Cultura e Società

“Aree di confine” a cura di M. Francesconi e D. Scotto di Fasano. Recensione di S. Diena 

30/04/18
"Aree di confine" a cura di M. Francesconi e D. Scotto di Fasano. Recensione di S. Diena 

Aree di confine

Cosa, corpo, parole tra Filosofia e Psicoanalisi

A cura di Marco Francesconi e Dana Scotto di Fasano (Mimesis, 2018)

 Recensione di Simonetta Diena

La biblioteca dei miei genitori era molto ampia, e godeva dell’apporto di parte della biblioteca del nonno, libri rilegati in cuoio, colori diversi a seconda della nazionalità dell’autore. L’odore della carta, e del cuoio, le pagine che ancora si tagliavano col tagliacarte, attraeva una giovane affamata di quelle fughe profonde e infinite che i romanzi permettono senza sosta. Ogni giorno potevo scegliere un libro nuovo e immergermi in universi paralleli. Fughe dalla realtà, ricerche di soluzioni estetiche raffinate, passione per le trame… si può dire molte cose del perché un adolescente sprofonda nella lettura in quel modo, così totale e assoluto, che fatica a uscirne, a lasciare quel mondo per tornare alla realtà quotidiana. Adesso ho nostalgia di quegli anni, di quella libertà di tempo e di spazio che godevo senza saperlo. Leggere Guerra e pace tutto di fila, restare immersa in quell’universo senza accorgersene, questa è stata la mia fonte segreta di ispirazione negli anni successivi, la mia forza vitale. Ero onnivora, passavo da Dickens a Dostoevskij, da Virginia Wolff a Jane Austen. Mi irrobustivo nello spirito, affinavo il senso estetico, e l’indignazione etica, entravo nella tragedia con leggerezza e la co-mprendevo all’interno.

Questi ricordi mi sono tornati intensi nella loro vivacità sensoriale leggendo questo piccolo e densissimo libro, Aree di confine, a cura di Marco Francesconi e Dana Scotto di Fasano, ed. Mimesis. Sottotitolo: Cosa, corpo, parole tra filosofia e psicoanalisi.

In poche parole, tutto il mondo conoscibile. La biblioteca della mia infanzia ristretta in un piccolo volume, con a disposizione tutto lo scibile umano. L’odore del cuoio di libri letti da altri, in altre antiche librerie, passioni che sono ponti tra cose e cose, Sense and Sensibility. Gli autori sono psicoanalisti, filosofi, scrittori, traduttori, impegnati a convogliare il concetto complesso e articolato della conoscenza dell’alterità, del rapporto tra il soggetto e l’altro, del soggetto e il corpo (proprio e altrui), dello sguardo che soggettivizza e oggettivizza al tempo stesso.

Impossibile citarli tutti, anche se è un vero peccato. La sintesi complessiva del libro/libreria consiste nel rapporto che passa tra la cosa/corpo o la corporeità materiale e la parola, tra la metafora e il simbolo, tra le trasformazioni e le metamorfosi.

Citerò alcuni autori: Marco Francesconi, psicoanalista, si rifà a quanto scrive Robert Musil nel L’uomo senza qualità, quando alludendo all’inimmaginabile, suggerisce che questo può fare nascere “granellini di fantasia dolce sognante”, ovvero pensieri che si sono fatti da soli, senza aspettare il loro pensatore. La consapevolezza del pensiero, come atto cognitivo, la pulsione a conoscere, la passione stessa per questa attività della conoscenza, quasi insopprimibile nella psiche, ci portano a riflettere sulla natura inconscia e conscia del pensiero e sulle sue connessioni con la funzione creativa della mente. Perché le due azioni, pensare e funzione creativa della mente non necessariamente coincidono. Francesconi per spiegare questo complesso processo si rifà a Wittgestein, che parla nel Tractatus di vedere come, ovvero vedere qualcosa come qualcos’altro. I processi continui di trasformazione da una realtà psichica, vista con gli occhi interni, a una realtà fattuale, comunicabile agli occhi degli altri, sono all’origine di numerose riflessioni contenute in questo libro. In questa biblioteca prendo un altro lavoro, di Silvana Borutti, filosofa, che parla del processo che intercorre dalla rappresentazione alla metafora, ovvero: “la trasformazione simbolica attraverso cui si realizza ogni umana produzione di senso”. “Si può pensare la rappresentazione non come una trascrizione intellettuale del mondo, ma come una funzione autonoma del pensiero?”, si chiede l’autrice? E rifacendosi a Kant ricorda la differenza tra la Vorstellung, la rappresentazione per eccellenza, del pensiero, cognitiva, e la Darstellung, la esposizione, letteralmente, ma anche presentazione, mediazione figurale di qualcosa che riguarda l’esperienza dei sensi, perché si espone e si mette davanti agli occhi intuitivamente l’oggetto. Anche Wittgestein, con Darstellung introduce l’elemento figurale, produttivo e poietico della rappresentazione figurale, che non si può rappresentare come cosa. La Borutti conclude il suo denso intervento citando un affresco di Caravaggio, definito riflessivo, La vocazione di San Matteo. E’ un ciclo di affreschi che amo moltissimo, geniale. Caravaggio illumina, fa cadere la luce divina della grazia, non su San Matteo che compie il miracolo, ma sul peccatore, che si trasfigura nel pentimento. Questa è la rappresentazione, in poche pennellate, di un concetto teologico e morale fondamentale. E’ l’oggetto che viene illuminato, non il soggetto che compie l’azione. Il Santo è già Santo, per Caravaggio, ha già ricevuto la grazia, ma è l’altro, l’esattore delle tasse, che la sta ricevendo nel momento dell’essere del quadro. Ecco, da cosa a cosa, da trasformazione simbolica a realtà fattuale.

Un altro libro di cuoio rosso: Goriano Rugi, psicoanalista. Il corpo di desiderio e le vie della rappresentazione. Anche qui un dipinto, L’Origine del mondo, quadro scandaloso di Courbet, appeso, si dice, nel boudoir di Lacan, per molti anni, prima di approdare al Museo d’Orsay. Perché scandalizza ancora? Che fine ha fatto la rappresentazione inconscia del desiderio? Per funzionare, il desiderio deve essere rimosso e la rappresentazione del suo oggetto camuffata. Rappresentazione e desiderio si inseguono e corrono il rischio, come suggerisce Green, di perdere nel vivo dell’esperienza la possibilità di una loro rappresentazione astratta, intellettuale. Le fonti essenziali della rappresentazione rimangono quindi la sessualità e l’amore, Eros che continuamente si sottrae a una definizione rappresentativa definitiva, un atto conoscitivo che continuamente si sottrae al suo investigatore, una Vorstellung che diventa un’immagine mentale di qualcosa che è assente. La psicoanalisi ha sempre avuto difficoltà a distinguere tra rappresentazione e simbolizzazione, eppure la simbolizzazione lavora sulla relazione tra rappresentazioni, sui legami tra un inconscio irrappresentabile e una rappresentazione di esso che ci permette di indagarlo attraverso le sue manifestazioni, tra  ciò che la rappresentazione dice e ciò che non può dire.  Citando il libro di Alessandra Lemma Sotto la pelle Rugi sottolinea come per affrontare la realtà esperienziale di essere in un corpo è sempre necessario passare attraverso il desiderio, e le componenti sensoriali e sensuali presenti nella relazione madre bambino sono essenziali per lo stabilirsi di un Sé corporeo che desidera e si sa fare desiderare. Non basta essere oggetto di desiderio (il quadro di Courbet) occorre anche essere causa di desiderio. La cosa non è la cosa  (il desiderio) e non è concepibile al di là di un rapporto con un oggetto desiderante. Il legame tra parola e oggetto quindi, implica sempre il corpo, e aggiungo io, il desiderio del legame con quel corpo e quell’oggetto.

Un altro libro, marrone, questa volta. Fausto Petrella, “Vuoto e Pieno, suono e immagini per la clinica.” Sono grata a Petrella per questo piccolo e prezioso saggio sul silenzio nella musica. Se la musica è un insieme di simboli sonori in un universo di oggetti, la percezione del silenzio, del vuoto, ne fa parte in un modo profondo e riflessivo.

Ho in mente un commento di Charles Rosen, pianista e musicologo tra i più importanti del nostro secolo, a una suonata di Beethoven. “Immaginando il suono”: “Musica inudibile può sembrare un concetto bizzarro, quasi un’insensatezza. Ma esistono dettagli musicali impossibili a udirsi, ma solo immaginabili e taluni aspetti della forma musicale non possono nemmeno essere tradotti in suoni pur facendo ricorso alla fantasia….Più di qualunque altro compositore prima di lui, Beethoven comprese il pathos insito nello scarto tra un’idea e la sua attuazione, e lo sforzo dell’ascoltatore, teso al superamento di tale difformità, assume dunque una valenza musicale.” Ancora quindi, parafrasando Rosen, possiamo pensare al continuo scarto, in analisi, tra un’idea, un pensiero, un’immagine e la sua attuazione e la necessità quindi di sforzarsi continuamente nel processo dell’ascolto per tradurre in suoni dotati di una valenza musicale i dettagli più inudibili provenienti dal paziente e dall’analista.

Anche nel suo scritto Petrella si rifà all’insopprimibile scarto tra pieno e vuoto, tra la necessità del pensare attivato dal vuoto e dal silenzio e uno stile temporale accelerato, maniacale, che evita ogni pensosità malinconica o semplicemente riflessiva. Per accogliere il suono, occorre il silenzio…..

Per finire, vorrei ringraziare i tanti traduttori che mi hanno regalato pagine di puro piacere. Massimo Bocchiola, “Tradurre come autobiografia” che introduce il concetto di come sia ben differente tradurre per se stessi o per un committente. Se traduciamo a nostro uso e consumo smettiamo di specchiarci nell’autore e ci confrontiamo con una quarta dimensione. Come si esce dal labirinto senza Arianna? Quando Pavese traduce Melville, coglie l’aspetto dell’intricato tatuaggio di Quiqueg, come un gioco a rimpiattino di parole e suoni, di vuoti e pieni, che rende splendidamente. Una rappresentazione che si trasforma in un’altra rappresentazione, dico io, entrambe gustose, saporite, in un gioco continuo di rimandi e ri-invii che implica sempre la partecipazione di un lettore attento e appassionato.

Eleonora Salvadori, che parla della difficoltà di tradurre i translingue, ovvero coloro che scrivono in un lingua differente dalla lingua madre, come Nabokov, per esempio, che descrive la perdita della propria lingua come la “propria tragedia privata”. E mi ricorda il filosofo Jean Amery, che dopo Auschwitz, rinuncia al tedesco per sempre, trasformando anche il suo nome, Hans Mayer.

E Aharon Appelfeld che ricorda come: “Ogni volta che si pronuncia una parola, si risvegliano gli echi della sua storia precedente.” La traduzione è l’incontro con un’alterità, come la relazione analitica. E’ ogni volta una sfida, una scommessa, un percorso nuovo, un ponte sospeso tra pieno e vuoto tra cosa e cosa, tra corpo e parola. E’ una libreria senza fine, un sogno ininterrotto.

 

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