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L’Altro nella stanza: psicoanalisi, conflitto e umanità nella questione israelo-palestinese. S. Pandolfo

3/06/25
L’Altro nella stanza: psicoanalisi, conflitto e umanità nella questione israelo-palestinese. S. Pandolfo

Parole chiave: psicoanalisi, trauma collettivo, identificazione proiettiva, alterità, conflitto israelo-palestinese

L’Altro nella stanza: psicoanalisi, conflitto e umanità nella questione israelo-palestinese
Di Stefania Pandolfo

Occorrono due menti per fare un essere umano. — T. Ogden

In tempi di conflitto, la psicoanalisi è chiamata a una responsabilità particolare: quella di pensare l’impensabile, di contenere l’incontenibile, di ascoltare ciò che la società respinge come troppo complesso o troppo doloroso. Vorrei proporre una piccola riflessione sulla questione israelo-palestinese, non in termini geopolitici o ideologici, ma attraverso la lente della psicoanalisi, con la sua capacità di interrogare le ferite profonde, le identificazioni inconsce, le ripetizioni traumatiche che strutturano l’esperienza umana collettiva.
Per farlo, prenderò le mosse da un dialogo immaginario tra due psicoanalisti, uno ebreo israeliano, il dottor Shalev, e uno palestinese, il dottor Darwish, che si incontrano per condividere le rispettive visioni, ma anche per confrontarsi in un autentico reciproco ascolto.

Prima di iniziare, è tuttavia doveroso dire qualcosa con chiarezza, poiché ciò che, mentre scrivo, sta accadendo a Gaza ci interpella come esseri umani prima ancora che come psicoanalisti. La violenza che si abbatte indiscriminatamente su civili, bambini e famiglie inermi, costituisce una ferita profonda alla nostra coscienza collettiva. Ogni massacro di innocenti, ogni bombardamento o atto terroristico che cancella vite e memoria, ogni umiliazione quotidiana che nega l’umanità nell’Altro, merita la nostra più ferma condanna. Il rispetto dell’Altro passa dalla memoria di ogni sofferenza storica e dalla capacità di non gerarchizzare il dolore.

Il dialogo immaginario tra Shalev e Darwish

In una stanza silenziosa, due psicoanalisti siedono l’uno di fronte all’altro. I loro sguardi si incrociano, portando con sé secoli di storia, trauma e identità.

Shalev: Da ebreo, non posso non sentire dentro di me l’eco della persecuzione. Mio nonno ha attraversato l’Europa nascosto nei vagoni, sopravvissuto ad Auschwitz. Ogni sirena, ogni minaccia mi riporta lì. Capisci cosa vuol dire vivere con la paura scolpita nei geni?

Darwish: Lo capisco, perché anch’io porto una memoria. Mio padre ha lasciato Haifa nel ’48 con la chiave di casa in tasca. Non ha mai smesso di aspettare il giorno del ritorno. Viviamo come ospiti nella nostra terra. Siamo diventati il rimosso della storia altrui.

Shalev: Quando vedo i razzi su Tel Aviv il mio corpo si prepara al peggio. E penso ai miei figli, ai rifugi. Ma dentro di me una voce sussurra: e se stessi diventando ciò che ho sempre temuto?

Darwish: E quando vedo le macerie di Gaza, sento che non abbiamo diritto di sognare. L’occupazione entra nelle nostre menti, ci educa al sospetto, ci nega la speranza. Ma poi ti ascolto e qualcosa nelle mie certezze si incrina. Tu non sei il mio carceriere. Sei un uomo, ferito come me, ferito anche da me.

Shalev: L’odio che vedo riflesso nei tuoi occhi mi ferisce più dei razzi. Lo sento che ci stiamo perdendo a vicenda. E capisco anche che non c’è futuro per me senza il tuo diritto a esistere.

Darwish: E io so che il mio dolore non può cancellare il tuo. Se esisto, è anche perché tu esisti. Forse la pace comincia qui: quando due ferite si riconoscono, non per fondersi, ma per non più negarsi.

Il silenzio che segue non è vuoto. È un contenitore. È forse il primo spazio condiviso.

Il trauma transgenerazionale: un’eredità che parla senza parole

La clinica ci insegna che il trauma non è mai solo individuale, ma che si trasmette, si incarna, si inscrive nella mente e nel corpo delle generazioni successive. Nel contesto del conflitto israelo-palestinese, parliamo di due traumi fondanti:

Da una parte, il trauma dell’Olocausto, che continua ad abitare l’inconscio collettivo ebraico (e non solo) con il suo carico di angoscia di annientamento, ipervigilanza, bisogno di controllo.

Dall’altra, il trauma della Nakba, che alimenta il sentimento di ingiustizia, di espulsione, di invisibilità, e che si tramanda nelle narrazioni familiari, nei simboli, nei corpi.

Questi traumi non elaborati diventano mandati transgenerazionali: imperativi emotivi che chiedono riparazione, rivendicazione, o protezione assoluta. Ma se il trauma non è pensato, diventa destino. Il lavoro analitico – individuale e collettivo – consiste proprio nel trasformare l’eredità cieca e forclusa in storia pensata, in parola.

Identificazione proiettiva e nemico interno

Nel conflitto, l’Altro diventa spesso il ricettacolo dei nostri contenuti psichici più intollerabili. L’identificazione proiettiva, concetto chiave della teoria kleiniana e bioniana, descrive, come ben sappiamo, proprio questo meccanismo: espellere fuori di sé parti non mentalizzabili – l’aggressività, la vulnerabilità, la vergogna – e poi relazionarsi a esse come se fossero interamente dell’altro.

Questa dinamica è disumanizzante per entrambi. L’altro cessa di essere soggetto, e diventa oggetto della proiezione. Il lavoro analitico consiste nel ritirare le proiezioni, riappropriarsi delle proprie angosce e, nel farlo, scoprire che l’altro non è l’inferno, ma lo specchio.

La psicoanalisi come spazio di trasformazione del conflitto

Poiché il setting analitico è uno spazio che accoglie l’ambivalenza, la contraddizione, la coesistenza di affetti opposti, in questo senso, esso costituisce una metafora possibile anche per il lavoro collettivo sulla pace.

La psicoanalisi non offre infatti soluzioni politiche, ma qualcosa di altrettanto necessario:

  • Un modello di ascolto non difensivo, dove il silenzio ha valore e la parola ha peso.
  • Una capacità di sostare nell’incertezza, senza cedere alla semplificazione ideologica.
  • Un’etica dell’alterità, vicina a quella di Lévinas: “Il volto dell’altro mi guarda, e mi chiede: non uccidermi.”
    Nel dialogo tra Shalev e Darwish, il punto di incontro non è certo nella politica, né tanto meno nella religione, ma nell’umano. Entrambi, da psicoanalisti, riconoscono che il primo dovere non è verso una nazione, ma verso la soggettività ferita, verso l’essere umano dietro la maschera del nemico. E così li immagino dirsi per salutarsi: “La vera linea di confine non è quella tracciata dalla geopolitica, ma quella che separa il rispetto dalla disumanizzazione. Ed è l’unica che valga la pena di difendere, insieme.”

La psicoanalisi ha il compito – oggi più che mai – di rendere pensabile l’inimmaginabile. Di parlare là dove l’odio grida. Di ricordarci che non c’è pace possibile senza riconoscimento reciproco, e non c’è riconoscimento senza ascolto.


“Ciò che viene fatto ai bambini, essi lo faranno alla società.” — K. Menninger

Bibliografia essenziale

  • Abraham, N. & Torok, M. (1993). La scorza e il nocciolo. Roma: Borla
  • Bion, W. R. (1970). Attenzione e interpretazione. Roma: Armando.
  • Bolognini, S. (2002). L’empatia psicoanalitica. Torino: Bollati Boringhieri.
  • Civitarese, G. (2008). Il sogno necessario. Milano: Cortina.
  • Faimberg, H. (2006). Ascoltando tre generazioni. Legami narcisistici e identificazioni alienanti.  Milano: Franco Angeli
  • Ferro, A. (2002). Nella stanza d’analisi. Emozioni, racconti, trasformazioni. Milano: Cortina.
  • Laub, D., & Felman, S. (1992). Testimony: Crises of Witnessing in Literature, Psychoanalysis, and History. New York: Routledge.
  • Lévinas, E. (1961). Totalité et infini. Paris: Kluwer.
  • Ogden, T. (2009). Riscoprire la psicoanalisi. Pensare e sognare. Milano: CIS.
  • Said, E. W. (2003). Orientalismo. Milano: Feltrinelli.

Vedi anche:

https://www.spiweb.it/dossier/dossier-psicoanalisi-e-guerre-gennaio-2014/essere-bambini-a-gaza-il-trauma-infinito/

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