Cultura e Società

L’isola delle anime di J. Holmström. Recensione di D. Federici

26/08/19
L’isola delle anime di J. Holmström. Recensione di D. Federici

L’isola delle anime

di J. Holmström (Neri Pozza, 2019)

Recensione a cura di Daniela Federici

 

“Ho avuto anch’io la mia Palestina,

le mura del manicomio erano le mura di Gerico

e una pozza di acqua infetta ci ha battezzato tutti.”

A. Merini

 

 

Ben prima di Charcot e il suo teatro dei nervi alla Salpêtrière, i minuziosi appunti di un medico che prova a curare l’isteria con bagni freddi per 10-12 ore al giorno. Dopo mesi, la pelle si sbuccia dal corpo come un pomodoro bollito e la paziente si disgrega dall’interno, i tessuti si dissolvono e vengono espulsi attraverso il retto, esofago e trachea sfaldati e tossiti fuori, brandelli membranosi degli organi digestivi passano nell’urina come fogli di pergamena bagnata.

La medicina moderna posa su fondamenta fatte di ossa e indicibili sofferenze umane.

Johanna Holmströmapre le cartelle cliniche dell’ospedale di Själö, piccola isola nell’arcipelago di Nagu, costa finlandese, che a fine 800 diventa un manicomio per donne incurabili che opererà fino agli anni ‘60. Dalle pagine fitte di note delle infermiere, emergono le storie delle internate, cui l’Autrice dà voce con una scrittura evocativa e garbata, in un romanzo corale che tratteggia la condizione femminile lungo gli ultimi due secoli.

1891. Kristina, giovane madre sola, una notte, mentre torna remando a casa dal lavoro, cala nell’acqua gelida i suoi bambini. “Non si sarebbe mai aspettata che potesse essere così facile lasciare la presa”.Il racconto straniato della sensazione sinistra e paralizzante, come di melma, che nella stanchezza si è creata un nido dentro di lei, fermentando fino a impadronirsi di tutto. Il riemergere alla realtà il mattino dopo e la ricerca disperata dei suoi bambini: “è un gelo che non somiglia a niente di conosciuto, che non lascia posto a nessuna sensazione di calore, che d’ora in poi non farà che peggiorare. In quel corpo non gioca più la vita.” Continuerà a cercarli per anni, a parlarci, in segreto, nei ritagli solitari della vita comunitaria all’isola dei pazzi.

1934. Elli è un’adolescente esuberante dalla vita ribelle, in un tempo in cui la libertà è devianza. Rabbia e paura le luccicano negli occhi come una lametta sul fondo di un pozzo buio. Il laccio costrittivo con una madre fusionale e respingente, amori balordi, una riottosità piegata dall’isolamento e ancora più a fondo slogata dalla paura dell’abbandono. Uno sfiorarsi di umanità che muove alla vita come l’acqua impaziente sotto la crosta del ghiaccio.

Storie che ben rappresentano la realtà dei luoghi d’esilio dove veniva relegata e occultata la malattia mentale ma anche i temperamenti scandalosi e il rifiuto a conformarsi, impronte grevi della cura morale, con le sue “custodie preventive”, le punizioni e la contenzione delle agitate. Lo stretto binomio fra correzione e carità, che offriva “accoglienza” a donne prive di mezzi o reti familiari, rimedio che senza raccogliere la fatica di vivere del femminile, aggiungeva la reclusione a esistenze già segnate dalla marginalità, dalla sottomissione, in contesti di vita violenti o gravati dall’illegittimità delle nascite. Opzioni segregative spesso senza prospettive, condannavano le ricoverate a parabole esistenziali che comportavano un sistema di reclusione a vita. Istituzioni che annichilivano le volontà e alimentavano il disagio per l’inadeguata capacità clinica e umana fra le mura asilari, dallo specchio deformante del superficiale esercizio di decifrazione dei segni della malattia, a pratiche repressive e mutilanti.

L’immagine del femminile trapela cristallizzata nelle diverse epoche, nei costumi e negli stereotipi impregnati dell’eredità delle credenze religiose, sistemi codificati di prescrizioni e interdetti di vita e di ruolo sociale che hanno rappresentato un terreno di coltura per l’alienazione. Un doppio potere del maschile, medico e normativo, sulla mente e sulla vita psichica di un femminile da sempre soggetto passivo e dequalificato, un vulnus nell’ordine naturale della società.

Nei decenni anche quel luogo muta il suo spirito, si fa più umano, albeggia più libertà e solidarietà fra le ricoverate e chi si prende cura di loro, trapelano vicinanze meno avvilenti e un più autentico senso di protezione dal mondo esterno.

“Appartenevano a un gruppo, anche se erano tutte escluse insieme. Qui c’è tempo per calmarsi, tempo per riflettere e pensare, per un esame interiore a disposizione di chi ne era in grado.”

La Holmström immagina con verosimiglianza le maschere della follia in quel deposito di indesiderate, la debilitazione di anime in cattività, le esplosioni e la mente che si confonde. Forse fra quei registri c’erano anche lettere alle famiglie dalle quali vociavano le nostalgie di casa e le attese vuote del giorno di visita, il lasciarsi andare o il resistere aggrappati a un pensiero, una ragione, una speranza di qualcuno.

Un romanzo che rende bene cosa può una richiesta d’aiuto che non cada inevasa, che trovi una bottiglia cui affidare un messaggio, una possibilità di racconto della propria storia, qualcuno con cui dare voce ai sentimenti per non perdere la presa.

 

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