Cultura e Società

“Crepitio di stelle”di J. K. Stefánsson. Recensione di D. Federici

21/12/20
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CREPITIO DI STELLE

di Jón Kalman Stefánsson

(Iperborea, 2020)

Recensione a cura di Daniela Federici

 

“La vita umana è sempre una gara contro il buio dell’universo,

in cui non abbiamo bisogno di parole per sopravvivere,

ne abbiamo bisogno per vivere.”

Stefánsson, Paradiso e Inferno

 

Crepitio di stelle è una gemma delicata e sfavillante di riflessi, nell’inconfondibile impronta immaginifica di un Autore che è nato come poeta.

Più di una vera trama, un viaggio nei ricordi sottratti alle nebbie del passato, che capitolo dopo capitolo, compongono un album di storie lungo quattro generazioni.

L’Io narrante del protagonista ritaglia scampoli di memorie: l’infanzia nel piccolo appartamento del primo piano, le botteghe di quartiere, l’amico Pétur, le angherie del bullo, la ricerca di parole per il ronzio che ha in testa.

“La notte non è sempre la stessa. A volte soffia piano in una cornamusa piena di stelle e trasforma il regno delle tenebre e della paura in una ninnananna malinconica, a volte è luminosa come il giorno, e gli spettri che si azzardano a uscire dalla terra svaniscono con un piccolo schiocco. Nei libri antichi la notte non è descritta come buio, ma come il momento in cui il sonno acquieta tutto ciò che vive, l’aria non si muove, il mormorio delle stelle si affievolisce e il mondo trattiene il respiro. Vi sta scritto che è proprio il silenzio a riempire il terreno, la dimora dei defunti, di un’inquietudine intollerabile.”

Ha 7 anni la mattina in cui una donna con lo sguardo più duro di una bestemmia improvvisamente esce dalla camera del padre e tutto piomba in un silenzio che è un oceano sterminato difficile da attraversare. La matrigna irrompe sui resti fumanti della morte della madre, scuotendo le lunghe giornate di solitudine a confidarsi con i suoi soldatini.

“A volte mi siedo lì con loro a guardare fuori. C’è un gran buio in mezzo alle stelle. Non si sa che cosa ci sia in quel buio, forse fantasmi, faccio io, e allora loro mi chiedono di tirare le tende. È inverno e durante il giorno quando le stelle spariscono il cielo si trasforma in una lastra di ferro smerigliata. La terra si indurisce con quel freddo, è dura come la pietra. Pianto i talloni nella terra, la scavo con un cucchiaio ma è completamente bloccata, nessuno può scendere, nessuno può venir fuori. Spero che non faccia troppo freddo sottoterra, dico allora ai soldatini, la mamma non ha preso il giaccone, è ancora appeso nell’armadio.”

I frammenti ricuciono la triste storia del padre, giovane muratore che si innamora di una fanciulla  ribelle e sognatrice, con la voce morbida come un ruscello e gli occhi grigi che lo spediscono alla fine del mondo. Una felicità che accorcia il respiro, una magia che lo ammala del suo scomparire.

“La solitudine lo sveglia. Non come una botta forte, semmai come una fitta improvvisa che diventa dolore non appena sale alla coscienza.”

Langue, perché l’amore fa sentire come una barchetta in mare aperto, con le onde che ti han portato via tutto: i remi, un riparo, il coraggio.

“Dimenticarla? Prova a staccare le ali a un uccello, poi mi dici come fa a volare.”

“Di che cosa sono fatti i legami che uniscono due persone, e che nel disorientamento generale sono stati definiti amore? È una domanda importante perché a volte sembra proprio che niente riesca a separare due persone, né l’implacabile inerzia della quotidianità né la forza esplosiva di un singolo istante. E lo dico da disorientato, perché sospetto che questa parolina, amore, sia sinonimo di talmente tante cose che non mi basterebbe un giorno intero per spiegarle tutte.”

Il suo volto è il cielo, un calore che rende il mondo abitabile. Ma arriva l’autunno nel corpo di sua madre, le riempie gli occhi di nebbia, le ossa come zanne: “Non andartene, le dico, lei mi accarezza i capelli e io non ho il coraggio di chiudere gli occhi.”

Lui e il padre seduti sul divano rosso come il fuoco che aveva scelto lei, fuoco che si è fatto ghiaccio, a cercare di sentire un rumore di passi che non c’è più.

“Giro a vuoto… l’assenza di mia madre mi urla addosso da ogni angolo.”

Il chiacchiericcio delle dita che parlano tra loro mentre tutti stanno seduti come pietre pesanti intorno al tavolo a bere una tazza di buio dopo l’altra.

Si inanella anche l’irrequieta storia del bisnonno, che sognava di salpare per il vasto mondo e domare gli orizzonti. Ma intanto gli anni passavano e ogni cosa restava inconclusa. Poi quella diciassettenne, bella come una rivelazione, profumata come un pendio d’erica, che aveva travolto ogni sua baldanza. Storia burrascosa, perché le maree delle sue nostalgie lo attraevano come sirene, la vertigine di lasciarsi ghermire dalla bufera, dritto nelle fauci del gioco, i debiti, le altre donne. Ogni volta tornava con la coscienza brulicante di scarafaggi neri e pieno di disprezzo per se stesso, a guardarle il disincanto negli occhi, la delusione nei gesti senza biasimo con cui lo riaccoglieva. Lei che era arrivata a sentire il sollievo quando lui se ne andava, così spaventata dai propri sogni di strappargli il cuore da gettare tutti i coltelli in mare, quel cuore palpitante come un bambino: “tu saresti un eroe in una guerra lampo, ma in una lunga un disertore.”

Vite effimere, che la voce narrante del protagonista sottrae all’erba alta dell’oblio.

“Non la capisco proprio, questa cosa del tempo. Tutto ciò che conosciamo, tante di quelle cose talmente banali che a malapena ci facciamo caso, tutto sparito.”

Sentire il tempo, come un lieve ma profondo dolore.

“L’esistenza di ciascun individuo sembra talmente dominata dal caso che un solo movimento della mano può stravolgere tutto. Ma una cosa è averne il sospetto, un’altra è trascinarlo alla superficie delle parole, perché allora è come se il terreno cedesse e si aprisse un crepaccio sotto i piedi.”

Provare a spiegarla la vita, perfino a una matrigna, per abitare il silenzio.

“Se non fosse uscita una mattina dalla camera di mio padre, la notte mi avrebbe distrutto. Lo tiro fuori adesso e poi non ne faccio più parola: se non nel chiarore pigro dell’estate, forse nel buio greve e denso dell’inverno, ma mi avrebbe completamente distrutto, malgrado il gracile eroismo dei soldatini che puntavano alla luna i loro fucili.”

Frammenti della memoria, piccoli oggetti salvati dal tempo, a ricomporre figure di senso della propria storia, per spiegare il mondo a parole.

“Bella parola, «intenzione», e fa bene pronunciarla a voce alta mentre la terra sfreccia senza sosta per tutto l’universo. È la parola più bella di una lingua, tranne forse «vieni». Intenzione, dice uno tra sé, vieni, ed è come se qualcuno ti lanciasse una corda. Mi aggrappo al suo capo immaginario e la terra continua a girare. Il cielo si fa scuro intorno a noi, è sera; s’illumina e poi diventa azzurro, è arrivato il giorno. Ma questo cielo, dimora di Dio e tetto sopra le nostre vite, non esiste da nessuna parte, se non nelle nostre teste. Il cielo è solo il termine con cui indichiamo una distanza incomprensibile – ed è lì che siamo diretti. Le stelle brillano, i cani abbaiano, io racconto questa storia; non c’è nessuna differenza. Cerchi il principio e intanto racconti una storia, forse per non pensare che non esiste nessun cielo. Nessun inizio, nessuna fine, solo un moto incessante, una distanza infinita e nient’altro.”

In un’intervista Silvia Cosimini, sensibile traduttrice di Stefánsson, ha richiamato il suo frequente uso della parola ákafi che significa slancio, fervore, ardore, entusiasmo, impegno, accanimento, zelo, veemenza.

Crepitio di stelle è un romanzo sulla passione e la memoria, pagine di poetica bellezza a narrare il quotidiano di vite comuni sullo sfondo della prima guerra mondiale, della Spagnola, del farsi delle città, dello splendore selvaggio delle lande islandesi, con le sue montagne che mandano i pensieri in caduta libera.

Leggere Stefánsson è fare un viaggio in una lingua avvolgente e suggestiva, uno stile lirico ed evocativo di un paesaggio visuale pieno di suoni, luci e ombre, di tepore trepido, un brusio di intimità che presta emozioni e snida ricordi. Che richiama al senso da dare al finito trascorrere.

 

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