Cultura e Società

Simona Stivaletta: Mediare il futuro

1/04/15

Più o meno un anno fa, quando per la prima volta mi sono avvicinato all’opera di Simona Stivaletta, l’ho frettolosamente descritta come “ingannevolmente naïf”. Ora mi rendo conto di aver intuito più, forse, di quanto avessi potuto immaginare. Perché la sua “ingannevolezza”, ad una ricerca profonda e sistematica, si rivela di più ampia portata . E l’apparente qualità “naïf” della sua pittura risulta pervasa, in ultima analisi, da un elemento di “familiare inquietudine”: da una capacità intrigante di mescolare disparate tradizioni pittoriche, provenienti da altri tempi e luoghi, per arrivare a produrre un’espressione squisitamente contemporanea di ciò che lo psicoanalista Christopher Bollas definisce il conosciuto non pensato. Stivaletta è davvero, oserei dire, un’espressione del nostro conosciuto-non-pensato: un lento ribollire di elementi di un inconscio iconografico quasi senza tempo che ci accomuna tutti, il cui esito – precisamente nella sua dimensione di “familiare inquietudine” – porta la discreta ma inconfondibile firma di una innovativa e creativa forza contemporanea.

«Nessuno crea mai niente di nuovo. Nulla si crea dal niente». Simona mi disse queste parole durante una visita, lo scorso anno, alla Tate Britain di Londra, dove insieme ci siamo imbattuti nell’opera di C.S. Lowry, un artista che nessuno dei due conosceva. Pronunciò queste parole con un leggero disappunto, sorridendo anche se con una punta di delusione, quando entrambi non potemmo fare a meno di ravvisare le somiglianze di colori e di stile tra il suo lavoro e quello di Lowry, soprattutto in relazione ad alcuni dei loro paesaggi. È vero, niente si crea ex novo. Ma il miracolo della creazione, almeno per quanto riguarda la Stivaletta, secondo me si articola nelle infusioni, negli influssi, e nelle evocazioni di mondi che lei , pur non conoscendo di persona, in qualche modo riesce, inconsapevolmente, a portare alla luce. Ancora una volta, con discrezione, senza averne cognizione. Tutto ciò attraverso un processo di scoperta e di auto-rivelazione – rivelazione sia di sé stessa che a sé stessa – alimentato, posso dire, da presenze “altre” che, come rarefatti spiriti o demoni, si infiltrano misteriosamente nella sua mente e nel suo processo creativo.

Guardate, ad esempio, i due dipinti ambedue intitolati La festa. Lì c’è Van Eyck, i suoi Arnolfini incarnati, in modo perturbante, dalle coppie davanti a noi. Osservate il quadro Figura di ragazzo, oppure quello intitolato Lo sbarco, e percepite un mondo, quello dell’Olanda del XV secolo, che in qualche modo diventa attuale. Facciamo un salto in avanti nel tempo, ed entriamo nel mondo de La madre della sposa: non siamo forse – ma senza lo sfavillìo – negli spasimi smorzati ma ravvivati, e per niente riprodotti in modo dozzinale, della sensibilità di Klimt? La musicalità e l’ariosità di un Paul Klee, le vibrazioni di colore dei suoi quadrati, triangoli e rettangoli, si disseminano attraverso l’opera di Simona; allo stesso modo alcuni dei suoi paesaggi, almeno agli occhi di questo osservatore, evocano visioni della precisione geometrica di Mondrian, la cui ricerca implacabile e ossessiva per l’assoluto è mitigata e ripensata dall’autrice in geometrie che si rivelano in qualche modo “felici”, fallibili. Umane. E allo stesso tempo proprio quei paesaggi, spesso privi di figure umane, tormentano: la stessa Simona rifiuta in modo netto questa mia associazione, ma mi viene alla mente De Chirico quando perlustro alcuni dei suoi spazi disabitati più densi. Spazi, mondi, tenuti insieme da fili che si estendono nell’aria, dove sfere o palloni si confondono con periscopi a molla, dove si insinua una sorta di paranoia. In altri lavori, più recenti (Carillon, Dialogo, Casa Mobile, i due paesaggi Paesaggio in grigio e Paesaggio in rosso), un grado di alienazione meccanizzata occupa lo spazio scenico (sebbene non senza un eccentrico impulso trascendente), che rinnova e aggiorna la tradizione Futurista italiana mentre richiama, forse con ironia, oppure, chissà, con nostalgia, Charlot e il suo Tempi moderni. Ma poi ancora, questi paesaggi rossi e grigi di Stivaletta sono un contrappunto ad altri in cui la giocosità di un Lowry, o del suo contemporaneo britannico Alfred Wallis (sto pensando al suo Case di St.Ives, Cornovaglia), si reincarnano, in una sottile ma nondimeno esultante celebrazione del colore e della forma. E, infine, della vita.

Inquietudine familiare. Conosciuto-non-pensato. Felicità fallibile. Se nulla mai si crea ex novo, ci si potrebbe anche chiedere: dov’è allora l’originalità di Stivaletta? Nel suo libro Il Mistero delle Cose Bollas scrive: «Quando il pittore dipinge, o il musicista compone, o lo scrittore scrive, essi trasferiscono la realtà psichica in un altro regno. Essi transustanziano quella realtà, poiché l’oggetto non esprime più semplicemente sé stesso, ma a quella realtà conferisce un’altra forma… Il termine oggetto transustanziale mi consente di pensare all’integrità intrinseca della forma in cui uno sposta la propria sensibilità al fine di creare: nel pensiero musicale, nel pensiero scritto, nel pensiero pittorico». Il “pensiero pittorico” di Stivaletta, ovvero il procedimento attraverso cui la sua particolare sensibilità è trasposta in forme idiomatiche e integrali, mi fa venire in mente un commento di Igor Stravinsky (citato da Bollas) che scrive di come «si prefigura nell’atto creativo una comprensione intuitiva di un’entità sconosciuta già posseduta ma non ancora intelligibile, un’entità che non assumerà una forma definita se non tramite l’azione di una tecnica costantemente vigile». Per tutte le “presenze” che questo critico vede o immagina abitare l’opera di Stivaletta, i quadri – o le intelligibili entità – in questa mostra sono inequivocabilmente suoi, generati proprio da quella padronanza, e da quella specifica vigilanza tecnica, di cui parla Stravinsky. Una “medium”, in un certo senso, per la miriade di influenze interiorizzate e metabolizzate nel corso di decenni, Simona Stivaletta riesce a fare proprie le tradizioni passate proprio nella misura in cui ad esse rende onore, inconsciamente. Ma tale padronanza del passato – in accordo con la possibilità essenziale di dispossessarsene – è ciò che le permette, paradossalmente, di mediare il futuro. Attraverso un idioma creativo tutto suo. E lei media, e davvero ricrea il futuro, come fa ogni autentico artista, battendo un territorio che per forza di cose è familiare, ma va sempre ricalpestato di nuovo. Ripensato. Rivisitato. O, per dirla con Bollas, per sempre, ma in modo comunque originale, transustanziato.

Traduzione di Marica Macchiagodena 

NOTA:La mostra si è recentemente tenuta presso lo spazio espositivo ‘Castello 925’ Venezia ( www.castello925.it). Spazio di ricerca che ha particolarmente a cuore il ‘fenomeno creativo’ nelle sue più varie declinazioni.

 

Gaddini english

Simona Stivaletta: Mediating the future

Anthony Molino

A year or so ago, when I’d first encountered the work of Simona Stivaletta, I made a rather hasty comment in referring to her production as “deceptively naif”. I now realize that I was on to something, more perhaps than I could have imagined. For her deceptiveness, upon deeper and more systematic investigation, is far-reaching. And the apparently naif quality of her painting ultimately betrays a pervasive element of a kind of “familiar disquiet”, an intriguing capacity to blend disparate pictorial traditions, from across times and spaces, to yield a most contemporary expression of what psychoanalyst Christopher Bollas calls the unthought known. Indeed, Stivaletta, I’d dare say, is an expression of our unthought known: a slow bubbling of elements of a near-timeless iconographic unconscious in which we all share, whose outcome – precisely in its dimension of a familiar disquiet – makes for the discreet but unmistakable signature of a distinctly contemporary creative force.
«Nobody ever creates anything new. Nothing ever gets created from scratch». Simona uttered these words to me during a visit last year to London’s Tate Britain, where together we chanced upon the work of C.S. Lowry, an artist neither of us knew. She spoke them with a hint of disappointment, mildly discon¬solate but still with a smile, when together we couldn’t help but acknowledge the similarities in palette and style between her work and Lowry’s, especially where some of her landscapes are concerned. True, nothing ever does get created ex novo. But the miracle of creation, at least where Stivaletta is concerned, in my opinion lies in the infusions, influxes and evocations of worlds she’s never personally known but somehow manages, unwittingly, to bring to life. Again, with discretion, unknowingly. In a peculiar process of discovery and self-revelation – revelation both of herself and unto herself – fuelled, I might say, by otherworldly “presences” who, like hovering spirits or daemons, mysteriously infiltrate her mind and process.
Look, for instance, at the two paintings both entitled La festa (The party). Van Eyck is there, his Arnolfinis eerily embodied by the couples before us. See Sti¬valetta’s Figura di ragazzo, or Lo sbarco, and sense a world, that of 15th century Holland, become somehow contemporary. Fast forward. Enter the world of La madre della sposa (The bride’s mother), and are we not – without the sparkles – in the tamed throes, reanimated, living and not cheaply duplicated, of Gustav Klimt’s sensibility? The musicality and airiness of Paul Klee, the vibrant motion of his colorful squares, triangles and rectangles, all inform Simona’s work, in the same way that her landscapes, at least for this viewer, evoke visions of the geometric precision of Mondrian, whose relentless, obsessive quest for the ab¬solute is tempered and reconfigured by Stivaletta, in geometries which prove somehow “happy”, fallible. Human. And at the same time those very landscapes, often devoid of the human figure, can also prove troublesome: Simona herself vigorously refutes this association of mine, but De Chirico comes to mind when I scour some of her denser, uninhabited spaces. Spaces, worlds, held together by airborne wires, where balloons can be confused with pop-up periscopes, and a kind of paranoia seeps in. In other, more recent works (Carillon, Dialogo, Casa Mobile, the two landscapes Paesaggio in grigio and Paesaggio in rosso), a degree of mechanized alienation takes center stage (albeit not without a quirky transcendent urge), that renews and updates the distinctly Italian Futurist tradition while calling, perhaps ironically, or nostalgically, on Chaplin and his Modern Times. But then again, these red and grey landscapes of Stivaletta’s are a counterpoint to others where the winding playfulness of a Lowry, or of his British contemporary Alfred Wallis (I’m thinking of his Houses at St. Ives, Cornwall), are reincarnated, in a subtle but nonetheless jubilant celebration of color and form. And, ultimately, of life.
Familiar disquiet. Unthought known. Fallible happiness. If nothing ever gets created anew, then one might rightly ask: where is the originality of Stivaletta? In his book The Mystery of Things Bollas writes: «When the painter paints, or the musician composes, or the writer writes, they transfer psychic reality to another realm. They transubstantiate that reality, the object no longer simply expressing itself, but re-forming it… The term ‘transubstantial object’ allows me to think of the intrinsic integrity of the form into which one moves one’s sensibility in order to create: into musical thinking, prose thinking, painting thinking». Stiva-letta’s “painting thinking”, the process whereby her peculiar sensibility is transposed into distinctly idiomatic and integral forms, reminds me of a comment by Igor Stravinsky (quoted by Bollas), who writes of how a “foretaste of the creative act accompanies the intuitive grasp of an unknown entity already possessed but not yet intelligible, an entity that will not take definite shape except by the action of a constantly vigilant technique». For all of the “presences” this critic sees or imagines inhabiting Stivaletta’s work, the paintings – or intelligible entities – in this exhibition are unshakably and unequivocally hers, borne of the very possession, and specific technical vigilance, of which Stravinsky speaks. A “medium” of sorts for the myriad of influences internalized and metabolized over the course of decades, Simona Stivaletta can own traditions past in the very process of honoring them, unconsciously. But such ownership of the past – in accord with the possibility of its essential dispossession – is what allows her, paradoxically, to mediate the future. In a creative idiom all her own. And she me¬diates, and indeed remakes that future, as every true artist does, trekking territory that is by necessity familiar but gets always trodden again. Re-envisioned. Recast. Or, as Bollas would have it, forever, yet originally, transubstantiated.

Pubblicato su Spiweb per gentile concessione di ARACNE rivista www.aracne-rivista.it

2la festan.3

La casa mobile 

1la casa_mobile_1

 

 

 

 

  

 

La festa n.3

2la festa_

 

 

 

 

 

  

 

La festa 

4lo sbarco

 

 

 

 

 

 

 

Lo sbarco

5paesaggio in_grigio

 

 

 

 

 

  

 

Paesaggio in grigio

6Paesaggio in_rosso_cm_ok4x29_1

 

 

 

 

 

 

  

 

 

Paesaggio in rosso cm  24×29

7figura di_ragazzo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  Figura di ragazzo

Chi ha letto questo articolo ha anche letto…

Incontri inattesi. Don McCullin a Roma di S. Mondini

Leggi tutto

"Tracing Freud on the Acropolis" Recensione di A. Ramacciotti

Leggi tutto