Cultura e Società

“Il sonno della ragione”A cura di M. Francesconi e D. Scotto di Fasano. Recensione di D. Lisciotto

9/01/15
Il sonno della ragione. Saggi sulla violenza.

A cura di Marco Francesconi e Daniela Scotto di Fasano (2014)

IL SONNO DELLA RAGIONE

Saggi sulla violenza

Liguori Editore

“Never forgive, never forget”

Vorrei iniziare la recensione di questo libro con la frase riportata da Daniela Scotto di Fasano, scritta su una lapide in una piazza di Nablus e che, di una lapide marmorea, conserva la durezza e l’immortalità:
“Never forgive, never forget – Mai perdonare, mai dimenticare”.
La frase, di forte impatto, sottolinea la forza della violenza, suggella la “memoria del rancore” (Kancyper, 2000) e introduce magistralmente verso la disamina dell’argomento, trattato attraverso il contributo di diversi autori.

Il Sonno della ragione si riallaccia all’omonimo libro realizzato nel 1993 che comprende i risultati di una ricerca pilota condotta da Scotto di Fasano e altri Autori, effettuata con le operatrici del Telefono rosa.
Il libro è un invito ad inoltrarsi sul tema della violenza, comprenderne l’origine, il significato, la possibile evoluzione in una concordanza tra passato e presente, tra transgenerazionale e intergenerazionale.

Nonostante i contributi dei diversi Autori, declinino il tema caratterizzandosi per la cifra assolutamente originale, sembra, alla fine, potersi individuare un unico comune denominatore che vede la Violenza, il Male, come determinati dalla cecità affettiva, culturale, sentimentale, dall’assenza di pensiero; come recita il titolo, dal sonno della ragione.

Brillante e variegato il contributo di Scotto di Fasano.
L’Autrice spazia tra le diverse forme di discriminazione dell’Altro con uno stile coinvolgente che inoltra il lettore nella trama, vivace e credibile, di storie, di fatti del nostro tempo, nel riuscito tentativo di attualizzare il Male, quasi a poterlo toccare con mano, come fosse un oggetto, tanto riesce a renderlo concreto.
Così si legge delle storie di vita, (una vera e squisita narrazione) dei piccoli africani Yaguine Koita e Fodè Tounkara e della piccola palestinese Zimat; eroi per caso, eroi malgrado tutto.
Le sue note hanno la potenza di lasciare in chi legge un palpabile e persistente sentimento di pietas ma anche di rabbia; la comprensione di che cos’è l’ingiustizia, la vera miseria dell’anima, la catastrofe dei popoli a causa della assenza, tragica, del pensiero.

Ma la ragione può essere irrazionale?….
Quello che sembra un bisticcio di parole, in realtà è un interrogativo che condividiamo con Silvia Vegetti Finzi “E’ inevitabile chiedersi, ma la Ragione può essere messa al servizio di cause disumane restando tale?”.
E che Ragione sarebbe?…(aggiungo)

L’Amati Sas sembra rispondere a questo interrogativo, quando parla del fenomeno chiamato “assuefazione all’ovvio”.
Scrive Amati Sas:
“Il mondo tecnologico di oggi ci offre maggiori possibilità di essere trattati come delle cose anziché come persone, e questo succede al di là della nostra capacità di percepirlo, conoscerlo, pensarlo…Ci affacciamo ad un dilemma identitario che è quello di chiederci se siamo dei chi o siamo dei che cosa”.

Come scrivono Scotto di Fasano e Francesconi, gli scritti di Amati Sas, sollecitano riflessioni “in particolare al fatto di abituarsi difensivamente all’inumano (torture, stragi, eccidi, olocausti) come rientrasse nella categoria dell’ovvio”.
E, citando Bodei (2011) aggiungono:
“I disagi non sono maggiori o minori del passato: siamo però diventati più insensibili a essi; il malessere circola clandestinamente, come qualcosa che, spesso, non desideriamo guardare da vicino”.
L’assuefazione all’ovvio struttura l’individuo, viepiù, nella condizione difensiva dell’ambiguità dove “tutto appare possibile e interscambiabile”; si può sopravvivere al dolore dell’affronto irrispettoso, dell’abuso massivo, in quanto
“i termini opposti, contradittori e conflittuali, non sono ancora precisati, né contrastati”.
Insomma, si scivola nell’ambiguità, laddove la violenza, più è vicina e più diventa impalpabile e invisibile.
Citando Bion (Bion, 1962b) “Si arriva ad amputare la parte di sé che “sente” il problema, che “pensa”, spegnendo, per così dire, la mente”.

Ma l’ambiguità rende possibile anche essere “altro” da sé, mantenendo l’apparenza o l’illusione dell’essere “in” sé .

L’ambiguità come difesa, dunque, nel tentativo di annullare quel vissuto di spaesamento che proviene dalla difficoltà a sopportare un’Alterità vissuta come troppo inquietante.
“L’Altro evoca un profondo senso di disagio, alterando il senso familiare del sé, spaesandolo, può avvenire che si ricorra a una serie di misure difensive tendenti ad annullare lo spaesamento generato da un’alterità troppo inquietante per essere tollerata come tale (…).Lo spazio dell’incontro (con l’Altro) allora può essere percepito persecutoriamente, in termini emotivi, come area di frontiera nella quale è indispensabile stare – e restare – in guardia”(Scotto di Fasano, 2005).

Un’altra modalità difensiva per affrontare l’impatto con un’alterità perturbante è, secondo Badoni, la clandestinità, intesa come “situazione transitoria” in vista di un possibile cambiamento.
A volte, “ambiguità” e “clandestinità”, sono espressione di un utilizzo perverso del segreto. In entrambi casi i casi l’interlocutore ha la sensazione di venire “aggirato” e che nella comunicazione ci sia la presenza “di qualcosa di nascosto, come una sorta di passeggero clandestino della mente”.
Ce ne parla Cosimo Schinaia che affronta il tema della segretezza, di un “non detto” che non rappresenti necessariamente un “arroccamento difensivo” piuttosto un’espressione di “autonomia e libertà”.
In uno straordinario tributo alla musica, Emanuele Ferrari dirà quanto sia necessario il silenzio per accedere al nostro, personale, dialogo interiore.
“Il silenzio che si richiede ha la forma di uno svuotarsi per accogliere qualcosa d’altro, qualcosa che non siamo noi.”(Ferrari, 2013).
Il pensiero viene reso udibile attraverso il silenzio; silenzio inteso, pertanto, come “ambiente mentale nel quale il pensiero sorge e nel quale si mantiene”(Ferrari, 2013).
Aspetto alternativo è invece quando il silenzio si “apposta” nel segreto. Dell’utilizzo perverso del segreto, ci parla Schinaia nella descrizione del caso di un paziente pedofilo. Il caso del signor X sembra essere l’“elogio della segretezza” e mostra l’esistenza di un nascondiglio dove, inconsciamente, proteggere le emozioni rendendole blindate e inaccessibili all’analisi.
Il magistrale lavoro clinico di Schinaia, mette in luce, attraverso le vicissitudini transfero-controtransferali, il duplice utilizzo fatto dal signor X della clandestinità; “una modalità chiusa, narcisitica, segno di una rigida scissione dalle altre espressioni emotivo-comunicative” e l’altra “decisamente libidica, aperta, segno di potenziale trasformazione e di permeabilità relazionale”.

La sociologa Marita Rampazi svolge un’interessante disamina sui rapporti tra conflitto, violenza e aggressività.

L’Autrice cerca un nuovo paradigma di violenza dopo aver confutato la concezione che la violenza attiene unicamente alla devianza.
“Se la violenza è un’anomalia, specifica di talune frange marginali della società, come mai, nel sentire comune dei cittadini, si sta diffondendo la percezione di vivere in una società dove essa è un rischio normale della vita quotidiana?”

Queste parole fanno associare facilmente con i troppi fatti di cronaca in cui la violenza la fa da padrona, per esempio in ambiti familiari, domestici; una tra tutti la drammatica vicenda che vide coinvolto Pistorius, il noto atleta paraplegico, mitico esempio di forza d’animo, abnegazione e coraggio, che uccide la compagnia a sangue freddo, aldilà di ogni ragionevole conflittualità in atto.
Come dice Rampazi:
“La violenza esce dalla sfera del conflitto per collocarsi in un altrove, governato da altre logiche, comunque non legittimabili”.

La “de-istituzionalizzazione” e un eccesso di “individualizzazione” sembrano essere i processi riconosciuti quali responsabili di “derive soggettivistiche” che relativizzano il significato dell’agire, rimpiccioliscono e ridimensionano i tempi di riflessione e impoveriscono i riferimenti etico-culturali.
Sembra pertanto che la solitudine della modernità, lo spaesamento, la disaffiliazione, aggiungo, l’esasperazione e la vessazione nel raggiungimento di una condizione sociale non del tutto e non sempre rispondente al proprio bisogno, possano essere l’assist al potenziale di violenza presente in ogni individuo.

Tra gli articoli distintivi del libro, “Geometrie edipiche: abbiamo ancora bisogno di Creonte?” di Marco Francesconi. L’Autore articola le sue riflessioni, partendo da Antigone – ma andando anche oltre la tragedia sofoclea – e sviluppa, in modo complesso e approfondito, un’accurata riflessione circa la genesi del Male.
Citando Britton dirà: ” Quando il desiderio di comprensione si mescola al terrore del fraintendimento (…)ci troviamo di fronte ad un insistente e disperato bisogno di accordo e all’annullamento di ogni disaccordo. (…)quando non c’è alcuna aspettativa di comprensione, il bisogno di accordo è assoluto” (Britton 2003).
Con queste parole rimanda all’importanza che l’individuo goda di modelli da introiettare e a cui identificarsi e, citando Di Chiara, sottolinea la necessità che si crei nella mente “un posto per l’altro”.
“La mancanza di un posto nella mente dei genitori sembra tradursi in un terreno assai sfavorevole allo sviluppo della capacità di pensiero e di simbolizzazione”.
Affinché la violenza venga contrastata sul nascere è pertanto indispensabile che l’individuo abbia un buon inizio, che gli sia data la possibilità di buone identificazioni, che rendano possibile creare spazi mentali.
Con un certo modernismo, Francesconi definisce questa operazione “crescita dell’apertura”, e ancora: ” capacità di considerare il conflitto intrapsichico non come problema da eliminare ma come fulcro del saper interporre il pensiero tra percezione e azione”.

Cinema e Violenza con Rossella Valdrè. La musicalità del registro valdreniano fa scivolare con lievità nella complessità dell’argomento attraverso il contributo del cinema come funzione vicariante l’aggressività nel momento in cui permette allo spettatore “di dare piena libertà ai (suoi) desideri pur lasciando (lo) al sicuro”.
Cinema, quindi, come catarsi e, insieme, possibilità di dar sfogo, in maniera accettabile, ai propri impulsi sadici; cinema quale rispecchiamento (a volte spettacolarizzazione?) della propria componente anale, bruta, non tanto, o non solo, capro espiatorio piuttosto, sottilissimo filo che congiunge luoghi interni impervi, scoscesi, spesso impraticabili.
La pellicola cinematografica ci avvicina a ciò che altrimenti rifiutiamo di vedere.
Diversamente dallo scatto fotografico, che fissa nell’istantanea un frammento del sé realizzando una condizione insatura, una sospensione di senso, non passiva piuttosto da intendersi come un’attesa colma di significati, senza tuttavia sviluppare una trama vera e propria, se non quella sognata; il film ha, a mio avviso, una valenza più aggressiva laddove viene inteso come “messa in scena della violenza in modo prolungato”; tuttavia, sia le immagini filmiche che quelle fotografiche, danno corpo ad un “racconto” del sé.

L’analisi di Valdrè sull’origine della violenza, in qualche modo, si riallaccia a quella proposta da Francesconi quando introduce il concetto di crescita dell’apertura.
Citando Brenman (1985) l’Autrice sottolinea come la ristrettezza mentale, il non favorire la possibilità di spaziare con la mente, di produrre pensiero, porta alla crudeltà.
E, analizzando particolarmente alcuni film quali, Funny Games, Elephant e Il nastro bianco, s’interroga così:
“Se le piccole comunità povere e bigotte che questi film hanno rappresentato fossero state capaci di una qualche forma di elaborazione e di trasformazione psichica, o se si fossero assunte le responsabilità delle conseguenze dei propri atti e desideri vendicativi, la Storia avrebbe avuto ugualmente bisogno di un fuhrer, di sterminare milioni di persone?”.

Il Sonno della ragione è uno di quei libri da “avere” e mi rammarico di aver realizzato una recensione certamente non esaustiva dell’ampiezza del libro e di questo mi scuso con gli Autori Monniello e Di Veroli che hanno affrontato il tema della violenza in adolescenza, Magnani che ha trattato la filosofia della violenza, Bisagni, l’omofobia inconscia dell’analista, Benlodi che ha parlato della violenza subita dai bambini abbandonati, Micotti, i genitori violenti e Varvin, i traumi di guerra.
Per sottolineare l’intensità di questa importante raccolta di saggi sulla violenza, concludo con un salto associativo.
L’opera curata da Francesconi e Scotto di Fasano, mi rimanda al “Sale della Terra”, documentario di straordinaria bellezza, realizzato da Wim Wenders.
Questi, attraverso le immagini fotografiche scattate da Sebastião Salgado nel corso della sua avventurosa carriera, racconta della capacità dell’individuo di distruggere e distruggersi, della violenza che l’uomo riserva ad altro uomo, spesso più efferata di quella di cui sono capaci gli animali, dell’alienazione e smarrimento, dell’orrore della bestialità.
Pensiero non pervenuto.
La prima scena apre drammaticamente con immagini di stupefacente bellezza e insieme, a mio avviso, crudelissime; immagini che tolgono il fiato, sembra di trovarsi dentro un sogno ma invece è tutto vero.
Ritraggono tanti, tanti uomini in cerca dell’oro; sembrano formiche, si arrampicano andando su, su e poi giù, giù, per strette scalette ripide; sono uomini di tutte le provenienze e fasce sociali, puoi trovare lo studente, il contadino, l’intellettuale, il delinquente; portano con sé un sacco pieno, pesante, ma “non si sa se dentro c’è l’oro, può anche non esserci niente”.

La voce narrante, di questa folla cieca, dirà:
“Sembrano schiavi, ma non lo sono”.

Bibliografia

Bion W.R.,1962b, “Una teoria del pensare”, in: Bott Spillius E. (a cura di), 1988-1995, Melanie Klein e il suo impatto sulla psicoanalisi oggi, Vol. I, Roma: Astrolabio
Bodei R., 2011, Il dottor Freud e i nervi dell’anima, Roma: Donzelli
Brenman E., 1985-1995, “Cruelty and narrowmindedness”, «Int J of Psyoanal» 66, [trad it. Bott Spillius (a cura di), Melanie Klein e il suo impatto con la psicoanalisi oggi, Roma: Astrolabio pp 273-282]
Britton R., 2003-2004, Sesso, morte e Super-Io, Roma: Astrolabio,
Ferrari, 2013, Ascoltare il silenzio, Milano: Mimesis
Kancyper L., 2000, “La memoria del rancore e la memoria del dolore”, «Psiche», VIII, 2, pp. 101-108
Scotto di Fasano D., 2005, “Sentinella di frontiera, non si può fermare il vento”, in Francesconi M., (a cura di), 2005, L’interpretazione della colpa, la colpa dell’interpretazione, Milano: Bruno Mondadori.

Donatella Lisciotto

Gennaio 2015

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