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Frontiere della Psicoanalisi 1/2020 Recensione di S. Vecchio

3/06/21
Frontiere della Psicoanalisi 1/2020. Recensione di S. Vecchio

“Frontiere della psicoanalisi” 

IRRUZIONI/EVENTO, TRAUMA, STORIA 

(Ed. Il Mulino, 2020)

Recensione a cura di Sisto Vecchio

 

Frontiere della psicoanalisi è il nome della rivista semestrale diretta da Maurizio Balsamo e Massimo Recalcati edita dal Mulino di cui è disponibile, ormai da qualche mese, il fascicolo n°1 che ha come tema Irruzioni / Evento, trauma, storia.

Prima di dare uno sguardo ai vari contributi che compongono questo primo numero, mi è parso prioritario soffermarmi sul progetto editoriale e le sue motivazioni così come sono espresse nella Presentazione dai due direttori.

«Questa rivista», si legge, «vuole offrire il proprio contributo affinché la psicoanalisi resti un interlocutore importante per il dibattito culturale, clinico e politico del nostro tempo». «In un mondo sempre più orientato verso il numero e la quantificazione, la medicalizzazione estrema della vita, gli algoritmi, le scale di valutazione e la cancellazione del pensiero critico, quale ruolo possono ancora avere la psicoanalisi e le scienze umane nella costruzione di un sapere capace di dire e di custodire l’enigma della singolarità? Avvertiamo un’urgenza: quella di contribuire a far vivere la psicoanalisi nel nuovo secolo, permettendole di essere una significativa interprete del suo tempo».

Al cuore della proposta v’è, quindi, la necessità di rendere attuale la psicoanalisi in quanto pratica «rivolta alla dimensione singolare della vita umana» in un tempo in cui la specializzazione esasperata dei saperi, la confusione mediatica, la cancellazione della storicità, rischiano di cancellare la sostanza stessa della formazione culturale.

Al centro del progetto editoriale vi è la preoccupazione relativa a quanto oggi da più parti minaccia la nostra pratica ma che tocca, per dirlo con le parole di Rovatti,  «l’orizzonte complessivo delle condizioni nelle quali oggi è possibile pensare, qualunque sia la cornice di pensiero in cui ci troviamo o riteniamo di collocarci» (Rovatti, 1994). «Far vivere la psicoanalisi», scrivono i direttori, «è mantenere la sua capacità di essere interprete del presente», superando le tendenze di pattern culturali e forme di pensiero sempre più ispirati a modelli positivisti che tendono «alla cancellazione del pensiero critico». Sono derive queste che troviamo alla base delle varie forme di malessere che alimentano neo-creazioni barbariche e che già Derrida ascriveva a «pratiche che sembrano ancora dominate da una certa logica, vale a dire da una certa metafisica onto-teologica», trasversali nel panorama culturale sempre più mondializzato, che non risparmiano i saperi cosiddetti umanistici, e tra di essi la stessa psicoanalisi. Esempio evidente è il prevalere di modelli riduttivi bio-medici che la società promuove nel settore della salute pubblica, per non parlare della scuola, sempre più burocratizzata, dove la forbice tra educare e istruire è sempre più ampia, piegata a fornire nozioni e competenze prêt-à-porter.

È questa la vera pandemia silenziosa che pervicacemente rischia di contagiare le nostre pratiche schiacciandole su un orizzonte fattuale, concreto, svincolato da ogni sguardo volto alla storia, al divenire. Mantenere viva la psicoanalisi è allora, contro ogni tendenza autoimmunitaria, farsi carico del compito ereditato da Freud di continuare a praticare quella frontiera epistemologica «di un sapere capace di dire e di custodire l’enigma della singolarità» irriducibile ad ogni pretesa/tentazione di professionalizzazione, come scrive Laurence Kahn.

A questo progetto sono convocate le discipline umanistiche e le varie realtà del campo analitico invitate a partecipare ad un dialogo con lo sguardo rivolto all’altrove del proprio monolinguismo. È una proposta epistemologica forte che fa della frontiera il luogo di transiti, di incontri, la soglia di possibili nuove prospettive originali, di nuove germinazioni di idee. Un laboratorio che fa delle frontiere il luogo in cui parlare con l’estraneo/familiare rappresenta la possibilità di guadagnare nuove terre alla propria pensabilità; un laboratorio, infine, che sa guardare oltre la cosiddetta interdisciplinarità, ancora fortemente in debito di una visione anatomica dei saperi specialistici, in cui, nell’attraversamento dei propri linguaggi, delle proprie narrazioni, ogni disciplina si lascia interrogare sulle superstizioni totalizzanti dei propri paradigmi per far emergere il sogno di un paradigma perduto, la trama transdisciplinare su cui si ritaglia l’incompiuto di ogni disciplina, la sua storicità, il suo essere in transito, in un movimento che fa del soggetto che racconta un luogo di instabilità, e di ogni strutturale differire la riproposizione di una domanda infinita, la condizione stessa di una soggettività incarnata nel transito della vita, nella consapevolezza che l’umanità prende vita su molteplici bordi e frontiere.

«Far vivere la psicoanalisi nel nuovo secolo, permettendole di essere una significativa interprete del suo tempo» implica, allora, un doppio movimento distanziante: dall’infodemia frammentante e confusiva della contemporaneità, e dalla tentazione feticizzante delle proprie teorie, nella consapevolezza che, da una parte,  «la nostra relazione con il sociale è più profonda di ogni percezione espressa o di ogni giudizio», (Merlau-Ponty), e, dall’altra, della strutturale incompiutezza di ogni dispositivo teorico alla prova dell’enigma del transfert, tratto identificante dell’ascolto analitico della dimensione singolare della vita umana.

Singolarità del soggetto, diritto di ogni individuo alla propria singolarità contro ogni interdizione a pensare, è, come sappiamo, al cuore stesso della pratica psicoanalitica, e, insieme, la condizione  di uno spazio in cui solo può emergere una soggettività creativamente critica, capace di praticare, cioè, quell’esercizio incommensurabile del giudizio.

È questo diritto ad una soggettività critica, una riflessività incarnata nella propria storia, quale condizione per realizzare la diversità di ciascuno sottolineandone al tempo stesso la relazionalità strutturale, che i due direttori mettono al centro del manifesto di questo progetto culturale.

Questa scena della conoscenza trova una sua traduzione in qualche modo esemplare nella composizione e articolazione delle varie sezioni di questo primo fascicolo, a partire dal trauma, inteso come ogni nuovo evento, ogni presente, si configura come l’impossibile nell’orizzonte di attesa.

Irruzioni/evento, trauma, storia, indicano, quindi, i luoghi di una geometria plastica, multidimensionale, non lineare, reticolare, della scena della conoscenza; conoscenza che, nelle parole di Peirce, «non è mai assoluta, ma ondeggia per così dire, in un continuum di incertezza e indeterminatezza». In questa scena la soggettività è il luogo di transiti molteplici che solo in un secondo tempo, in après coup, possono essere appropriati dalla capacità riflessiva.

Come scrive puntualmente nel suo contributo Fiamma Vassallo, quasi una sorta di postfazione, il tema di questo numero si è imposto perché «sentito come inevitabile rispetto all’irruzione di un presente – quello della pandemia». Dunque l’attualità, il presente; un evento con la sua carica traumatica, di spaesamento, è all’origine del bisogno urgente di costruire lo «spazio di una messa in forma, di una rappresentazione» che contenga lo smarrimento, le angosce, «i vacillamenti identitari» che l’irruzione di questo reale imprevisto ha determinato. «Primo punto di ancoraggio al discorso sull’evento è quindi il vertice del trauma. L’evento è trauma, nella misura in cui colpisce il soggetto – la collettività – infrangendone la barriera antistimolo, ovvero nella misura di una eccedenza (Freud insisterà sempre sull’aspetto economico del traumatico, nella metafora della serie complementare), rispetto alla possibilità di una appropriazione simbolizzante. Si potrebbe arrivare a considerare che ogni nuovo evento, ogni presente sia, ipso facto, traumatico, dal momento in cui non si disponga, per esso, di una forma precostituita di arginamento simbolico, non sia cioè già visto o già conosciuto, non sia nell’ordine di una ripetizione»

Il problema che viene posto è quindi come pensare l’attuale, il presente. La riflessione sulla pandemia mostra bene la dimensione processuale del pensiero dal punto di vista psicoanalitico evidenziando la complessa stratificazione di ciò che viviamo come attualità. In questa situazione traumatica, un troppo di realtà non elaborato buca lo schermo protettivo e lacera la pellicola di celluloide trasparente, il sistema PC, per usare la metafora del Notes magico, disarticola la topologia dell’apparato psichico che collassa in una sorta di ripiegamento/sconfinamento tra dentro e fuori che mette fuori gioco il sistema rappresentativo. L’Io è messo a nudo nella sua fragilità, perde le sue protesi. Il fuori e il dentro fanno massa, si agglutinano in una sorta di complesso percettivo non elaborabile. Nello spaesamento che ne deriva si attualizza nei modi diversi in cui si è trascritto, depositato, nella storia individuale il trauma della rottura dell’illusione di una continuità sostanziale tra lo spazio psichico e la realtà,  trascrizione inconscia della relazione dell’infans con la madre-ambiente. Il soggetto è agito dall’irruzione violenta di una realtà in cui si attualizzano i fantasmi inconsci dell’impotenza originaria. L’angoscia invade lo spazio dell’Io mettendo fuori gioco quel lavoro di slegamento e di rilegame necessario alla capacità di modulare in accordo con il principio di realtà la funzione rappresentativa per dar senso a ciò che si attualizza nel fattuale, nel manifesto.

Il riferimento alla pandemia consente di mettere a fuoco in modo emblematico una serie di problemi che riguardano la possibilità di pensare il presente, l’attuale, di oggettivarne l’esperienza; in breve, di mettere a fuoco il tema della soggettività, di una soggettività che emerge incarnandosi in un continuo lavoro di trascrizione, elaborazione «fra due sistemi separati, ma fra loro interconnessi» (Feud, 1924) in cui è proprio l’attualizzazione delle dinamiche inconsce che fornisce l’ancoraggio necessario all’esperienza vissuta.

Il focus riguarda più in generale le condizioni in cui emerge il bisogno di pensare e traduce nella sua articolazione la complessità del paradigma freudiano: un pensiero processuale espressione di un lavoro a cui l’uomo è spinto dalla necessità, anankè, nella duplice forma di realtà esterna e di inflessibilità pulsionale. È il tema complesso del divenire consapevoli del doppio limite (interno ed esterno) entro cui la soggettività emerge come necessità di dar senso a tutte le dimensioni dell’Anankè, elaborarne gli effetti traumatici e attingere a quelle forme di pensiero che caratterizzano livelli diversi di consapevolezza dell’Io che, solo, può orientare creativamente il nostro modo di essere al mondo e, al tempo stesso, garantire la singolarità, l’unicità di ogni trascrizione autobiografica dell’esperienza.

Nella costruzione freudiana, la soggettività, com’è noto, si manifesta topicamente a livello conscio, su quella linea di frontiera impermanente, transizionale, tra la realtà esterna e i destini delle pulsioni. L’attività inconscia, nella sua conflittualità, nelle sue trascrizioni, stratificazioni, identificazioni, ci appare quindi come la sola garanzia di una vera soggettivazione, del diritto a pensare creativamente l’intreccio relazionale in cui prende forma, si incarna, la propria presenza nel mondo, «l’irreversibilità singolare della (propria) soggettività» (Rolland).

È questa la frontiera epistemologica irrinunciabile su cui si colloca la pratica analitica; è su questo fronte senza alibi che si gioca la sua potenzialità di continuare a portare la peste là dove il potere invisibile , l’ombra parlata dei vari dispositivi culturali transoggettivi, con la loro potenzialità alienante, massificante, rischiano di produrre forme seduttive di soggettività senza centro, apatiche, figure spettrali di un piccolo narcisismo disperse, dislocate in un fare affannato, individualistico, alla ricerca dell’effimero miraggio quotidiano di una vita senza dolore. Forme di soggettività melanconiche che sotterraneamente alimentano abiti psicofobici, pattern operatori-concreti, normopatici, che rendono quanto mai attuale quanto Freud già scriveva ne L’Uomo Mosé: «L’epoca in cui viviamo è davvero singolare. Ci rendiamo conto con sorpresa che il progresso ha stretto alleanza con la barbarie».

Ecco l’altra pandemia, più silenziosa e profonda, che attraversa il nostro presente di cui la psicoanalisi non può rinunciare a denunciare la distruttività che insiste nello sbiancamento di una soggettività recisa dalla storia, e da quel nucleo passionale identitario che continua ad alimentare la capacità di interpretare creativamente il mondo in cui viviamo.

Giunto a questo punto, non mi resta lo spazio per soffermarmi puntualmente sui vari contributi che arricchiscono questo primo numero, per cui accennerò brevemente solo ad alcuni di essi, scusandomi con gli altri e lasciando al  lettore il piacere di una lettura certo complessa ma sempre feconda di nuove e inaspettate aperture di senso.

Il pensiero clinico del trauma, la sua elaborazione è al centro de Il negativo del trauma, il lavoro di Maurizio Balsamo che apre la sezione de Il campo analitico. Un lavoro, com’è nel suo stile, complesso, insistito, serrato nella sua argomentazione volta a proporre un vertice che lascia intravedere nel ripepetersi della ripetizione non il segno destinale di una coazione del traumatico, ma la possibilità di trovare nell’ascolto dell’analista una dimensione trasformativa, un fare il passato che apre lo spazio a nuovi legami, a nuove forme di pensabilità soggettivabili.

Con altre argomentazioni e in pratiche diverse questa possibilità trasformativa del trauma viene riproposta nel saggio di Nelson Ernesto Coelho Junior, Eugênio Canesin Dal Molin e Renata Udler Cromberg mentre Francesco Giglio riprende il trauma della nascita e dell’inscrizione nel linguaggio nella sua doppia valenza tra chiusura ed apertura necessaria ad avere un mondo in figura.

Recalcati, a partire dalla pittura di Parmeggiani, rintraccia una possibilità elaborativa della distruttività del trauma  a partire dalle tracce, da ciò che resta trasfigurato creativamente in una poetica singolare,  divenendo il nucleo idiomatico di un lavoro di sublimazione continuamente ritradotto nella sua pittura.

Aldo Rovatti si concentra sull’inseparabilità fenomenologica fra distanza e prossimità, tema quanto mai attuale nel tempo della pandemia.

Notevoli sono i saggi di Reinhardt e, come sempre, quello di Didi-Huberman che apre la sezione Esplorazioni.

In Bottiroli, si fa strada la preoccupazione per la scomparsa della storia

La peste e l’ordine del discorso nel Decameron, è il ricco saggio di Marco Pacioni che evidenzia, tra l’altro, come Boccaccio si concentra sui diversi effetti psicologici e sociali della peste.

Mentre mi appresto a chiudere queste note, mi giunge l’indice del nuovo numero: La scomparsa della storia?  Una promessa che certo continuerà a scuoterci dalla pigrizia, dall’inerzia a pensare!

 

 

Bibbliografia:

J. Derrida, Résistances de la psychanalyse, Éditions Galilée, Paris, 1996

J. Derrida, Stati d’animo della psicoanalisi, Edizioni ETS, Pisa, 2013

C. Di Martino, Figure dell’evento, Guerini ed. Milano, 2009

S. Freud, Nota sul “notes magico”. (1925), OSF. V.10

S. Freud,L’uomo Mosè e la religione monoteistica: tre saggi. (1937-38), OSF, V.11

L. Kahn, Fiction et vérité freudiennes, Editions Bolland, Paris, 2004

M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano, 2003

C. S. Peirce, Opere, Bompiani, Milano, 2011

J. C. Rolland, UN RÊVE DE PETIT PAN, in F. Gantheret et J.B. Pontalis, Parler avec l’étranger, Gallimard, Paris, 2003

P.A. Rovatti, Introduzione a J. Derrida, Essere giusti con Freud, Raffaello Cortina ed. Milano, 1994

 

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