La Cura

Le dimensioni traumatiche dell’esperienza psichica. Una breve riflessione. T. Bastianini

7/02/22
Le dimensioni traumatiche dell’esperienza psichica. T. Bastianini

Fabio Mauri, 1993

Parole chiave: Trauma, traumatico, scissione, dissociazione, identificazione con l’aggressore

Abstract  Possiamo affermare con certezza che Freud, al di là di quanto si tende comunemente a pensare, mantenne costante la tensione epistemica verso concezioni dello sviluppo psichico complesse, in cui memoria storica e  fantasia erano polarità costantemente in gioco. La psicoanalisi si è a lungo interrogata sull’impatto che esperienze avverse possono avere sul senso di continuità dell’esistenza le cui fonti possono essere numerose e diverse per ciascun individuo. 

Una questione centrale ha preso forma nel delineare il soggetto psichico della contemporaneità: la sua ineludibile collocazione all’interno del “paradigma del riconoscimento” (Honneth, 2002). Paradigma inaugurato dal Nebenmensch freudiano, l’essere umano prossimo, e via via articolato nelle concezioni di una psiche che prende forma in modo complesso, all’interno di una matrice in grado di sostenerne lo sviluppo (Winnicott, Bion, Fairbairn, Balint, Kohut).

Un riconoscimento che rivela la problematica degli effetti dei legami nelle relazioni primarie e le questioni inerenti ciò che è rimasto in sospeso nella trasmissione  psichica delle generazioni precedenti. Solo, del resto, se si verificano condizioni “ adeguate”, tracce, iscrizioni, mappe di memoria diverranno nel tempo materiale simbolico e funzione riflessiva che darà forma all’espressione dell’idioma soggettivo (alludo a un sentimento di sé sia preverbale che non verbale che farà da base a tutte le acquisizioni successive). 

 In questa prospettiva, la ricerca sul trauma è divenuta attenzione rivolta alle condizioni che favoriscono o impediscono il divenire della vita psichica, in un’ottica complessa, senza riduzionismi né casualismi lineari, in una delineazione dei fatti e dei vissuti affettivi, attraverso i quali comprendere la laboriosità del dialogo psiche-evento

Tale complessa dialettica, tra l’impronta del traumatico e le peculiari modalità della psiche di appropriarsene soggettivamente, continuerà a costituire una sfida per la teorizzazione psicoanalitica, nella consapevolezza che ogni  forma di memoria contiene la traccia del lavoro psichico del soggetto sia esso di natura rappresentativa o di altra natura.  

In altri termini, definiamo traumatico l’impatto che l’evento ha sulla psiche. L’accaduto che ha sorpreso e sopraffatto la psiche, la minaccia di effrazione a cui è stata esposta, a cui è impossibile far fronte attraverso le vie della rappresentazione e della simbolizzazione, dal quale ci si protegge per salvare in primo luogo la propria continuità d’essere (Roussillon, 2002).

   La psicoanalisi si è a lungo interrogata sull’impatto che esperienze avverse possono avere sul senso di continuità dell’esistenza le cui fonti possono essere numerose e diverse per ciascun individuo. Nell’evoluzione concettuale, intorno agli anni 50, con il rilievo attribuito alle funzioni dell’oggetto primario, con i relativi concetti di holding, handling, réverie, si è passati da un interesse per i traumi “per eccesso”, ad un interesse per i traumi” per difetto”. Se all’origine del pensiero psicoanalitico, gli eccessi dell’eccitamento e il “pervertimento delle lingue “da parte dell’adulto nei confronti del bambino, sono stati gli elementi centrali, successivamente, ha preso forma un interesse per i traumi per difetto di holding (Winnicott 1965), di funzioni di rêverie (Bion 1962) culminando con quella che è definita, soprattutto dopo Green, “la clinica del vuoto” (Green, 2002).

Che cosa accade alla psiche quando, sia il disinvestimento precoce che l’eccesso di eccitamenti, perturba il lavoro psichico di legame, elaborazione, simbolizzazione?  Prevalgono forme di funzionamento psichico che hanno lo scopo di distaccare la psiche del soggetto dalla realtà esterna, dando vita ad un’area separata, non integrata con il resto dell’esperienza (R.Williams, 2009). Quando la realtà dolorosa è anche solo parzialmente eclissata dalla realtà psichica, la consapevolezza di sé dell’individuo è danneggiata; il lavoro psichico di legame tra affetto e rappresentazione è impedito venendo a crearsi una frattura nel sentimento di sé.

 Abbiamo dunque preso atto che” l’ombra dell’oggetto” può cadere precocemente sull’Io ed altrettanto fondamentale si è rivelato comprendere i modi e le forme in cui l’io può appropriarsene, nonostante il costo psichico a cui si espone. In questo lavoro di appropriazione soggettiva, l’identificazione, ha un ruolo primario. È lo stesso fenomeno dell’identificazione che dà fondamenta alla struttura psichica a potersi declinare, nella prospettiva di Ferenczi, nell’identificazione con l’aggressore, una delle prime soluzioni inconsce che la psiche realizza nell’incontro con l’esperienza traumatica. Nel tentativo di comprendere i motivi che spingono la psiche a deformarsi, incrinarsi, alterarsi, il trauma dunque occupa un posto centrale. 

  Alla fine della sua opera Freud, nell’Uomo Mosè e la religione monoteistica, oltre a riconoscere tra i motivi di esperienze traumatiche “anche offese remote che l’Io ha subito (umiliazioni narcisistiche)” (Freud, 34-38, p. 397), sottolinea che gli effetti del trauma possono essere di due tipi, positivi e negativi. I primi danno luogo alla necessità di ripetere, ma è nei secondi, nell’aspetto del negativo, che prende forma ed è inaugurato quel percorso di ricerca che destinerà attenzione ai fenomeni di vuoto, sintomi senza contenuto, memorie senza ricordo, posti a fondamento del traumatico, in quella dimensione di impossibilità trasformativa poiché non ha potuto essere oggetto di un lavoro psichico di traduzione, rappresentazione, simbolizzazione.   

In quella “caccia” metaforica attraverso la quale intercettare i punti di repere di un soggetto complesso, la questione del traumatico occupa un posto centrale nella teoria psicoanalitica. Se i concetti di hilflolsilgkeit ed helpleness (nella traduzione inglese) ci restituiscono l’idea di una condizione originaria di dipendenza dell’essere umano dalle figure di riferimento del suo ambiente, l’iscriversi del trauma nel fallimento delle relazioni di aiuto che lasciano il soggetto umano nella propria impotenza, collegano inesorabilmente il trauma alla relazione. È del resto quanto Freud ci ha lasciato in eredità a partire dai suoi ultimi lavori: gli studi sull’impatto della realtà nella alterazione e nella scissione dell’Io. …..”L’Io, in questo stesso periodo della vita, si trova abbastanza spesso nella condizione di doversi difendere da una richiesta penosa che il mondo esterno gli pone, ciò gli riesce con il rinnegamento delle percezioni che gli rendono nota questa pretesa della realtà.” (Freud, 1938, p.630). Tali esperienze, possono trascriversi come memoria di affetti inconsci, scissi e contemporaneamente “aboliti” dalla percezione di sé che tuttavia, hanno potere di influire sull’esperienza psichica, i cui effetti non possono essere tradotti, assunti, e compresi: la posta in gioco è il” disimpegno soggettuale dell’Io”(Green 2004, p 251).

Tali elementi, possono essere considerati come intuizioni non elaborate relative ad un funzionamento mentale inconscio diverso da quello compreso attraverso la rimozione secondaria.

“All’inizio l’individuo è come una bolla – afferma la paziente di Winnicott – Se la pressione esterna si adatta attivamente alla pressione interna, allora la cosa importante è la bolla. Ma se la pressione ambientale è maggiore o minore della pressione all’interno della bolla, allora non è più questa ad essere importante bensì l’ambiente. La bolla si adatta alla pressione esterna” (Winnicott 1949, p221)

 È per mezzo della creazione di un un’area di memoria affettiva dissociata che il soggetto tenta di padroneggiare i vissuti traumatici inerenti l’interruzione dell’esperienza di sé, vissuti che non possono essere elaborati come propri sentimenti, pensieri, è un non me, un elemento alieno del sé, che abita la psiche ed il corpo in alcune occasioni, in attesa di una possibile appropriazione soggettiva (Freud, Klein, Winnicott, Ogden, Roussillon).

Porre al centro del pensiero clinico i concetti di trauma e di dissociazione rappresenta un modo di intendere l’organizzazione psichica attraverso nuove topiche.

Un Io capace di scindersi in ragione dei numerosi precipitati identificatori, è peraltro una traccia antica nel pensiero freudiano, già nel 1897 affermava: ”Molteplicità delle personalità psichiche. Il fatto dell’identificazione permette di prendere questa frase alla lettera”. La capacità sintetica dell’Io, ci appare scontata. In realtà non è così. La base della nostra struttura psichica è molteplice.” Intuizione consonante con lo zeitgeist dell’epoca, quando numerosi grandi pensatori in quel periodo (Ribot, Janet, Binet) interrogavano le forme della coscienza e la loro possibilità di disarticolarsi, perdendo la coerenza tra le diverse parti. Solo il corpo, poteva allora costituire  il baluardo in grado di mantenere una unità in contrapposizione alla evanescenza di un  Io diviso.

 H. Ellenberger, in una sorta di intuizione anticipatrice affermava: “l’opera di Janet può essere paragonata a una grande città sepolta sotto le ceneri, come Pompei. Il destino di una città sepolta è incerto: può restare sepolta per sempre; può rimanere nascosta per essere saccheggiata dai predoni. Ma è anche possibile che invece un giorno sia dissotterrata e riportata in vita” (H.Ellenberger, 1970 p. 475). L’opera di Janet, (il fantasma di Janet, ci ricorda Bromberg 2002) è stata ampiamente recuperata nel dibattito psicoanalitico contemporaneo e ha costituito un nuovo stimolo per riattraversare il tema della dissociazione in relazione al trauma. 

 Scissione, dissociazione della psiche

 Nella complessa storia della teoria del trauma, agli albori della teorizzazione psicoanalitica  Janet e Freud presero strade diverse. Janet concepiva la dissociazione come una manifestazione della debolezza dell’Io, che impedisce la necessaria sintesi propria della vita mentale (Freud-Breuer, 1892-95); Freud, vedeva la dissociazione come una reazione dinamica al conflitto (W.Boelebher, 2012). E’ a Sándor Ferenczi, in dialogo concettuale con l’ultimo Freud, che occorre far risalire l’interesse per i meccanismi scissionali, (oggi li definiremmo dissociativi), egli parlerà del meccanismo di scissione mettendolo in relazione con gli eventi traumatici, perché «non c’è trauma né spavento che non abbia come conseguenza un accenno di scissione della personalità» (Ferenczi, 1932a, p. 98). «Un forte shock, infatti, equivale all’annientamento della coscienza di sé, della capacità di resistere, di agire e di pensare in difesa del proprio Sé» (Ferenczi, 1934, p. 101).

In una lettera che Freud invia a Ferenczi il 16 settembre del 1930 gli ricorda, che “i traumi li si deve dedurre dalle loro implicazioni”, sono infatti “le ferite cicatriziali reattive (reactive scarring)” che li “rendono visibili” (Freud, Ferenczi, 1919-1933). È utile ricordare che in seguito sarà Fairbairn a riparlare in modo esplicito dei fenomeni dissociativi  (Fairbairn 1954), e Winnicott nella sua peculiare prospettiva.

 La dissociazione, paradossalmente, avrebbe dunque, l’obiettivo di mantenere il sentimento di continuità interna, evitando la dissoluzione traumatica del sentimento di sé e dell’identità. La dissociazione, credo, debba essere pensata come un processo inconscio che dà forma al funzionamento psichico del soggetto creando discontinuità nell’esperienza soggettiva (Bastianini 2003). Le esperienze psichiche dissociate, pur sottraendo soggettivazione (alienando/separando settorialmente il sé) al contempo, ne strutturano le modalità di espressione psichica attraverso un funzionamento che talora può presentarsi attraverso le modalità del falso sé. In altri termini, tali ipotesi, fanno riferimento a relazioni in cui il soggetto ha appreso le logiche dell’essere in rapporto (Bollas, 1987) adattandosi alle richieste implicita dell’ambiente di rinunciare al proprio sentire soggettivo, alla propria prospettiva psichica sull’esperienza, di non poter essere visti nel proprio idioma (Winnicott, 1957). L’interiorizzazione di tale modalità di essere in relazione, configura una condizione sul piano interno, non solo di ospitare un elemento inaccettabile di sé, ma, in una diversa metafora, una “negativizzazione del proprio sentire”, di ospitare un oggetto interno che non vede (Green). Oggetto, che per tali motivi non può essere allora utilizzato per favorire l’integrazione e l’elaborazione di significative esperienze emozionali.  

Chi ha letto questo articolo ha anche letto…

Un processo di simbolizzazione ‘in diretta’ di D. Scotto di Fasano

Leggi tutto

Il perturbante nella clinica contemporanea V. De Micco

Leggi tutto