Cultura e Società

L’Altro. Diversità contemporanee. Cinema e psicoanalisi nel territorio dell’alterità. Di Rossella Valdrè (2015). Di Daniela Lisciotto

28/04/15
L’Altro. Diversità contemporanee. Cinema e psicoanalisi nel territorio dell’alterità. Di Rossella Valdrè (2015). Di Daniela Lisciotto

Rossella Valdrè (2015)

L’Altro. Diversità contemporanee. Cinema e psicoanalisi nel territorio dell’alterità.

Edizioni Borla

Nel suo nuovo libro Rossella Valdrè esplora il rapporto dell’individuo con l’alterità, attraverso l’accostamento ad alcune pellicole cinematografiche, scelte, al solito, con la competenza e l’accuratezza che contraddistinguono la sua scrittura.

Temi importanti quali il male, l’infanzia e l’adolescenza, la crisi economica, il virtuale, vengono trattati ed analizzati attraverso un’originale associazione con film, noti e meno noti, che ha la capacità di rendere i contenuti meno astratti e teorici.  Operazione non facile, non scontata ma ben riuscita grazie alla competenza e alla cultura dell’Autrice sia in ambito psicoanalitico che cinematografico.

Il libro, si legge scorrevolmente, accompagnando il fruitore in una lettura fluida, caratterizzata da una cifra leggera e moderna.

Anche stavolta, Valdrè convince e avvince il lettore. Direi che lo introduce alla possibilità di sognare, attraverso il racconto della trama filmica, in cui non tralascia mai di accentare elementi significativi della storia dei personaggi, del loro profilo psicologico, del contesto sociale; informazioni che aiutano a contestualizzare la storia in una vera e propria narrazione che include più livelli.

Alla fine del libro, si ha la sensazione di sapere qualcosa in più di quando si è cominciato.

Il Male nell’alterità viene trattato attraverso tre film: “La moglie del poliziotto” (2013) di Philip Groening, “In ordine di sparizione” (2014) di Hans Petter Moland, “La grande bellezza” (2013) di Paolo Sorrentino.

Dice Valdrè: “Dobbiamo dirigere i nostri occhi verso aspetti del mondo per i quali non avevamo ancora avuto sguardi” e prosegue “Ho imparato la guerra del Vietnam, grazie al cinema, il dopoguerra italiano col Neorealismo, gli sfarzi della Belle Epoque, e molto altro ancora “[…] il cinema ci ha portato lì, dove altrimenti non saremmo andati. O ci ha riportati […] con quell’altro sguardo” (23).

L’accostamento con la psicoanalisi è sin troppo evidente e non servono altre parole per sottolinearlo. Il Male è, infatti, uno di quei luoghi in cui, volenti o (piuttosto) nolenti, il cinema e la psicoanalisi ci conducono. Mi piace a questo proposito ricordare le parole di Paolo Perrotti che parlava dei “pezzi incandescenti” che si trovano nell’inconscio, “pezzi che bruciano le mani e che non si vogliono toccare”.

I film scelti da Valdrè parlano di un Male inquietante, forse il più difficile da tollerare e spesso impossibile da elaborare: quello che si consuma all’interno del legame, e la sua cornice è il contesto familiare o gruppale, quello silenzioso e invisibile, nascosto e acquattato nelle atmosfere di una provincia rarefatta e quasi fatata, perpetrato da personaggi apparentemente miti e ininfluenti, da cui non te lo aspetti (La moglie del poliziotto). E’ il Male del trauma.

La donna sembra esserne un bersaglio facile; e qui che si sviluppa tutta la letteratura legata alla perversione e alla perversione narcisistica, accuratamente trattata da autori citati dalla Valdrè tra i quali Filippini (2005), Hirigoyen (1998), Racamier (1995), Recalcati (2004).

In accordo con l’Autrice, quello che in altri contesti (“Noi/Altri”, Messina.2014) ho definito il “femminicidio bianco” è “[…] più delle botte, oltre le umiliazioni, la vera uccisione, lenta e implacabile, è quella del sé, dell’identità. Del minarne le certezze. La vittima non sa più chi è e cosa vuole, cosa è giusto e cosa no […] un vero processo di scardinamento dell’identità di un altro” (54).

E c’è ancora il Male che istruisce un mondo violento e dopato, che deruba i desideri dell’individuo, mettendo al loro posto bisogni che premiano la società, il Sistema, (“La grande bellezza”).  Bellissima la citazione di Gabriele D’Annunzio (“Sono annoiato, sono annoiato…”), appropriata chiosa, direi un significante, che ben descrive e raccoglie in poche rime, il mood del film e dell’esistenza di molti.

Oppure c’è il Male fitto, che punge, il male bruto, maschio. E’ il Male cattivo, fidelizzato alla colpa inconscia, “non perdonabile” (“In ordine di sparizione”).

“E ora parliamo di Kevin” (2011) di Lynne Ramsay è il film-ponte scelto da Valdrè per collegare il tema del Male con quello dell’Adolescenza.

Kevin è un adolescente che uccide i compagni di classe più meritevoli, la sorellina e il padre. Valdrè “usa” questo film per soffermarsi su un tema a lei caro, la trasmissione inconscia transgenerazionale.

E’ noto come il transgenerazionale trasmette anche il trauma non vissuto in prima persona, il trauma dell’Altro, che tuttavia, non elaborato, (come potrebbe?) diviene scheggia che s’incista; immodificabile non tanto perché irraggiungibile ma poiché non vissuto, non esperito, eppure attivo, come fosse stato trasfuso.(Kaes1993, 23-29).

Attraverso i film “Pelo Malo” (2013) di Mariana Rondòn, “Tutto sua madre” (2013) di Guillaume Gallienne, “La vita di Adele” (2013) di Abdel Kechiche e “Sister” (2014) di David Lascher, Valdrè esplora certe criticità dell’infanzia-adolescenza, senza saturare l’argomento.

La sua analisi attualizza, problematizzandola, la condizione in cui i ragazzi vengono allevati.

Citando Woody Allen, tra i suoi registi preferiti, sottolinea piuttosto l’importanza dell’ “ozio creativo”e l’utilità che “i nostri bambini” si annoino, poiché “provare desiderio è la fonte della creatività”. Di contro sempre di più, assistiamo impotentemente, a performance che saltano da un assetto eccessivamente eccitato ad uno stato di “hopelessness” (89) che, purtroppo, non è tristezza.

Con la felice espressione “l’obbligo contemporaneo alla felicità”, Valdrè descrive bene il deragliamento della significatività verso l’assuefazione al non-senso a cui i giovani (e non solo) sono oggi fidelizzati.

A questo proposito, recentemente, sono venuta a conoscenza di un prodotto, delle caramelle (di cui non riporto il nome per il motivo che si comprenderà), ritirabili su internet, con una semplice postpay, persino da bambini piccoli.

La notizia ha dell’incredibile. Il pacchetto contiene dei confettini accoppiati tra loro per colore. La particolarità sta nel gusto: il confettino color marrone può essere sia al gusto di cioccolata che, testualmente, al “cibo per cani”, quello verde al gusto di “caccola di naso” o pera, quello giallo ai “calzini puzzolenti” o a tutti frutti, e poi c’è anche quello al “vomito” che si confonde con quello al gusto di pesca. Esiste anche un channel in rete che spiega l’assunzione del prodotto, realizzato da due teen agers molto carine.

Si tratta di un gioco ambiguo che, a mio avviso, alimenta confusione ed eccitazione, nonché abitua al gusto del grottesco e, per l’appunto, del non–enso. Una sorta di roulette russa laddove la suspance starebbe in quello che ti può capitare: una sorpresa (sgradevole, quasi un’offesa) o una coerenza? Questa cosa mi sembra abbastanza emblematica del grado di depressione dei costumi, della facilità con la quale si sfornano prodotti atti a confondere e mistificare il significato delle cose, e della futilità (sotto forma di gioco, e questo è più pericoloso) dei messaggi con i quali crescono i nostri figli.

Piuttosto Rossella Valdrè individua lo sforzo del cinema e della psicoanalisi, alleati in un processo di “trasformazione”, attraverso il quale si possano aiutare “i nostri bambini a sognare e oziare creativamente” (90.)

Non bisogna essere felici, a tutti i cosi, piuttosto produrre aperture, volgersi al cambiamento.

L’attenta disamina dell’Autrice sulla condizione giovanile, sollecita una riflessione critica dell’”happiness a ogni costo” che diventa, oltre che una condanna, una omologazione, laddove è concesso muoversi tra l’eccitazione e la depressione; derubando i nostri figli della possibilità di contattare i propri limiti, di sperimentare una sana delusione e di fare delle scelte rispettose della propria originalità.

“Tutto sua madre” e “Pelo Malo”, sottolineano il ruolo e l’importanza della diversità e della soggettivazione. Il percorso doloroso e conflittuale che porta al primato dell’identità (puntando sempre al riferimento materno) è “un omaggio al tesoro prezioso di essere sé stessi”.

Consequenziale il passaggio alla crisi dell’individuo, legata al denaro e al potere, con i film “Wall Street (2013) di Martin Scorsese, “Gli equilibristi” (2012) di Ivano de Matteo. “Il capitale umano” (2013) di Paolo Virzì e “Blue Jasmine” (2013) di Woody Allen.

La ricchezza, il denaro, nelle storie raccontate, non hanno un profilo di concretezza bensì sono vissuti nella dimensione della fantasia.

“Il denaro – dice Freud – non è un desiderio dell’infanzia” e pertanto non produce felicità; piuttosto Valdrè sottolinea l’esistenza di una “bolla”, intesa come “area psichica che tenta di giustificare il desiderio col bisogno”.

Il desiderio, per sua natura inappagabile, viene barattato e confuso con “bisogni” materiali connessi al consumismo e che, ancora una volta, chiamano l’individuo al conformismo, ad essere con-forme al Sistema. La posizione dell’artista, del poeta, dello psicoanalista è piuttosto quella di favorire che “le cose accadano secondo i desideri” (dell’individuo) piuttosto che premiare i suoi bisogni narcisistici.

Particolarmente ben reso questo concetto nell’analisi de “Gli equilibristi” dove è di scena il sentimento della vergogna che, “a differenza del dolore, condanna le sue vittime al peggiore degli isolamenti” (150); come Guido, il protagonista, emblema del “nuovo povero”, ingabbiato nella crisi economica e dei valori.

Trovo che la lettura del film abbia del rivoluzionario, proprio nel vedere il pertinente ribaltamento che ammala la contemporaneità.

In conclusione del libro, Valdrè circumnaviga quella che definisce l’“alterità contemporanea” e cioè il desiderio di “staccarsi transitoriamente dai limiti del proprio Io per specchiarsi narcisisticamente in un altro” (196). Il parallelismo è fatto col film, intenso e di charme surreale, “Her” (2013) di Spike Jonze, in cui si esplora il tema della solitudine esistenziale e il cui solo argine è l’illusorio conforto narcisistico, che vede Theodor intrecciare una relazione sentimentale con un dispositivo OS (Samantha).

Interessante interrogativo quello che Valdrè pone in riferimento all’immagine di un femminile seduttivo (che si ripropone anche nel film “S1mOne” del 2002 per la regia di Andrew Niccol), un femminile che attira letteralmente a sé. “E’ un caso?- si chiede l’Autrice – che l’Os sia una donna giovane, bellissima e eternamente disponibile?”; o piuttosto, questa fantasia, ricalca il desiderio del godimento primario?

Alterità e Virtuale, dunque, fino a giungere all’annosa questione della psicoanalisi on line che Valdrè abbraccia con “curiosità ed interesse”, sbilanciandosi un po’ a proposito delle analisi via skype: “Il viaggio e’ magnifico in sé, non mi interessa come andrà a finire […] è l’esplorazione che m’intriga” (202).

Al riguardo l’ottica di Valdrè è aperta e occhieggia all’innovazione senza tuttavia rinunciare all’ortodossia. L’essenziale è che l’analisi abbia un carattere mutativo, sia che si faccia di persona che on line, e sia scongiurato quella che Claudio Magris chiama “la cultura dell’optional” per la quale, “una cosa vale l’altra” (218).

Mi piace concludere questo commento, certamente non esaustivo per motivi di spazio, con una citazione, di Metz, uno degli autori preferiti, assieme a Pasolini, dell’Autrice, poiché bene fa comprendere lo spessore della funzione del cinema che la Valdrè, illustra e difende nelle sue pagine.“La peculiarità del cinema è quella di fondarsi prevalentemente su un’assenza”.

La magia del cinema, che Valdrè definisce anche “fisicità onirica”, sembra essere quella per cui, contrariamente al teatro, i personaggi sono assenti ma percepiti come presenti.

“Sappiamo di essere al cinema eppure ci sembra tutto vero […] Il cinema ci pone così nel regno del profondo, del fantasmatico […]. E’ lo scambio fantasmatico inconscio che fa del cinema un’arte unica” (228).

Cinema e psicoanalisi hanno in comune la ricerca della veritàe la peculiarità di agire in piena libertà, senza preconcetti o predeterminazioni, laddove anche la previsione può venire ribaltata, in corso d’opera.  E ancora, cinema come esperienza non ipnotica ma onirica, in cui “lo spettatore è soggetto attivo, in movimento”. Ma anche cinema come facilitatore di rèverie, nascoste nelle immagini filmiche che vengono in aiuto durante la seduta per consentire all’analista di raggiungere comprensioni di quote inconsce del paziente, altrimenti inavvicinabili.

Originale la chiosa del libro, lasciata alla parola dei registi, “parola” facilmente sovrapponibile a quella psicoanalitica.

Una tra tutte:

“Il film non è un sogno che si racconta, ma un sogno che stiamo sognando tutti insieme […] il film esprime allora altro da quello che è. Nessuno potrebbe prevederlo” (Jean Cocteau).

Donatella Lisciotto

Aprile 2015

 

 

 

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