Cultura e Società

Quale etica ai tempi del Covid 19? I. Ruggiero

6/04/20

La pandemia che ci ha improvvisamente colpiti ha indotto tutti noi a trovare delle risposte, inevitabilmente soggettive, alla questione di come conciliare la fedeltà al metodo analitico con l’attenzione ai bisogni dei pazienti e alla continuità della cura, minacciata da un potente fattore esterno. Questa situazione pone, a mio parere, complesse questioni etiche, e attiva interrogativi e dubbi all’interno di ognuno di noi, prima ancora di manifestarsi in posizioni differenziate, e talora conflittuali, all’interno di un dibattito più allargato. Ai due estremi si collocano coloro che ritengono inevitabili i nuovi assetti telematici, in quanto imposti dalla interdizione di fare visite sanitarie che non rispondano a situazioni di urgenza, e coloro che li ritengono invece inaccettabili e pensano che la cura dovrebbe essere comunque attuata in presenza o che dovrebbe essere sospesa fino a quando non siano ritirate le attuali restrizioni.

Questa situazione solleva a mio parere interrogativi etici imprescindibili.

Etica psicoanalitica

Il tema della dimensione etica in psicoanalisi è complesso e può essere affrontato da molteplici punti di vista differenti, ma ha certamente una stretta connessione con il setting, che ne costituisce una delle sue componenti fondative, anche se, ovviamente, non l’unica.

In un recente saggio, Donnet (2018) connette implicitamente l’etica alla neutralità analitica, che rappresenta “una manifestazione di integrità” in quanto garante irrinunciabile della possibilità di applicazione del metodo analitico e dell’analizzabilità del transfert. Improntata al principio di astinenza, la neutralità manifesta la padronanza di cui l’analista è capace e ha come posta in gioco “il conflitto permanente tra soggetto e funzione” implicato dall’esistenza stessa del controtransfert, che mette alla prova, con sollecitazioni interne, l’Io di lavoro dell’analista.

Nell’ottica di Donnet, la neutralità non coincide con la cancellazione dell’analista come persona, ma rappresenta piuttosto un filtro attraverso cui l’analista “lavora” il controtransfert. Qualora fallisca il lavoro controtransferale, la neutralità collassa, con il rischio che l’analista passi all’atto.

Mi sembra che la neutralità, così intesa, venga a coincidere con un disciplinato monitoraggio dell’assetto interno dell’analista e risulti impastata di elementi che tendono a garantire l’analiticità della situazione: riflessione, autoanalisi, riservatezza e calma, tutti elementi che pertengono a quello che chiamiamo setting interno dell’analista. Una visione che lo avvicina a quello che Winnicott (1960) chiama “l’atteggiamento professionale” dell’analista, che consiste nel “lavoro ch’egli fa con l’intelletto”, e gli costa “uno sforzo lieve ma avvertibile”.

In questa prospettiva, dobbiamo chiederci se e quanto sia possibile, nel lavoro da remoto, garantire un assetto analitico sufficientemente adeguato, mantenere una funzione analitica della mente e un rispetto per il metodo analitico; e quanto sia attuabile, con mezzi telematici, la comprensione e la gestione delle dinamiche transfero-controtransferali.

Etica e setting analitico

Come ci ricorda Etchegoyen (1990), la corretta e attenta gestione del setting è una necessità clinica, ma costituisce anche una esigenza etica.

Il setting esterno costituisce la cornice all’interno della quale l’analista può (e deve) svolgere la sua funzione, e rappresenta l’elemento terzo che garantisce le condizioni contrattuali valide per entrambi i componenti della relazione analitica; esso fonda la possibilità di rappresentare e analizzare movimenti controtransferali costantemente attivi e di mantenerli sul piano del pensiero senza agirli, destreggiandosi tra il duplice scoglio della seduzione e del rigetto della domanda transferale.

L’analisi da remoto implica una profonda modificazione del nostro setting. Credo che molti di noi lo abbiano    fatto senza una piena consapevolezza della portata del cambiamento apportato al nostro setting tradizionale.

Dobbiamo qui chiederci quanto di agito ci sia stato nella decisione, condivisa da molti di noi, di passare all’analisi per via telematica sotto l’urgenza della incalzante pandemia e del timore del contagio (che è un timore del tutto fondato, in quanto la realtà esiste e non è certo completamente declinabile in termini soggettivi). Non va trascurato, tra i fattori della decisione, il fatto che si comprendesse con sufficiente realismo che non si sarebbe trattato di un periodo breve, bensì di un lasso di tempo imprecisabile, ma certamente lungo, tale da procurare notevoli inconvenienti al paziente, alla relazione e al “cantiere” analitico.

Credo che dobbiamo chiederci se e quanto proporre ai pazienti l’analisi da remoto sia stata una variazione o una violazione del setting. Penso che possiamo parlare di variazione del setting quando siamo di fronte ad un adattamento parziale dell’analista ai bisogni del paziente, ritenuto necessario per poter attuare un intervento autenticamente terapeutico, mentre si può definire violazione del setting una situazione in cui l’analista utilizza consciamente o inconsciamente il paziente per soddisfare un proprio moto pulsionale. Entriamo qui nel campo della riflessione teorico-clinica sul narcisismo dell’analista. Il crinale tra variazione e violazione è spesso sottile, e ci impone di pensare ogni volta al senso che ha sia per il paziente che per l’analista fare o non fare, accettare o respingere, una determinata richiesta, in un dato momento, in un definito contesto.

Chiedersi quanti e quali cambiamenti possono essere introdotti nel setting psicoanalitico senza che ne vengano sfilacciati o addirittura stravolti i requisiti e la funzionalità è una questione a mio parere ineludibile, che non dovrebbe mai costituire una scelta impulsiva o superficiale, bensì rappresentare l’esito di un’attività di pensiero, di un lavoro psichico.  La drammatica situazione attuale ci impone una riflessione intorno ad un cambiamento del setting che non costituisce una variazione, perché non riguarda un singolo paziente né una singola categoria di pazienti, e neppure una violazione perché non rappresenta l’esito di un uso del paziente per interessi personali dell’analista. Potremmo forse definirlo un accomodamento generalizzato del setting, imposto da una condizione esterna tanto nuova e imprevedibile quanto ineludibile.

Quanto il lavoro da remoto snatura la dimensione specifica del trattamento psicoanalitico e ne intacca le capacità trasformative; quanto esso, in assenza di presenza fisica reale, e privati degli apporti sensoriali che permettono di “ascoltare il paziente con tutti i sensi” (Bastianini, 2019) permetta o meno l’accesso all’inconscio non rimosso, alle esperienze pre-simboliche che non possono essere rievocate ed espresse in parole e che emergono non nella comunicazione verbale, simbolizzata, bensì in quella non verbale, nella comunicazione da inconscio a inconscio, nelle azioni, negli enactment, nelle dinamiche transferali-controtransferali? Tali interrogativi pongono una complessa ma ineludibile questione, sulla quale dovremo molto pensare e riflettere nei prossimi anni.

Le principali opzioni a nostra disposizione sono dunque: 1) variare il setting tradizionale passando alle modalità telematiche, accettando di discostarsi pesantemente dal nostro setting classico, o 2) sospendere il trattamento fino a che non possa essere ripreso nelle usuali modalità, o infine 3) continuare a vedere i pazienti in studio, a dispetto delle normative vigenti.

Qui entra in gioco la questione di come ognuno di noi intenda la cura analitica e i suoi obiettivi, e le risposte soggettive a questa questione dipendono dalla complessa realtà intrapsichica, per lo più inconscia, alla base delle nostre scelte professionali e dalla nostra personale concezione etica.

Ognuna di queste scelte pone questioni complesse: sospendere il trattamento fino a che sussistono norme restrittive testimonia rispetto e fedeltà al metodo, ma ha come conseguenza il fatto di trascurare in primis un elemento importante del contesto in cui il trattamento si svolge, e allo stesso tempo i bisogni di cura dei pazienti che si sono rivolti a noi e che contano su di noi. Mi si potrebbe obiettare che spacciare un surrogato per una cura psicoanalitica che rispetti il metodo potrebbe a sua volta rappresentare un tradimento delle aspettative dei pazienti, ma personalmente credo che non molti pazienti condividerebbero questa posizione, preferendo un compromesso che non li lasci del tutto sprovvisti.

Continuare a lavorare in presenza, nonostante le norme restrittive, mi sembra possa rappresentare un attacco al terzo, la Legge, e configurarsi come una alleanza collusiva madre-bambino ai danni del padre. In qualche modo viene opposto un terzo privato (il setting) ad uno più pubblico e sovrapersonale (la legge), in un conflitto tra due “terzi”: l’Ideale psicoanalitico e la realtà civile, legale e sanitaria. Prima che analisti, siamo cittadini (sui giornali parlano del fatto che il governo israeliano ha mandato l’esercito a fermare riti collettivi della parte ortodossa radicale, che antepone la legge talmudica a quella dello stato, causando un’accensione folle del contagio). Ignorare le restrizioni imposte per legge costituisce un messaggio di onnipotenza e di incuranza nei confronti degli altri, potenzialmente messi a rischio dagli spostamenti dei pazienti e dal loro soggiornare in studi condivisi con altri pazienti, oltre che dei pazienti stessi, in qualche modo incoraggiati ad esporsi (onnipotentemente) al rischio di infettare e infettarsi, rischio che, a mio parere, seppure ovviamente declinato in modo soggettivo da ognuno, è reale e oggettivo. Una paura ben fondata, suscitata da un pericolo reale, rappresenta un elemento e un segno di salute mentale, e tutelarsi da esso testimonia un buon rapporto con la realtà.

Apportare al nostro setting ampi cambiamenti, come hanno fatto i colleghi che sono passati a modalità telematiche, tra i quali mi colloco, rappresenta certamente un importante vulnus, la cui portata andrà studiata e valutata negli anni a venire, ma costituisce a mio parere un necessario compromesso tra le esigenze del metodo e i bisogni dei pazienti.

Quale etica?

Personalmente ritengo che si possa pensare all’etica del lavoro psicoanalitico anche come un’incessante lavoro di mediazione fondato sulla rappresentazione e sulla elaborazione delle complesse e contraddittorie istanze simultaneamente presenti nella realtà interna ed esterna: mediazioni tra l’ideale terapeutico, compreso quello di neutralità, le richieste del Super io analitico, tra cui quella del rispetto del nostro metodo, le pressioni ambientali e le risorse disponibili sul campo, che vanno realisticamente valutate. Senza questo dialogo interno, autentico e tollerante, e democraticamente aperto a tutte le voci in campo, l’etica rischia di porsi come un super io troppo esigente e limitante, al servizio di un Ideale disumano. (Una situazione del tipo: “L’intervento è perfettamente riuscito, ma il paziente è morto”).

Credo che un comportamento etico non possa essere pensato come qualche cosa di assoluto (come sarebbe una adesione al metodo analitico a qualunque costo, senza se e senza ma), bensì sia da immaginare come qualcosa di relativo e valutato nella sua complessità (che cosa è etico in quel trattamento, con quel paziente, all’interno di quel contesto ambientale). L’adesione al metodo analitico deve tenere conto delle risorse in gioco, e non può – a mio parere – eludere il compito di tessere complessi compromessi tra le esigenze della realtà e il gradiente di trasformazione che il setting può sopportare. Essa richiede l’assunzione di una visione multi focale complessa e la capacità di pensare e ripensare le questioni in gioco, mantenendo la barra del timone lungo una rotta da riorientare di continuo, a seconda delle condizioni atmosferiche e delle condizioni della barca.

Ho succintamente richiamato alcune delle questioni sulle quali dobbiamo interrogarci e riflettere per cercare di riequilibrare l’assetto interno, inevitabilmente minacciato dai cambiamenti apportati al  setting  con il passaggio ai canali telematici, tentando di mantenere viva e operante la funzione analitica della mente. Certamente non è la stessa cosa, si perde molto senza la presenza viva nell’incontro e, personalmente, ho sperimentato un lutto profondo nel rinunciare a quello che era stato il mio setting per decenni, ma mi è parso il male minore.

Questa concezione mi sembra in linea con l’idea che l’etica sia legata alla responsabilità sia nei confronti di se stessi e del proprio operare che nei confronti del mondo esterno. In questa prospettiva, ritengo che la possibilità di mantenere il rispetto del metodo e di salvaguardare la dimensione etica del lavoro psicoanalitico si fondi sull’assetto interno dell’analista, senza sottovalutare quanto esso sia collegato al setting esterno e alla sua funzione di cornice.

Bibliografia

Bastianini T. (2019). Estensioni della psicoanalisi: eterogeneità dei materiali psichici e pluralità dei costrutti teorici idonei a comprenderli. Rivista di Psicoanalisi, ,4, 2019

Donnet J.L. (2018). Il concetto di neutralità e lo scarto soggetto-funzione in Notes per la psicoanalisi, 9, 2018

Etchegoyen R. H. (1990). I fondamenti della tecnica psicoanalitica. Astrolabio. Roma

Winnicott D. (1960). Il contro-transfert. In Sviluppo affettivo e ambiente. Armando. Roma, 1977.

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