la persona può riconoscere qualcosa di sé che la istituisce essenzialmente. 
Tanto più lambiamo aree  inconsce, quanto più questo qualcosa può trovare difficoltà ad essere rappresentato mentre, attraverso un’immagine, può, a volte, stagliarsi, diventare visibile. 

Il valore dell’immagine può essere indipendente dall’oggetto che raffigura, anzi possiamo dire che non è tanto l’oggetto in sè ma l’intensità ritrovata che ruota intorno all’oggetto, che lo illumina  e  dà all’immagine valore catartico e rappresentativo. 
Possono esserci immagini ben fatte che restano irrilevanti e altre più comuni, che colpiscono. 
Qui si inserisce, altresì, il collegamento tra le immagini e il “ricordo di copertura” laddove l’immagine  veicola l’intensità dell’esperienza emozionale e, in tal modo, viene caricata, investita, di un affetto che altrimenti resterebbe in ombra, inespresso. 
Parafrasando P.Magistretti e F.Ansermet l’immagine è “la rappresentazione dell’emersione dell’eccesso”(Gli enigmi del piacere. Boringhieri.2012) inteso come qualcosa che la psiche non è riuscita ad assorbire.
 Penso ad una dimensione interna che difficilmente si riconosca in una rappresentazione reale, esterna e non soltanto per infrazione traumatica bensì per intensità dell’esperienza, e spessore, volume, luminosità ed estensione. L’irrappresentabile può non essere necessariamente ascritto  a esperienze grezze o traumatiche; possiamo pensare, piuttosto, ad esperienze (come l’orgasmo, ad es, come fai a rappresentarlo?) di un’estensione emozionale, che raccolga aspetti sensoriali,  percettivi e propriocettivi totalizzanti, simile a quella che si può sperimentare da neonati.Seguendo tale linea tenterò di abbozzare una scheda e, confortata dalle parole di Merleau-Ponty, consapevole della vastità del tema, chiedo scusa per l’ignoranza e tolleranza per  l’inevitabile incompiutezza. 
Non si può fare un inventario limitativo del visibile, così come non si possono catalogare gli usi possibili di una lingua”(L’occhio e lo spirito.SE,1989). 

Indice:

Ancora FREUD
MARION MILNER
PAOLO PERROTTI
ANTONIO ALBERTO SEMI
GIOVANNA GORETTI
ANTONELLO CORREALE
FERNANDO RIOLO
LUCA TRABUCCO
CESAR e SARA BOTELLA
ANTONINO FERRO
ANNA FERRUTA
FAUSTO PETRELLA
DOMENICO CHIANESE-ANDREINA FONTANA
ANTONIO DI BENEDETTO
MARCO LA SCALA
PAOLA GOLINELLI
W.BION
ROBERTO BASILE
LEONARDO ALBRIGO

CONCLUSIONI e BIBLIOGRAFIA

Ancora FREUD
 Ne “Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci”(Opere. vol.VI) Freud propone una lettura delle Opere di Leonardo che avvalora l’aspetto evocativo dell’immagine. 
La sua analisi critica, partendo dal ritratto della Gioconda, si dispiega per il quadro di “S.Anna, la Vergine e il Bambino” e le successive Opere che ritraggono S.Giovanni, Bacco, Leda in una visione interpretativa che muove  dall’analisi del significato dell’immagine. 
Freud si sofferma sul particolare del sorriso, il famoso sorriso leonardesco.
Il sorriso enigmatico della Monna Lisa gli fa ritenere che l’immagine del quadro non ritragga (solo) la nobildonna fiorentina quanto il sorriso della madre di Leonardo quando lui era bambino.
“Noi cominciamo a intravedere la possibilità che sua madre avesse posseduto quel misterioso sorriso, che egli aveva perduto e che tanto lo avvinse quando lo ritrovò nella donna fiorentina”.
Il sorriso leonardesco, lo ritroveremo  d’ora in avanti, in tutte le  Opere di Leonardo:
“Questo ricordo era abbastanza importante da non lasciarlo più, una volta ridestato; egli fu costretto a dargli sempre nuove espressioni”.
Nel quadro di S.Anna , la Vergine e il Bambino le donne vengono ritratte col medesimo sorriso (materno) e tutto il quadro sembra, per Freud rappresentare addirittura la storia dell’infanzia di Leonardo laddove, S.Anna e Maria, rappresenterebbero le due madri dell’Artista (Caterina, la madre e Donna Albiera, la matrigna). L’immagine della gestualità e della postura delle due donne sembrano raffigurare, per Freud, la fusione delle due madri dando l’impressione ottica di confluire in un’unica figura. “Le due teste sembrano sbocciare da un unico tronco” in un’immagine davvero evocativa della divisa condizione infantile di Leonardo.
Il sorriso leonardesco si riproduce e si rinnova ancora nelle immagini di S.Giovanni e Bacco che posseggono lo stesso sorriso sulle labbra ma che non sembra conferire loro, stavolta, l’aspetto enigmatico della Monna Lisa piuttosto “guardano in modo misteriosamente trionfante quasi sapessero di una grande felicità vittoriosa della quale è obbligo tacere. Il familiare sorriso ammaliatore fa sospettare un segreto d’amore (omosessuale) . Forse Leonardo ha superato con la forza dell’arte l’infelicità della sua vita amorosa, creando queste figure in cui la beata fusione della natura maschile con quella femminile, rappresenta l’appagamento dei desideri del fanciullo infatuato della propria madre”.
Le Opere di Leonardo, realizzate in una successione temporale  sembrano rispettare e ricalcare  l’evoluzione emozionale dell’Artista.
Dall’immagine della Gioconda fino a quella del S.Giovanni si  può avere la “visione” delle diverse epoche della vita di Leonardo e l’evoluzione del suo processo psicologico.

MARION MILNER

Per Marion Milner le immagini “(…)sono il solo mezzo con il quale il bambino può rappresentare a se stesso i processi psichici che hanno luogo dentro di lui” ; le definisce “vere per lui dentro“.   Anche Freud aveva detto che “l’artista crea una nuova specie di cose vere”.
La visione dell’arte della Milner implica la considerazione della capacità di contatto con aree inconsce :”Potremmo dire che essa (l’arte) dipende dalla capacità della mente conscia di fare l’esperienza di collaborare con gli abissi inconsci“.
Citando Ernest Kris afferma che “Un abbozzo incompiuto di Michelangelo fosse migliore dell’opera compiuta, essendo più vicina al momento in cui è stata concepita” e che “l’opera d’arte viene considerata proiezione di un’immagine interiore“.(La follia rimossa delle persone sane.1987,Borla)

PAOLO PERROTTI

“La porta di Duchamp” è uno dei tanti scritti di Perrotti in cui, leggendo, ci si sente consolati e in cui l’Autore affronta la correlazione tra immagine e rappresentazione di uno stato emotivo o di una condizione inconscia; nel caso della Porta, si tratta del Conflitto; conflitto che prescinde dalla psicopatologia ed è inteso come forma di compromesso per vivere la vita.
 “L’ambigua opera dell’artista che “nel buio” ha creato intense e strane luci ci ha toccato in profondità lasciandoci in una situazione in cui l’elemento drammatico della nostra vita psichica veniva come a ridestarsi e a liberarsi dai suoi “normali contenitori”.
L’interesse per questa immagine lo spinge ad occuparsene per comprendere  qual è l’emozione che procura  l’immagine nel fruitore.
L’immagine della porta di Duchamp  (“una Porta, tre ambienti di cui due oscuri”) esprime per Perrotti “una costruzione simbolica di situazioni inconciliabili, profonde. Così inconciliabili che è impossibile l’armonica composizione delle parti ed è possibile solo il compromesso(…)La Porta è la nevrosi, è il conflitto, è il compromesso psichico”.(Quadrangolo.1975. N.2)
L’immagine della  Porta è intesa come la rappresentazione del conflitto e, di più,  di “come si risolverà il conflitto e soprattutto se si risolverà”.
Perrotti spiega il senso dell’immagine con queste parole :
Se un terremoto dal profondo ci sconvolge, allora, solamente allora, la Porta che è la risultante delle tensioni profonde, batte rumorosamente di qua e di là, cozzando violentemente contro cornici che sono troppo piccole e non la contengono più. E’ questo il momento delle nostre ansie profonde, dei nostri momenti psicotici, delle nostre gelosie furibonde. Poi, a poco a poco, il movimento si fa meno violento e la Porta torna ad immobilizzarsi in una posizione che rappresenta il primitivo o un diverso equilibrio psichico. Compromesso che, qualunque esso sia, è l’unica possibilità di vivere la vita. E la Porta rimane fissa, silenziosa, illuminata, circondata da ambienti oscuri”.

ANTONIO ALBERTO SEMI

Come Perrotti con la Porta, anche Semi col Tondo di Botticelli, è spinto ad occuparsi dell’Opera, dall’impatto che l’immagine ha avuto su di lui:
“L’Opera (il Tondo) ha un contenuto enigmatico. Per qualche tempo dopo la mia visita al museo, essa mi tornava in mente per un qualcosa di indefinibile, che contrastava con la perfezione formale dell’insieme, come se non riuscissi a mettere a fuoco l’oggetto del quadro ed avessi l’impressione che l’argomento vero e proprio fosse un altro, non quello palese dell’adorazione dei Magi”.(La lente spezzata: il Tondo dell’Adorazione dei Magi di Sandro Botticelli – Riv.di Psicoanalisi,1997;XIII;3)
Semi propone una lettura del Tondo partendo dall’emozione che aveva provocato in lui l’immagine e che rimanda al giovane Hanold attratto, anch’esso, da un qualcosa di indefinibile.
L’Autore pondera la presenza di due ottiche che sussistono contemporaneamente “dandoci sempre un po’ l’impressione che (l’opera) – pur così completa com’è – non possa essere letta in modo soddisfacente”. Questa attenzione rimanda alla dotazione di uno sguardo allargato, o più approfondito, con il quale è possibile contemplare diversi vertici conoscitivi: “E’ dunque alla tollerabilità di un doppio sistema di pensiero che questo quadro invita a riflettere, ed alla drammatica spaccatura, alla tollerabilità di una scissione che l’individuo ha dovuto tollerare quando, all’epoca del Rinascimento, tutto un sistema di riferimenti simbolici condivisi veniva rimesso in discussione”.
La presenza dei numerosi simboli nella raffigurazione introducono il problema della “trasmissione dei simboli”, trasmissione che avviene, secondo l’Autore, “non solo tra persone diverse ma soprattutto tra generazioni diverse” e che sembra essere un’ulteriore funzione, quella transgenerazionale, inerente l’immagine.
Si può dire che Semi, come il pittore che “da un insieme di parole ricrea un’immagine”, nella descrizione del Tondo, dall’immagine risale a delle significazioni insite e nascoste nell’immagine stessa; come se l’immagine, che vide vent’anni prima, gli avesse parlato, si fosse svelata nel significato meno accessibile alla coscienza, attraverso il simbolismo. 

GIOVANNA GORETTI

Nel 1997 Giovanna Goretti scrive un articolo pubblicato nella Rivista di Psicoanalisi dal titolo “L’incendio della Fenice e le difese collettive”.
L’articolo, di rara eleganza,  centra il tema della destabilizzazione dell’identità collettiva quando subentra la distruzione di oggetti culturali come nel caso dell’incendio che distrusse la Fenice a Venezia.
L’immagine danneggiata viene spesso ricostruita “com’era e dov’era”. Questa modalità, per l’Autrice, sottende meccanismi della mente onnipotenti e denegativi, che scattano per difendersi dalla perdita vissuta come perdita oggettuale: “Tale modalità estrema di gestione del dolore, quando viene assunta dalla comunità, può acquistare un carattere di sostanziale immodificabilità: quando, come si verifica nei processi ricostruttivi, la collettività che “sposa” il diniego, lo “fissa” nella pietra”.
Di contro ribadisce l’importanza, attraverso l’immagine, del riconoscimento della rottura simbolicamente intesa: “Il progetto ha curato infatti che fosse assicurata la visibilità del punto di giunzione tra ciò che apparteneva al vecchio e la nuova costruzione: una specie di ferita mantenuta simbolicamente e incruentemente aperta, perchè gli eventi non vengano cancellati e il tempo della Storia venga rispettato”.
L’immagine ripristinata “com’era” diviene “copia”, “ignorando il valore delle categorie del vero e del falso” e, mentre lenisce il dolore della perdita, determina inconsapevolmente “un lutto sospeso o un lutto impossibile”.
La disamina della Goretti, un vero gioiello,  appare quanto mai attuale poiché riconduce dolorosamente ai recenti “danneggiamenti” causati dai terremoti dell’Aquila e dell’Emilia.
Immagini di distruzione o immagini di luoghi distrutti che attaccano la continuità del Sé di ognuno che ne è fruitore e lo impegnano nell’elaborazione di un lutto veramente difficile che, per essere fruibile deve elevarsi dall’assetto consolatorio.

ANTONELLO CORREALE

 
Nell’articolo “Il consiglio di amministrazione e la lucertola” presentato al XV Congresso Nazionale di Taormina (2010), Correale trattando il tema dell’Istituzione evoca la condizione totemica che insiste pesantemente sul destino istituzionale e  riprende Warburg a proposito di immagini intese come “accumulatori di energia”, contrapposte al totem freudiano; tali immagini “veicolano tutto un modo di sentire, di pensare, di vivere che passa da padre a figlio, in un’ottica generazionale, come un’eredità culturale”.

In questa direzione Correale introduce un interessante contributo circa l’immagine intesa come après-coup.
L’après-coup è il reincontro, il nuovo incontro con una scena già incontrata, che conferisce alla scena antica un valore nuovo, una nuova significazione”.(cfr il ritrovamento del sorriso della madre in Leonardo).
Citando una poesia di Wordsworth, parla di uno scricciolo che canta in una cattedrale diroccata suscitando una commozione che nasce dal fatto che il canto vivo dello scricciolo fa cogliere un aspetto vivo della cattedrale (“ormai passata per sempre”).
“C’è nell’après-coup qualcosa di imprevisto: qualcosa di attuale incontra qualcosa di antico e lo fa rivivere in forma nuova. E’ dall’incontro di due concretezze che può nascere una piccola o grande scoperta”.
La disamina di Correale gode di un modernismo che  caratterizza, peraltro, i suoi scritti e che apre a possibili e auspicabili cambiamenti nel tessuto  istituzionale attraverso il riconoscimento dell’incontro del “vecchio” con il “nuovo”, realizzando una proficua contaminazione.
Esemplare  a questo proposito è il caso clinico proposto a tergo dell’articolo. Racconta di un paziente coinvolto in una pesantissima riunione di un consiglio d’amministrazione che ammorbava il suo pensare, quando:
“A un certo punto succede qualcosa. Una lucertola camminò sul vetro della finestra e guardò dentro come chiedendo di entrare e poi scappò via. L’immagine lo rallegrò e pochi minuti dopo riuscì a fare un intervento in cui poteva dire quello che pensava e scrollarsi di dosso la passività”. L’immagine viva della lucertola è un richiamo per la sensorialità e per la memoria.
Le immagini vive, come gli “accumulatori d’energia”, contrapponendosi all’immagine totemica possono riconvertire le consuetudini culturali  “ormai passate per sempre”(come la cattedrale di Wordsworth) in cui i “simboli siano trasmissibili in modo aperto e non come forme chiuse”, a vantaggio di un “lutto produttivo”. Come la lucertola.

 FERNANDO RIOLO 

Al IV Congresso Nazionale della Società Psicoanalitica tenutosi a Taormina nel 1980, Riolo presenta un lavoro intitolato “Sulla fantasia”. Il lavoro si distingue oltre che per la sua complessità per la fluidità e l’originalità del pensiero.
Affrontando il tema della fantasia Riolo contempla l’uso dell’immagine: “La fantasia è una modalità di pensiero che si serve prevalentemente di elementi visivi. Le immagini sono prodotte dal pensiero stesso a partire da frammenti isolati della realtà presente o passata e organizzate in “scene” complessive provviste di senso.”
Per  Freud, spiega l’Autore, la creazione artistica è una condizione  per la quale l’artista si distacca dalla realtà e crea, attraverso la fantasia, “una nuova specie di cose vere”.  E’ nella fantasia che si  possono realizzare i  desideri.  La mente dell’analista, per Riolo, deve funzionare come “uno specchio che ri-flette le immagini (del paziente) su di esso proiettate e, nel “rifletterle”, le trasforma in pensiero cosciente. La possibilità stessa dell’analisi si fonda sull’idea che le fantasie dell’analista contengono e riflettono gli oggetti dell’analizzando”
Riolo sottolinea  quindi il rapporto tra oggetti e immagini (reali e virtuali) e come tale rapporto componga la relazione analitica.
La fantasia, che etimologicamente significa al contempo “apparire” e “mostrare”, come il gioco, la creazione artistica, la poesia e l’umorismo, crea “una preziosa immagine riflessa del mondo interno. Questo diviene ‘rappresentabile’ per la coscienza e capace di assumere ‘un nuovo assetto’”(Riv di Psicoanalisi. N°3.1980)

LUCA TRABUCCO

Vi sono immagini che provocano nel fruitore una sensazione di malessere e che rimandano alla tematica del doppio e del perturbante che si verifica in relazione a un “ fatto scelto” inteso come “una specifica caratteristica o qualità dell’opera che in quella persona e in quel particolare momento diventa un potente catalizzatore mentale”.
 Ne parla Luca Trabucco nell’articolo “Psicoanalisi e Arte” apparso nella Rivista di Psicoanalisi, in cui commenta l’opera di G. Magherini, ”Mi sono innamorato di una statua. Oltre la sindrome di Stendhal”(2007).
L’immagine è, in questo caso, riferita, più specificatamente, all’opera d’arte e si  sottolinea come il contatto con l’immagine artistica “può produrre l’emergere di esperienze fino a quel momento non tradotte in simboli, non rappresentate, non pensabili, ma fortemente attive e significative.” Questa esperienza può provocare nel fruitore diverse manifestazioni che vanno dall’attacco di panico alla reazione depressiva fino a quella maniacale, eccitatoria.
Accanto a questa componente ne esiste un’altra contrapposta che vede l’opera d’arte come contenitiva. “(…)nell’illusione estetica si crea una situazione per cui l’oggetto non è né troppo vero (come un’allucinazione) né troppo falso (come in una situazione di distacco emotivo) venendosi così a creare una distanza ottimale che permette di transitare a esperienze emotive altrimenti inavvicinabili”.

CHRISTOPHER BOLLAS propone un ulteriore interessante vertice quando sostiene che una condizione depressiva può cogliere l’individuo quando non sa come usare l’oggetto.
Il soggetto, a livello inconscio, si rende conto che qualsiasi oggetto ha una propria struttura, che ne permette una specifica utilizzazione trasformazionale”. L’oggetto che non si riesce ad usare, deprime, provocando quello che Bollas chiama “avvilimento estetico” ovvero “incapacità di fare uso dell’oggetto(…) L’unica soluzione è allontanarsi dall’oggetto stesso”(Il mondo dell’oggetto evocativo.Astrolabio, Roma 2009).
Bollas  parla di ”oggetto evocativo” ma, per le peculiarità di tale oggetto, non mi sembra azzardato fare un accostamento con l’immagine, “Il termine oggetto evocativo è stato usato in psicologia per indicare la capacità del Sé di evocare la rappresentazione mentale di un oggetto”; e ancora “(…)abbiamo bisogno di oggetti che permettano al nostro Sé di esprimersi”.(Forze del destino.Borla, Roma 1992)

CESAR e SARA BOTELLA

Nel libro “La raffigurabilità psichica”(Borla.2001) i Botella illustrano il loro studio sull’allucinazione non psicotica.
Essi distinguono tra “allucinazione” e “allucinatorio”, il primo è appannaggio della psicopatologia, il secondo è invece fisiologico ed esprime una “capacità regressiva del pensiero”.
Esiste una capacità della mente di regredire durante lo stato di veglia come durante il sogno notturno. In tale regressione si possono verificare  episodi allucinatori (non di allucinazione).
La nostra ipotesi è la seguente: esiste un’attitudine normale dello psichismo all’espressione allucinatoria, quella del sonno della notte, che è stabilmente frenata, di giorno, dalla necessità di mantenere l’esame di realtà. Questa qualità allucinatoria (…)sarebbe(…)una capacità regressiva del pensiero.”
 L’allucinatorio, inteso come capacità regressiva del pensiero, diventa così uno strumento prezioso per l’analista, una lente, una sorta di visione penetrativa, che gli consente di spingersi oltre ciò che è vedibile; attraverso questa capacità l’analista può entrare in contatto con le stratificazioni traumatiche che impediscono la rappresentazione del fatto inconscio e che acquistano “forma” attraverso l’allucinatorio.
La tesi dei Botella rimanda anche al concetto di rèverie, intesa come quella capacità della mente, sia dell’analista che del paziente,  che si verifica sia durante la seduta che aldi fuori della seduta, di produrre immagini che danno informazioni circa i contenuti inconsci del paziente, (e dell’analista) altrimenti inaccessibili. 

ANTONINO FERRO

Centrale nella ricerca di Antonino Ferro è il tema dell’immagine legato alla pensabilità.(1996,2003,2006,2007) 
Egli sottolinea l’importanza del visivo e di come esso sia una modalità di sviluppo del pensiero ritenendo le immagini strettamente legate alla funzione alfa e perciò alla formazione del pensiero. 
Afferma Ferro che esiste un collegamento tra emozioni, anzi proto-emozioni e immagine.
Le protoemozioni generano la formazione di immagini chiamate “pittogrammi emotivi”. I pittogrammi sono in stretto rapporto con la sensorialità dell’individuo.
Ferro ce ne parla, tra l’altro, nel caso di Sara, una giovane paziente affetta da irriducibili crisi di cefalea.
“In seduta Sara fa un primo disegno ove compare il volto di una bambina senza bocca e senza orecchie e un secondo disegno sempre con un volto di bambina con le stesse caratteristiche ma meno stilizzato(…)Nel terzo disegno, sempre con un volto di bambina senza bocca e senza orecchie, compare anche un cuore che pulsa, sembra che qualcosa prenda vita(…). Racconta poi che le dà sollievo spalmare sulla fronte il ‘balsamo di tigre’ e poi disegna dei pezzi che non hanno nessun posto dove stare”(Tecnica e creatività.Cortina.2006)
E’ interessante notare come, man mano che la paziente “sente” l’ascolto dell’analista, il disegno si umanizza, è “meno stilizzato”, e, infine, nel terzo disegno, dopo essere riuscita a parlare dell’unguento di tigre (elemento che rimanda ad emozioni aggressive, rabbiose), compare un “cuore che pulsa” e, finalmente, dei “pezzi che non sanno dove stare”: emozioni in cerca di un posto, che devono essere mentalizzate.

Le protoemozioni che “urgono nella testa di Sara” provocando la cefalea, riescono attraverso l’analisi a trasformarsi in immagini pittografate avviando quello che Bion chiama l’elemento alfa.
Nella seduta si è verificata, attraverso la possibilità per la paziente di “disegnare quello che provava”, la formazione del  pittogramma di una protoemozione ;  (“Il disegno emotivo di ciò che urge come muta sensorialità”). Ferro  racchiude tra parentesi il concetto  per cui la sensorialità, urge, spinge affinchè si possa recuperare una rappresentazione che dia senso a ciò che è imbavagliato, inespresso; ciò può avvenire attraverso il disegno emotivo e rimanda di nuovo alla “Gradiva, avanzante” nell’accezione considerata.

Personalmente mi è capitato, durante una seduta con una paziente di cui tralascerò la storia, di vedere, in maniera persistente, una figura nella trama del tappeto della stanza d’analisi.
Inizialmente pensai si trattasse di un gioco di luce che filtrando  dalla finestra si mescolava con la trama del tappeto. La figura, tutta nera, rappresentava la sagoma di una coppia i cui corpi, vestiti con una lunga tunica informe, erano tanto vicini da sembrare indistinguibili.

Evocativo il movimento della testa della donna che sembrava incunearsi nell’incavo tra il collo e  la spalla dell’uomo traendone forza e, al contempo, indebolendolo, come se immettesse in lui il suo lutto. Un’immagine  drammatica e cupa, di estrema bellezza e significazione, che mi colpì molto. Era talmente nitida che potei disegnarla.
 Le diedi il nome di “La coppia”.
Successivamente, in autoanalisi, compresi che l’immagine poteva intendersi come un pittogramma che, verosimilmente, traduceva emozioni primitive provenienti dalla paziente (la “muta sensorialità”) che colludevano con le mie protoemozioni.
Interpretai (non alla paziente) che si trattava di una rèverie, utilizzando la quale avrei potuto aggiungere ulteriori e più inaccessibili informazioni sullo stato psichico della paziente.

 

 ANNA FERRUTA 

Per arrivare alla pensabilità certe emozioni ricorrono all’iconico come tappa verso la simbolizzazione, che attiva una forma nuova di contenitore-contenuto per padroneggiare un’emozione impensabile, mettendola in figura”.(Ferruta.2005)
Affinchè certe emozioni possano essere pensate – afferma Anna Ferruta – esse ricorrono alla rappresentazione iconica.
La configurazione iconica(…)è utilizzata per rappresentare in immagini un’emozione difficile da pensare, una protoemozione in cerca di rappresentabilità che trova nel visivo un modo per farsi strada nel mondo della mente del soggetto”(Configurazioni iconiche e pensabiità. Riv. di Psicoanalisi.Monografie, Borla,2005)
Dai quadri di P.Klee, che definisce forme generative,  a quelli di Alice, nel racconto della sua analista M.Little, la Ferruta sottolinea  l’importanza di “uno scambio tra binari di pensieri e parole che si appoggiano all’immagine per sviluppare nuovi percorsi”. Si riferisce al momento nascente della pensabilità.
Nei quadri si può apprezzare il “contatto con i moti dell’inconscio”, laddove, l’immagine, dando forma ad elementi destinati a rimanere inespressi, si riveste di una forma di bellezza(Hautmann) determinante dall’aver liberato l’inconscio. Di contro, nelle frammentazioni psicotiche subentra l’impossibilità di “pensare visivamente qualcosa di sconvolgente” che non addiviene pertanto ad alcuna configurazione visiva.
Nel lavoro “Pensare per immagini” l’Autrice sviluppa particolarmente due configurazioni, l’aggrapparsi e l’isolarsi,  intese come “configurazioni mitiche” (Pensare per immagini.Borla.2005), Si tratta di  “rappresentazioni di condizioni emotive critiche a cui si ricorre come prima forma di rappresentazione figurale non ancora pienamente simbolica per evitare la paura del crollo psichico”.

FAUSTO PETRELLA 

Ne “Immagine e conoscenza in psicoanalisi, su una nota epistemologica di Silvana Borutti”(Riv di psicoanalisi.2008.1) Petrella compie un’interessante quanto appassionata disamina sull’immagine.
Egli scrive: “La conoscenza scientifica prende le distanze dall’immagine(…)le immagini – figure come la metafora, il procedimento analogico, la rappresentazione iconica – sono considerate come dati prescientifici da superare ed espungere. Non si dà loro ospitalità nel discorso conoscitivo se non come sorta di stadio infantile della conoscenza, che il saldo sapere deve escludere con un lavoro di normalizzazione e astrazione o limitarsi a considerarlo una sua estensione temporanea e facoltativa.(…)ciò comporta l’esclusione dell’immagine e di tutto ciò che essa può contenere: l’immaginazione, la fugacità, l’improvvisazione”.
Le sue parole sono piuttosto critiche contro una “certa” psicoanalisi che snobba l’interesse per l’immagine e i suoi significati, riscattando un principio di scientificità che può risultare riduzionista se non addirittura usato in senso difensivo.
Dal lavoro clinico trae la convinzione che l’immagine si collega ai sensi, ad una dimensione “estetica”  del pensiero, “intesa come la sensorialità del percepire” e ricorda che “occorre comprendere che con lo psichico ci si muove necessariamente entro paradigmi metaforici e che, tuttavia, ciò non significa arbitrarietà “.
Anche lui è un convinto assertore che alla base del pensiero ci sia l’immagine:
L’inevitabiità dell’immagine: costruiamo immagini, attingiamo a immagini quando pensiamo e attuiamo delle donazioni di senso(…)Le immagini sono rivolte al mondo, parlano del mondo, e insieme siamo noi a produrle”.

DOMENICO CHIANESE-ANDREINA FONTANA

Le figure, le immagini si scompongono, si ricompongono, si dislocano spazialmente, si compenetrano; esse non temono la contraddizione, “spiazzano” il pensiero vigile svelando così gli inganni del logos” (Immaginando.Franco Angeli.2010).
 D.Chianese e A. Fontana nel loro libro “Immaginando” sviluppano in maniera magistrale ciò che è la funzione dell’immagine oltre che dell’immaginazione ed aprono ad una riflessione  più ampia, credibile e attuale.
L’immagine viene definita come “forma determinata dalle forze dell’inconscio”.
Citando Deleuze: ” Il problema di fondo nell’arte è come rendere visibili forze invisibili. In arte, in pittura, in musica si tratta non tanto di riprodurre o di inventare delle forme ma di captare delle forze”. All’immagine, sia pittorica, filmica o fotografica, può ricondursi la’”energia del sensibile, estetica, radicata nell’Es(…)la perenne lotta tra le forze dell’Eros e Thanatos non rendono possibile la riduzione dell’inconscio a linguaggio”.
Ecco che l’immagine viene promossa e intesa non più come “residuo della percezione, allusione alla realtà” ma come “movimento che viene dall’inconscio e affiora alla coscienza e che contribuisce a creare”.
L’Immagine, in antitesi col linguaggio, rappresenta il “contatto con la cosa” di contro “l’acquisizione del linguaggio nasce dalla perdita del contatto con la cosa”.
Questa visione risulta particolarmente significativa poiché eleva l’immagine a “vero” simbolo; cioè, l’immagine rende possibile l’incontro col proto-simbolo; concetto ripreso  a proposito della pittura: “Nella storia della pittura, molti pittori hanno riferito che non erano loro a guardare le cose, ma le cose a guardare loro; quei pittori avevano avvertito che le cose restituivano loro lo sguardo ad esse rivolto”. 
Merlau-Ponty chiama, in maniera illuminata, questa visione “la visione delle origini”.
Sempre a proposito della pittura essi  affermano “qualsiasi pittura non rappresenta il visibile(…) la lingua di un quadro non è la lingua della parola” e, citando W.Benjamin rincarano “la lingua della scultura, della pittura (….) è fondata di lingue innominate, inacustiche”.

ANTONIO DI BENEDETTO


“Narra il mito che Perseo, con i suoi calzari alati, si librò nel cielo e dall’alto, osservando nello specchio fatato, donatogli da Athena, il riflesso della mostruosa Medea, riuscì a decapitarla nel sonno, evitando grazie all’immagine, di rimanere pietrificato dalla visione diretta della Medusa reale”(
L’immagine, il suono, la parola. Psiche,Borla,1993)

Secondo Di Benedetto l’immagine, come nel mito di Perseo, permette all’uomo di accettare una realtà “vera ma non reale”.
Per Di Benedetto l’immagine è uno “schermo(…)affinchè una realtà umana profonda e angosciosa possa essere conosciuta, protetti dal terrore di un incontro ravvicinato(…)L’immagine attenua la paura dell’impatto con una realtà sconosciuta, proponendosi come il riflesso del mai-visto, come messaggera inoffensiva del ‘qualcosa d’altro’. Esorcizzando il terrore del nuovo, ridà vita al pensiero e lo fa volare”.
L’Autore sembra voler sottolineare la difficoltà dell’individuo a tollerare “verità inaccettabili”, consce o inconsce che siano; tuttavia  la  sua  immagine più che uno “schermo” pare essere uno scudo con cui difendersi dall’”inaudito” mentre l’individuo rimane in uno stato  di sospensione e disequilibrio tra il vero e il falso; ci si chiede come il pensiero possa determinarsi (“lo fa volare”) da un processo di esorcizzazione del conflitto.
La tesi di Di Benedetto rimanda tuttavia al perturbante freudiano:” Ci troviamo esposti a un effetto perturbante quando il confine tra fantasia e realtà si fa labile, quando appare realmente ai nostri occhi qualcosa che fino a quel momento avevamo considerato fantastico, quando un simbolo assume pienamente la funzione e il significato di ciò che è simboleggiato”(S.Freud. Opere.Vol.IXBoringhieri).
Lo schermo di Di Benedetto sembra protegga l’individuo dal contatto col perturbante.

MARCO LA SCALA 

Nell’articolo “Immagine dai confini, immagine come confine”(Pensare per immagini.Rivista di Psicoanalisi .Monografia,Borla,2005), l’Autore descrive un particolare carattere dell’immagine, in una prospettiva originale e sofisticata, come forma di “confine”, “pelle psichica”(Guillaumin 2001).
Egli scrive: “L’opera d’arte o qualunque prodotto creativo come atto figurativo ha il potere di suscitare nell’osservatore la tensione dell’artista sospeso nella tensione tra le forze della realtà materiale e del mondo interno, dell’azione e della rappresentazione.”
L’immagine di La Scala rimane sospesa tra l’esterno e l’interno dell’Io assumendo il valore di “formazione limite dell’Io e del non-Io”.
Se l’Io ha bisogno di ripararsi da un eccesso di stimoli è anche vero che segue spinte pulsionali verso il soddisfacimento. La tesi di La Scala rimanda al concetto di perturbante intesa come la necessità di difendersi da un simbolismo insistente che spaventa l’individuo mentre, nel contempo, eccita il ritrovamento di senso attraverso l’immagine, “…per questo – dice la Scala – le immagini possono essere considerate come tasselli costituitivi dello stesso Io, nella sua funzione di entità di superficie e di contenitore psichico”.

PAOLA GOLINELLI

Nel suo contributo “Per una lettura psicoanalitica dei film”(Riv. di Psicoanalisi n 2.2004) Paola Golinelli approfondisce  vertici di comprensione relativamente all’immagine filmica.
In particolare mette in evidenza la potenza dell’immagine cinematografica sottolineandone la sua funzione catartica. Il film “Titanic”, per esempio, è rivelatore di come le immagini filmiche “acquistino valore di mito universale che si rinnova sulla schermo. Nel film in questione il mito è la fondazione della coppia e dell’amore come forza dirompente,”catastrofica” rispetto al contesto sociale”.
L’immagine filmica può rimettere in moto un processo rappresentativo inibito o non analizzato “ri-presentificando aspetti altrimenti destinati a rimanere inesplorati”.
Golinelli definisce l’immagine filmica come un “allettamento visivo” in quanto ha la funzione di “sostituirsi alla realtà concreta, rendendo sempre più sfumati i contorni territoriali dell’Io”.
Questo concetto si ricollega a quello espresso da A.Di Benedetto e del mito di Perseo: “Si crea – dice L’Autrice – attraverso la proiezione sullo schermo, un movimento di sospensione che favorisce un appoggio alla psiche” e avvalora la contestualizzazione dell’immagine entro lo spettro del perturbante.

 

W.BION 

Sintetizzando il pensiero di Bion a proposito dell’elaborato artistico, prendo in prestito le parole di Di Benedetto: “L’arte preparerebbe alcune pre-concezioni che la psicoanalisi provvederebbe a sviluppare in concetti”(Di Benedetto).
Mi chiedo se le preconcezioni innate di Bion, possono comparire, essere presenti, in talune immagini. L’immagine, come un chiasma, può riflettere le preconcezioni bioniane?
Un’ipotesi audace è che l’immagine, allo stesso modo della “mente pensante” che dà agio agli elementi beta di poter essere pensati, sia dotata di capacità alfa. La visione di un’immagine (piuttosto che un’altra) può dare al fruitore la possibilità di appropriarsi emotivamente, a livello sensoriale più che razionale, di significazioni antecedenti l’esperienza conscia e inconscia del soggetto, che anticipano l’esperienza e che altrimenti resterebbero astoriche e prive d’espressione.
Questo sembra particolarmente vero nel caso dell’immagine fotografica, laddove il soggetto viene colto, come di sorpresa, da un’inquadratura, da un cono di luce o di ombra, da un senso del bizzarro o del tragico, da uno stato di “nullità insensata”(J.Grotstein), o di “numinosità” (Bion). C’è da chiedersi se in quello “scatto” non  sia racchiusa la visione di elementi beta che,  nella cornice della messa-a-fuoco, come nella mente-contenitore, acquistino senso così come avviene per “i pensieri in cerca di un pensatore”.
Alcune immagini fotografiche, infatti, colpiscono per l’aspetto comunicativo che insiste sul registro di una significazione appartenente a cose inconsce, più che all’oggetto in sé e per sé;  in quell’immagine, e solo in quella, sorprende la pregnanza dei significati, involontariamente racchiusi nello scatto. 

 

  Inevidenza

 

ROBERTO BASILE

 

Lo sa bene Robero Basile, psicoanalista  e fotografo, così come si definisce.

Basile ha realizzato diverse mostre fotografiche e ricevuto diversi premi e menzioni.

Ho l’opportunità di realizzare con lui un’intervista di cui riporto una breve sintesi.

La fotografia è, per lui, una passione che nasce da bambino; la macchina fotografica era il suo giocattolo preferito, gli piaceva averla tra le mani e si divertiva a scattare foto anche senza la pellicola dentro la macchina. Successivamente, in un processo a scalini, dal gioco infantile ai viaggi dell’adolescenza  coi compagni, la fotografia assume un posto rilevante e definitivo.

La sua “prima foto” ritrarrà, per l’appunto, il suo gruppo d’amici di spalle, durante una gita, mentre camminano lungo una stradina di Romanengo, la “seconda foto” ritrae una magnifica immagine dal Beaubourg, a Parigi.

Quando gli domando che cos’è per lui la fotografia  mi risponde: “La fotografia è un modo per giocare con le mie immagini interne con molta libertà e ritrovarle nel mondo esterno, è un modo di dar retta al sentire”. L’anello tra fotografia e psicoanalisi è il senso di libertà che Roberto Basile ne ricava dal contatto con entrambe. Della psicoanalisi dice: “La psicoanalisi è stata un’esperienza di libertà che mi ha aiutato a fare molte foto e mi ha permesso di fare istantanee emotive in seduta”.

Nella mostra intitolata “Il viaggiatore incantato” (2010), il sottotitolo recita: “nelle immagini vedi anche quello che non c’è”.  La didascalia si connette magistralmente con la definizione dell’Invisibile data da Merlau-Ponty : “L’Invisibile è ciò che non è attualmente visibile ma potrebbe esserlo (aspetti nascosti o inattuali della cosa, – cose nascoste, situate ‘ altrove’ – ‘Qui’ e ‘altrove’)”.

Effettivamente gli scatti di Basile si possono definire “scatti d’arte” laddove, come abbiamo detto, l’arte è  “visione”; l’analista, come il “visionario”, l’artista, gode della capacità di rappresentare ciò che  “è”, e ciò che è “altrove” mentre è “qui”.

Colpiscono delle sue foto le inquadrature (foto n° 21 in “Vuoti a rendere”) che iscrivono le immagini in un rapporto particolare e intenso con la realtà; a volte sottolineando la presenza di una dimensione dell’  immagine iper-reale, altre volte, di contro, illustrano un  contatto con l’irreale, o meglio, l’ immagine  sembra porsi oltre “questa” realtà.

 Nelle sue foto vediamo luoghi, volti, angolature, vediamo anche sentimenti ed emozioni, vicinanze, lontananze; dettagli, numerosi, come frammenti,  sembrano esprimere, a volte, uno scivolamento verso una condizione di frammentazione interiore.  Alcune delle sue immagini poi, provocano un sentimento di estraneità, di stupefacenza, che richiama la condizione di derealizzazione (foto n°2 in “Speculum indicum”, foto n°38 in “Documenting Documenta”)

Sembrano  un perfetto commento le parole di Merlau-Ponty quando dice: “(…)noi vediamo le cose stesse, nel loro luogo, là dove esse sono, secondo il loro essere che è ben di più che il loro essere -percepito, e al tempo stesso ne siamo allontanati da tutto lo spessore dello sguardo e del corpo: il fatto è che questa distanza non è il contrario di questa prossimità, ma concorda profondamente con essa” (Il visibile e l’invisibile.Bompiani.1969). 

LEONARDO ALBRIGO 

Albrigo ha realizzato un interessante video dal titolo “La scatola nera dell’analista: un’immagine”.
Nel video sono raccolti i disegni fatti durante le sedute psicoanalitiche coi pazienti ed è venuta fuori una significativa produzione di immagini che merita studio e riflessioni.
Sarebbe tuttavia riduttivo parlare di sequenza di immagini nel lavoro di Albrigo.
Si susseguono Segni che sono, in vero, Tracce. Presenze, traduzioni  che ci fanno  domandare che cosa l’analista abbia incontrato  durante la seduta col paziente, a che cosa è stato esposto?
Colpisce la presenza, pressoché costante, di reticoli più o meno fitti che si estendono componendo, flessibilmente, figure dotate di un incomprensibile senso prospettico che non è il nostro, il solito, l’usuale ma che, pure, ci sorprende  nell’incerto riconoscimento di un’inquietitudine  vagamente esperita, chissà in quale tempo e in quale luogo o in un luogo senza né tempo e né spazio.
Ricordando ancora la Milner che cita Ehrenzweig, esiste “un senso inconscio della forma che si può raggiungere soltanto con uno sguardo ampio e diffuso e non con il fuoco circoscritto dell’attenzione ordinaria. E’ quest’ampiezza del fuoco che rende possibile avvicinarsi ad una visione più primitiva del mondo(…) che può sembrare confusa e caotica(…) ma è soltanto più generalizzata”.(1987)
C’è nelle immagini di Albrigo una prospettiva  che  sembra esprimere in maniera paradigmatica la condizione agglutinata di certe condizioni psichiche inconsce,  “idee originate negli strati più profondi della mente che tendono ad essere inarticolate, caotiche e difficili da afferrare”(M.Milner).
L’irrealtà di certe immagini le rende quanto mai “vere”.
Parafrasando F. Siracusano, le immagini di Albrigo appaiono “mostruose e meravigliose al tempo stesso” poiché si propongono come  traduzione dell’irrappresentabile o di ciò che è in cerca di raffigurabilità.

 

CONCLUSIONI.

Come abbiamo visto in questa  incompleta carrellata, l’immagine  risulta avere diverse contestualizzazione ma tutte inscrivono il senso dell’immagine nell’essere in contatto col rimosso, con quel qualcosa di indefinibile che è in cerca di rappresentabilità.
Ma, proprio per questo, si verifica che, contemporaneamente alla possibilità di fruire attraverso l’immagine di un contenuto inconscio, di ritrovarlo e recuperarlo, esista anche la possibilità, spaventosa, che l’immagine, per la sua eccessiva  vicinanza alla simbolizzazione , risulti per il fruitore perturbante.
Questa evenienza introduce il concetto dell’uso dell’oggetto.
Come dice Bollas, esiste una condizione psichica, penosa, che subentra quando l’individuo non riesce ad usare l’oggetto. Penso all’horror vacui, condizione interna in cui sembra non potersi aggrappare ad alcun oggetto e che procura la sensazione di esclusione da ogni relazione oggettuale.
Sappiamo, peraltro, quanto sia funzionale per il soggetto riuscire ad usare l’oggetto, in senso winnicottiano, e per l’oggetto riuscire a farsi usare (diverso dal farsi utilizzare). (Winnicott. Esplorazioni Psicoanalitiche. Raffaello Cortina.1995).
Riolo  propone ancora  un altro vertice quando afferma  che, “la possibilità di esistere in uno stato menatale “senza oggetti” è la pre-condizione indispensabile, benchè transitoria e rapida, per la nascita di una fantasia” (“Sulla fantasia”.Riv.di Psicoanalisi.n 3.1980).
Non trascurabile è il movimento dell’immagine.
Guardando un’immagine in movimento, come dai finestrini di un treno, appare qualcosa dell’immagine che non è l’immagine.
Se per caso, in quella condizione, ci venisse in mente di  scattare delle fotografie potremmo vedere altre immagini dell’immagine, immagini che non rassomigliano all’originale o a ciò che era all’origine; un processo simile ad una trasfigurazione che contiene, piuttosto, la complessità dell’immagine, altrimenti invisibile.
Che cosa  è che stà apparendo? Cosa racchiude o include il movimento?
La visione del movimento pare restituire ulteriori informazioni raccolte sensorialmente relativamente ad altre configurazioni insite nell’immagine; il movimento mostra visioni dell’ immagine oltre quelle che sono visibili  (da ferma).
Nella visione del movimento sembra che l’immagine sfugga solo perché  non si riesce a definirla, più verosimilmente il movimento trascina fuori dall’immagine tutto l’invisibile. Segmenti che si rincorrono velocemente, inducono nella mente una sensazione vertiginosa per la difficoltà di organizzare la molteplicità sensoriale; in questa condizione, tuttavia, si potrebbe godere di ulteriori e molteplici visioni che insistono sulla capacità della mente di estendersi e misurarsi con l’inimmaginabile, l’incorporeo, l’informe.
Così come nell’ombra, nel movimento, si possono trovare configurazioni dell’oggetto altrimenti introvabili a riprova della complessità della natura e della composizione dell’oggetto stesso, fino alla “non forma”(Ferruta.2005).
Mi avvalgo ancora delle parole di Merlau-Ponty, stavolta per accompagnare le conclusioni.
La visione è sospesa al movimento. Che cosa sarebbe la visione senza il movimento degli occhi e come potrebbe questo movimento non confondere le cose, se fosse lui stesso riflesso o cieco, se non avesse la sua chiaroveggenza, se la visione non fosse già prefigurata in lui?(…)Il movimento è il proseguimento naturale e la maturazione di una visione”(L’occhio e lo spirito.SE,1989)
Senza rischiare di essere ridondanti possiamo dire che l’immagine contenga “il significato” e che esso appaia nel perturbante, nella rèverie, nell’estetica, nell’après-coup, nella fantasia, nel movimento.
Ciò che inquieta ed entusiasma allo stesso tempo è la constatazione che esista un “sommerso” da cui siamo molto lontani  proprio perché ci riguarda molto da vicino; come se avessimo voluto o dovuto dimenticare ciò che ci istituisce,  nella follia, nel dolore, nell’espansione del piacere, legandolo con un senso di estraneità e che, alla fine, questo, è per l’individuo la spinta verso la continua ricerca di sé.  

 

BIBLIOGRAFIA 

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Settembre 2012
Donatella Lisciotto

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