Cultura e Società

Zurbarán

18/12/13

Ferrara, Palazzo dei Diamanti, 14 Settembre 2013 – 6 Gennaio 2014

Maria Grazia Vassallo Torrigiani

“Una rosa, è una rosa, è una rosa.” Questo verso  di Gertrude Stein – si trova nel del suo poema Sacred Family, del 1913 – è spesso stata inteso ed utilizzato come invito ad arrendersi alla banalità di un dato di fatto, a rinunciare a cercare significati ulteriori, a negare la possibilità che qualcosa si dia in sfaccettatile, coloriture e sfumature diverse.

Se, parafrasando Stein, qualcuno affermasse che  “Il bianco, è il bianco, è il bianco”, sarebbe clamorosamente smentito dallo straordinario dipinto che apre la mostra di Francisco Zurbarán a Ferrara. La tela di “San Serapio” [fig.1], opera realizzata a Siviglia nel 1626 per il convento della Mercede Calzada, raffigura uno dei tanti santi, frati, predicatori e padri della chiesa, dipinti da Zurbarán nel corso della sua fortunata carriera. Sono figure che emergono per lo più da fondi scuri [fig. 2], con un effetto plastico di drammaticità e di forte presa emotiva sullo spettatore. La grandissima abilità di Zurbarán nei panneggi e nella lumeggiatura, mai come in “San Serapio” fa  sì che il bianco della veste del santo martire si moduli qui in una mutevole gradazione di bianchi. Lo sguardo dello spettatore vaga e si perde nelle pieghe ed increspature dell’abito talare che sembra evocare “un paesaggio montano di picchi e crepacci, canaloni e pendii”, come ha scritto Gabriele Finaldi.

La Siviglia del ’600 pullulava di chiostri, chiese e conventi. Appartenevano ad una miriade di congregazioni e ordini monastici, tutti impegnati a promuovere la politica culturale del Concilio di Trento che affidava al potere di suggestione delle immagini il compito di indicare la retta via, di avvicinare i fedeli alla Chiesa di Roma e di favorire il contatto con Dio. Zurbarán, nato in un villaggio dell’Estremadura nel 1598, si impose ben presto all’attenzione dei numerosi committenti della città andalusa, e già nel 1628 la fama e l’apprezzamento di cui godeva è dimostrata dal conferimento della cittadinanza onoraria di Siviglia, dove in effetti produsse alcune delle sue opere più importanti.

Nonostante le committenze religiose definissero rigide convenzioni e precise direttive a cui i pittori dovevano attenersi, Zurbarán si impone per la pregnanza espressiva dei volti, la caratterizzazione delle singole fisionomie, in una resa figurativa che tiene insieme trascendenza e realismo. In molti dei lavori in mostra, si rimane davvero colpiti dalla maestria con cui il pittore riesce a trasmettere la consistenza materica dei drappeggi e dei tessuti, evocandone la tattilità, anche qui riuscendo nell’impresa di mettere in tensione spirito e materia, divino ed umano. Anzi, in alcuni meravigliosi ritratti femminili a figura intera, la teatralità della posa, la sontuosa opulenza degli abiti di broccato adorni di preziosi gioielli, inducono a credere di trovarsi di fronte a raffinate nobildonne dell’aristocrazia spagnola, piuttosto che a vergini e martiri cristiane!  [fig.3]

Modernissime nature morte – solo due o tre quadri qui a Ferrara, ma sublimi nella elegante essenzialità dei pochi oggetti allineati con un rigore che ricorda Morandi. Oggetti al contempo semplici e quotidiani, eppure pervasi da una sorta di misteriosa inattingibilità [fig.4].

La sensibilità poetica di Zurbarán, e la sua carica umana e affettiva, si dispiegano in modo commovente nelle scene sacre di sapore intimo e domestico: Maria bambina addormentata con un libro in grembo; Maria colta nell’attimo di sospendere il ricamo per volgere uno sguardo trepido e preoccupato al piccolo Gesù, che si è punto giocando con una corona di spine; Maria e Giuseppe con il volto soffuso di tenerezza, gli sguardi di entrambi rivolti alla testina del bambino attaccato al seno della madre [fig.5].

E un quadro che mi ha commosso: “La fuga in Egitto”. C’è la Madonna seduta in posizione frontale sull’asinello che avanza, e un ampio cappello di paglia e uno scialle di pesante tessuto scuro sull’abito rosa, come a proteggerla dalle intemperie che dovranno affrontare. Una lieve nota malinconica sul volto; lo sguardo, abbassato sul bambino grassottello, seduto comodamente sulle sue ginocchia, tenuto con entrambe le mani dalla madre in un abbraccio saldo e protettivo. Accanto a loro Giuseppe, a piedi nudi e con un bastone in mano a sostenere la fatica del lungo cammino. La mano libera è sollevata verso il bambino, le dita sono piegate come a scherzare affettuosamente con la manina paffuta del figlio;  il volto, lo sguardo del padre, sono protesi verso il piccolo, cercando di intercettarne lo sguardo per coinvolgerlo nel gioco [fig.6].

Non è un vecchio, questo Giuseppe di Zurbarán. È un padre giovane, nel pieno delle su forze, che guida la sua piccola famiglia in un viaggio faticoso e disagevole per sfuggire ai pericoli che la minacciano; sarà sicuramente stanco e preoccupato, ma non lo dà  a vedere, ed è lì che vuole strappare un sorriso al suo bambino, coinvolgerlo in un gioco, forse per rassicurarlo di fronte a quegli spazi sconosciuti in cui si stanno addentrando.

Mi è rimasto nel cuore, questo giovane padre. In un’epoca di padri assenti, padri evaporati, padri mammi, padri adolescenti, padri tiranni e padri perversi, di un padre così si sente proprio il bisogno!

 San Serapio_1628_Olio_su_tela_cm_1202_x_104_Hartford_Wadsworth_Atheneum_Museum_of_Art_The_Ella_Gallup_Sumner_and_Mary_Catlin_Sumner_Collection_Fund

1. San Serapio, 1628, Olio su tela, cm 120,2 x 104, Hartford, Wadsworth Atheneum Museum of Art – The Ella Gallup Sumner and Mary Catlin Sumner Collection Fund

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2. San Francesco, c. 1635, Olio su tela, cm 204,8 x 113,4 – Milwaukee Art Museum

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3. Santa Casilda, c. 1635, Olio su tela, cm 171 x 107 – Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza

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4. Una tazza d’acqua e una rosa su un piatto d’argento, c. 1630, Olio su tela, cm 21,2 x 30,1 –  Londra, The National Gallery. Acquistato dal George Beaumont Group, 1997

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5. Riposo durante la fuga in Egitto (La Sacra Famiglia), 1659 – Budapest, Szépmũvészeti Múzeum

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6. La Fuga in Egitto, circa 1630-35 – Seattle Art Museum, dono promesso e parziale della Barney A. Ebsworth Collection

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