La Cura

Psicoanalisi e Disabilità: l’intervento precoce. A cura di G. Gentile

25/02/22
Psicoanalisi e Disabilità: l'intervento precoce G. Gentile

Su gentile concessione dell’illustratrice Chiara Attorre (LAIT NOIR)

Parole chiave:trauma, disabilità, psicoanalisi infantile

PSICOANALISI E DISABILITA’: L’INTERVENTO PRECOCE

a cura di Gabriella Gentile

“Ai disabili che lottano non per diventare normali ma se stessi”

G. Pontiggia

La Convenzione Onu sui Diritti  delle Persone con Disabilità (ratificata dall’Italia con la Legge 18/09) attribuisce la tutela e la garanzia dei diritti umani delle persone con disabilità agli StatI intervenendo dove non vi siano condizioni necessarie a tutelarli, offrendo risorse, servizi e strutture per evitare che siano isolati.

Sostituisce il concetto di integrazione, che etimologicamente vuol dire  rendere completo, aggiungere qualcosa in modo da rendere intero, al fine di eliminare le differenze che distinguono le persone disabili dalle abili, negando quello con cui spesso dobbiamo convivere:  l’inguaribilità.

Viene inserito, grazie al sociologo tedesco Jurgen Habermas (1966), il concetto di inclusione che non prevede processi di assimilazione ma auspica un’apertura della società verso la diversità   legittimandola.

Ricordando che anche i disabili furono vittime dell’olocausto  Marc-Alain Ouaknin evidenzia che il termine shoah designa in ebraico  anche “ogni situazione di indistinzione dove gli uomini non accedono più alla loro singolarità” quando l’alterità è soppressa ed è abolita la diversità.

Eppure, nonostante gli accorgimenti lessicali e leggi sempre più all’avanguardia, è evidente lo scarto tra i discorsi manifesti, gli atteggiamenti perbenisti,  e le realtà con le quali di fatto quotidianamente si scontrano le famiglie.

Ho iniziato il mio training formativo sulla psicoterapia infantile ad orientamento dinamico mentre lavoravo in un servizio per minori. Ero giovane e mai avrei pensato di trovare nell’entroterra bambini con deficit cognitivi fatti crescere nelle stalle insieme agli animali, o nei casi più fortunati, isolati nelle loro case in stanze attrezzate per l’isolamento come fosse un carcere  di grande sicurezza.

Mi è stato poi affidato il reparto gravi dell’infanzia e dell’adolescenza. Ho fatto analisi  anche a 5 sedute settimanali con disabili fisici e mentali, le cui difficoltà sono chiaramente  molto diverse. E li tratto da sempre, consapevole dell’enorme complessità di tali problematiche  soprattutto nelle disabilità intellettive gravi, e questo articolo ha il solo scopo di permettere un confronto in un ambito così poco affrontato.

La psicoanalisi  ha inizialmente ritenuti inanalizzabili i soggetti in cui il fattore biologico interferiva con il processo psichico o soggetti con una prestazione intellettiva inferiore alla norma perché incapaci di lavoro psichico.  “Al di sotto di un certo livello d’intelligenza, il metodo non è applicabile, e qualsiasi elemento di debilità mentale lo rende estremamente difficile” Freud  (1892). Ma già Ferenczi ( 1931) offre il primo  capovolgimento di prospettiva ipotizzando che non è il paziente ad essere inanalizzabile  ma è il metodo psicoanalitico che è da rivedere.

Oggi  infatti la psicoanalisi  ha allargato i suoi orizzonti, tratta i bambini, gli psicotici, patologie psichiatriche grazie a  nuovi concetti come contenimento , reverie, funzione alpha , , teoria della mente e capacità riflessiva. . E tanti altri ancora .

Ma nonostante  vari colleghi lavorino anche con le disabilità, difficilmente ne parlano, come fossero analisi  dei “Figli di un Dio minore “.

Così come le nevrosi permisero di comprendere il funzionamento normale della mente, anche la disabilità offre una finestra  aperta  sul primordiale, sul passaggio dall’inumano all’umano e sul lungo e faticoso processo di soggettivazione.

Le neuroscienze hanno confermato la plasticità cerebrale e il Nobel Kandell (2007) ha dimostrato come l’esperienza lascia una traccia strutturale e funzionale nella rete neuronale e lo stesso genoma non è una struttura fissa ,ma interagisce con l’ambiente attraverso variazioni nella struttura della cromatina che a sua volta comporta effetti di natura strutturale.

Anche la  capacità cognitiva di rappresentazione dei propri e degli altrui stati mentali , sembra essere una capacità innata dell’essere umano ,indipendente dal livello intellettivo ma influenzato dal contesto  relazionale e culturale. E Main (1991) e Fonagy (1993) hanno evidenziato  la relazione tra lo sviluppo della capacità di rappresentazione degli stati mentali con la qualità del rapporto di attaccamento con i caregivers.

La Sinason (2018)  conferma  che talvolta il ritardo non è a carico della patologia organica ma conseguenza del comprendere l’angoscia che causa nell’adulto e temendo un’azione di rifiuto si affanna a mimare una spensieratezza ed una inconsapevolezza maggiore. Spesso infatti troviamo nei disabili la strutturazione di quello che Winnicott (1974) chiama falso sé, cioè un’identità basata sull’accondiscendenza ai bisogni degli altri e ai desideri altrui, con un conseguente senso di inutilità e non esistenza.

Ma come e quando inizia la soggettività dell’essere umano? La soggettività si genera nella relazione con l’Altro. Il piccolo dipende totalmente dall’adulto, vive dell’amore e delle attenzioni che l’adulto gli offre. Si nutre del desiderio materno.

Infatti l’apporto della psicoanalisi  prende avvio già all’inizio dell’avventura umana, già nel desiderio genitoriale. Come ci dice la Aulagnier (1986)  la storia  di un neonato non inizia con lui ma ”lo precede e questa antecedenza è fortemente determinante per quello che sarà il suo divenire. Ogni soggetto viene a prendere posto in un mito familiare”.

E aggiunge la Mannoni  (1982)“Quale che sia la madre, la nascita di un figlio non corrisponde mai del tutto a quello che essa si aspetta. Dopo la prova della gravidanza e del parto, dovrebbe arrivare il compenso, che farebbe di lei una madre felice…sono proprio i fantasmi materni a orientare il bambino verso il suo destino…nel caso in cui è in gioco un fattore organico, il bambino non ha da far fronte soltanto ad una difficoltà congenita, ma anche al modo in cui la madre elabora questa menomazione in un modo fantasmatico che finirà per essere comune ad entrambi”.

Che succede quando il figlio tanto atteso ha una disabilità? La vita di tutta la famiglia, fino a quel momento piena di aspettative e aperta verso il futuro si tinge di nero. La nascita coincide con la tragedia e il trauma si riattiva ogni giorno, ad ogni visita ad ogni incontro  con l’esterno : vi è una continua reiterazione del trauma.

Accogliere l’angoscia genitoriale vuol dire allora(come suggeriscono Solnit e Stark  1997) aiutarli in una  vera e propria elaborazione  del trauma e del lutto.

Solo questo lavoro preparatorio permetterà un passaggio psicologico fondamentale nella costruzione di una identità. Winnicott  ( 1974) infatti sostiene che il passaggio dallo stato simbiotico e dalla dipendenza assoluta del bimbo ad un primordiale riconoscimento di sè ,passa attraverso l’offrirsi della madre come specchio ,rimandando al bimbo, attraverso uno sguardo amorevole, una buona immagine di sé, riportandoci alla mente lo stadio dello specchio lacaniano che nel disabile è uno specchio rotto che ferma il tempo, che spinge il disabile, a riproporre la situazione della nascita. Non è il solito specchio, che rimanda l’immagine desiderata , non è uno specchio che conferma. Un bambino rappresenta per i suoi genitori, un luogo di rifugio del loro narcisismo infantile, incaricato di riparare tutte le ferite e di colmare tutte le mancanze. Egli è al contempo  il bambino che sono stati, il bambino meraviglioso che avrebbero desiderato essere, il bambino che hanno sognato di avere dei propri genitori. Con l’accesso alla genitorialità il genitore fa il lutto della propria infanzia e regola un debito con le generazioni precedenti. La disabilità impedisce di saldare questo debito.

Inoltre l’ apparizione del disabile disturba il normale. E’  l’incontro con il perturbante che angoscia, con qualcosa di vulnerabile e fragile, un immagine che inquieta e spaventa perché ci ricorda ciò che ci è familiare ma negato: la fragilità umana. Elliott  scrive“ il genere umano non può sopportare troppa realtà” (Quattro Quartetti ,1936-1942)

A fronte di tutto ciò è  fondamentale i intervenire in una fase precoce sia con le famiglie sia per sostenere nell’attesa il bambino ed offrirgli la possibilità di essere visto per quello che è. Perché all’eventuale lesione cerebrale non si sommi l’eventuale lesione del rapporto con l’Altro.

Lavorando con le famiglie dei disabili ho imparato tantissimo.  Ho ricordi vivi di occhi smarriti, sguardi sfuggenti per colpa, e paura del giudizio. Solo quando ho aperto il mio cuore  all’ingiustizia della vita, al dolore di vedere un figlio soffrire ogni giorno e forse per sempre, ho incontrato i loro occhi. Ma non è bastato. Sono discesa negli Inferi con loro lasciandomi talvolta  coinvolgere anche inazioni concrete. Massimo Vigna-Taglianti (1999)  sottolinea la necessità  talvolta di non offrire interpretazioni ma interpret-azioni ovvero azioni che interpretano ,rappresentando i fenomeni preverbali. E’ stata un’esperienza terribile, che mi ha permesso di capire profondamente l’angoscia dei genitori e quanto fosse difficile restituire una tranquillità ed elaborare quel terrore  che il bimbo trasmette.  Ho raccolto fiumi di lacrime talvolta spaventata di potervi annegare. Ma questo  spesso ha permesso loro  di offrirmi pensieri ritenuti  indicibili e inqualificabili come pensare la morte del figlio un regalo che la vita pietosamente potesse offrirgli.

Con le famiglie la mancata  elaborazione del trauma e del lutto, cristallizza l’accudimento rendendolo eterno. Per la madre è come se la gestazione del figlio non finisse mai; per cui quest’ultimo rimane dipendente da lei negandogli la possibilità di diventare autonomo, incapace di evolvere se non in aree parcellizzate ,per riabilitare spesso in modo addestrativo, dimentichi dell’essere umano, proiettando  l’immagine falsa e stereotipata dell”eterno bambino , fortunato perché non costretto a subire il passare del tempo o “risparmiato dalla sofferenza che solo la consapevolezza può dare.” (Lolli 2009)

Andrea, fu portato da me perché si rifiutava di fare riabilitazione, per 10 ore al giorno,  trascinando pesi. L’ho immaginato  come un piccolo Atlante costretto a portare il peso della sua disabilità e quello dell’onnipotenza altrui. Quando l’ho incontrato  la prima volta si è buttato sul tappeto e urlava “non sono un animale, sono un bambino e voglio giocare” e sono stati il gioco e il desiderio di socialità a riavvicinarlo alla riabilitazione come mezzo per raggiungere ciò che desiderava e non fine a se stessa .Infatti Il rischio implicito  è che qualunque atto prodotto dalla persona disabile venga considerato come conseguenza della patologia e non come tentativo  di una volontà, di un desiderio, di un messaggio rivolto all’altro.

La condivisione, il rispetto autentico e profondo, la reverie , ,possono promuovere con le famiglie, una esperienza viva di contenimento e di pensabilità, e aprire le porte ad interventi non solo riabilitativi ma anche clinici.

Ma di che clinica parliamo?

Come scrive Simone Kroff-Sausse  (2017) è una clinica dell’estremo, un intervento di frontiera, con poca letteratura senza una pratica consolidata:  “che ci conduce ai confini: di ciò che è pensabile; di ciò che è simbolizzabile o soggettivabile; di ciò che è condivisibile ; ai confini dell’umano

Mi sono molto ritrovata in ciò che scrive De M’Uzan (2008)  “E’ necessario che paziente ed analista possano essere sufficientemente folli per fare di quest’ora un momento di vita e lottare contro l’andare a pezzi del pensiero”.

Ogden (2016) racconta l’incontro toccante con un paziente affetto da paralisi cerebrale  ed il suo lungo lavoro di accettazione di quello che il paziente era. Un giorno il paziente porta un sogno “Ero me stesso con la mia paralisi cerebrale”. , come “avesse sperimentato  una forma dell’essere amati che sentiva vera anche se urlava di dolore e lacrime, saliva e muco correva sul suo volto largo e paralitico” concludendo” Il mio ruolo di analista è aiutare il paziente a maturare, nei modi che permettono di includere al meglio nella propria esperienza le realtà della sua vita emotiva”

Nella mia esperienza chi lavora con il disabile deve supporre una soggettività magari rudimentale  o appena abbozzata. Come ogni madre, grazie alla preoccupazione materna primaria interpreta ogni gesto come dotato di senso, ed ogni pianto come una richiesta indirizzata a lei causato da quello che Freud chiama l’urgenza del vivere.

E deve rispondere a delle richieste: i disabili ci chiedono se siamo  disposti ad andargli incontro  e accettare la comunicazione attraverso ogni linguaggio soprattutto non verbale. Se saremo capaci di tutelare la loro intimità, di riflettere un’immagine reale , di mediare tra il loro mondo e il mondo degli altri. Se sapremo sostare nel vuoto e aspettare i tempi spesso lenti e laboriosi dei loro progressi.

Nei disabili come in tutti c’è una persona che sta lottando per nascere come soggetto. Ogni essere umano ha qualcosa da dire e lo psicanalista ha sempre qualcosa da ascoltare . Ma proprio attraverso le parole si pone la questione dell’identità: si tratta di avere una disabilità o d’essere un disabile?

Bisogna non sostituire al termine  persona ,disabile, lottando per tenere in gioco la relazione qualunque essa sia, cercando un difficile equilibrio  tra la negazione della disabilità e il rispetto dell’illusione necessaria ogni essere umano.

Come mi ha insegnato  una piccola bimba cieca: dopo pochi incontri già sapeva muoversi nella stanza senza quasi nessun aiuto solo talvolta la mia voce ma raggiuntami si accoccolava in grembo  e scopriva e scolpiva con le sue piccole  dita il mio volto. Un giorno indelebile nella mia mente mi dice che ha sognato. Come? Penso dentro di me? Suoni, immagini “ ho sognato i colori”dice. E in quel momento ho capito che il mio lavoro con i disabili avrebbe avuto il fine di scoprire i colori interni di ognuno di loro. Ora ero certa ci fossero.

La psicoanalisi oggi ci offre molti strumenti che aiutano il lavoro clinico con i  disabili, ne accennerò solo alcuni:

Il setting : comprenderà anche la presa in carico della famiglia e spesso degli operatori coinvolti, ma soprattutto uno spazio  individuale libero; che romperà con la sua ritmicità lo sfuggire al tempo  tipico della vita del disabile, che coincide con l’arresto del ciclo delle trasformazioni. Si può pensare in uno spazio e in un tempo grazie al setting. Non accettando  mai che il disabile venga collocato sullo sfondo , rappresentato da qualcuno o meglio con qualcuno che prende il suo posto. Infatti Bion afferma che la verità di una mente sull’altra mente è sempre -K perché la verità è qualcosa che nasce dall’incontro e va costruita insieme.

-Il transfert: un fenomeno psichico presente  in ogni relazione umana soprattutto d’aiuto. Grazie al transfert il vissuto attuale viene ricondotto all’originale e la storia del disabile si origina di nuovo. Shore sottolinea l’esigenza di una conversazione tra sistemi limbici tra paziente e analista nella misura in cui si afferma che è l’affetto, e non i contenuti, ad avere un potere trasformativo, Questa affermazione conferma che il processo di guarigione, che si svolge tra paziente e analista, è prevalentemente inconscio.

-Identificazione proiettiva: ormai considerata come una modalità di comunicazione inconscia, molto frequente con i disabili, che fanno vivere esattamente come si sentono, non avendo spesso altri mezzi.

Per Bion (1970)l’analista si propone come contenitore all’interno del quale potranno essere accolti gli elementi proiettati dal bambino affinchè possa trasformarli, disintossicarli, rielaborarli e infine restituirli. Ma se la madre e l’ambiente non contengono il terrore senza nome che angoscia il bimbo aumenta l’identificazione proiettiva (modalità psicologica universale di comunicazione inconscia) fino a quando l’impoverimento del sé e il mondo è diventa abitato da oggetti bizzarri.

-Il corpo e la comunicazione non verbale

Il corpo dei disabili è spesso un è un corpo  non integro foriero di grandi sofferenze. Ma anche un corpo violato, manipolato ,  senza intimità tanto da non appartenergli più. La comunicazione non verbale è invece solitamente ricca, rispetto al mondo che appare bidimensionale. Le emozioni si esprimono nel l’agitazione psicomotoria, nel rossore,  negli sguardi talvolta sfuggenti talvolta taglienti ,nei piedi che non stanno fermi , nelle mani che sembrano cercare nel vuoto. E nel silenzio i corpi parlano e chiedono prepotentemente di essere ascoltati e intepretati.

Così il bambino di tre anni reduce da un anno di controlli e visite  per un presunto autismo,che non parlava, entrato nella stanza , mi guarda ripetutamente dalla testa ai piedi rimanendo stupito del vedermi senza camice, e anche della stanza colorata . Ma appena mi muovo per andargli incontro si allontana ed alza la maglietta mentre dai suoi occhi inizaino a scendere lacrime grandi quasi come il suo viso. Sarò immobile per sei mesi prima che ,girando in cerchi concentrici sempre più piccoli, possa avvicinarsi.

L’analista si fa usare, aspetta che compaiano barlumi di sé,  che nasca un desiderio. Grazie ad un ascolto profondo, volto sia all’esterno che all’interno, di ogni piccolo sussulto emotivo, di una prima richiesta,  di un piccolo spiraglio sul mondo interno ,delle “micortrasformazioni che avvengono in seduta …cogliendo l’emozione del momento” (Ferro 2009)

“…perché l‟analista faccia tutto ciò, deve prima di tutto dare credito al paziente… e lo manifesta con la disponibilità a lasciarsi penetrare e ingravidare dal dolore del paziente; ed è di siffatta stoffa la “lealtà psichica” di cui questo tipo di paziente ha bisogno.” (Borgogno 2012)

A conclusione vorrei dare la parola ad un disabile “ Ci sono uomini con una disabilità evidente in mezzo a tanti uomini con disabilità che non si vedono” (Ezio Bosso)

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