Cultura e Società

Lo Zen e l’arte di non sapere cosa dire

3/09/10

di Stefano Bolognini

 

Bollati Boringhieri Torino pagine 145

 
 
 

 L’Autore di questo straordinario testo è uno degli analisti più conosciuti e stimati a livello internazionale – i cui i libri sono stati tradotti in molte lingue- oltre che abile conferenziere apprezzato in tutto il mondo e non so quanti giri del mondo abbia già fatto per accettare una piccola parte degli inviti ricevuti per tener seminari, supervisioni, lezioni. Attualmente è -lo dico per i non addetti ai lavori- Presidente della Società di Psicoanalisi Italiana e uno dei candidati alla prossima presidenza della Associazione Psicoanalitica Internazionale.

 
 

Ogni analista è un “narratore”, ma potremmo dire un narratore effimero, poiché tutte le sue narrazioni si volatilizzano dopo essere state pronunciate. In tal senso forse potrebbe aver di più del “cantastorie” anche se questo ha delle tavole di base cui ispirarsi, laddove un vero analista si trova spesso a creare i modelli di cui ha bisogno, ma non ne è certo prigioniero.

 

Stefano Bolognini ci consente attraverso queste sue narrazioni extranalitiche non solo di apprezzare le qualità dello scrittore ma dare anche una sbirciatina alle qualità delle sue narrazioni psicoanalitiche: assaporando l’onda lunga della tessitura psicoanalitica, la nostalgia che pervade ogni racconto, ogni attimo figurato e già archiviato come caduco,             e poi l’imprevista e imprevedibile zampata che compone o  trasforma il quadro narrativo alla “Segantini”, classicamente alla ” Caravaggio  o alla “Fontana”con l’imprevedibile taglio/cesura narrativa che guarda al di là del prevedibile, al di là della tela, costituendo un nuovo impensabile punto di vista . Così questi racconti sono fatti di capacità evocatici, di tenerezze, nostalgie, ma non manca mai lo zolfo e la polvere da sparo.

 

 

 

Il primo personaggio cui  va la dedica implicita è il “cagnone Lajos” che nelle passeggiate in montagna con le sue residue ma presenti attitudini da pastore, correva avanti e indietro a vedere che avanguardie e retroguardie non si perdessero o sgranassero troppo, che faceva la spola come nelle vecchie macchine per tessere dove la spola correva per permettere la tessitura e così ogni analista e ogni narratore  non può non avere una funzione Lajos che eviti lo smarrirsi di fili per quanto laschi essi siano.

 

 Lo stesso Lajos che dava il benvenuto all’ospite e che era una funzione di accoglimento del nuovo ma senza lasciarsi certo intimidire.

 

Naturalmente non accennerò neppure alle trame dei racconti per non togliere al lettore il piacere della scoperta fatta riga dopo riga, perché un po’ di suspence c’è sempre a partire dal racconto di Luisa “La volpe”, dove compaiono anche polli, tagliole, cantine,  racconto che si lega a un mio ricordo infantile ovvero “Ulisse e l’ombra” di un vecchio e dimenticato Carosello.

 

 Continuamente nel libro appaiono atmosfere  dove emozioni, sentimenti, tenerezze, cercano un modo per tornare ad Itaca.

 

Altri protagonisti che troviamo sono poi le sigarette, le altre identità potenziali che ci accompagnano, e il Pirandello de “Il treno ha fischiato.” Le mitiche storie sul cambiar vita e crearsi una nuova esistenza e la nuova categoria psicopatologica dei “figli di buona donna”.

 

Solamente qua e là sono proposti dei temi squisitamente psicoanalitici come la proposta “interpretazione cotoletta” frutto di cure e ricco working throught così diversa dalla “interpretazione bistecca” che guarda solo allo sviluppo del paziente, classica interpretazione “del” transfert.

 

 Denso il capitolo perché affronta con coraggio anche la self-disclosure, operata dall’Autore con il rischio di contaminare sani regimi intrisi di neutralità.

 

Ironia e leggerezza sono impanature della cucina di Stefano Bolognini, che ci accompagnano in ogni pagina, spesso mescolate a nostalgia, a dolorose separazioni delle quali spesso il vero motore è l’Orgasmus. Indimenticabile la figura del quadrisnonno Raffaele che opta per una scelta stanziale così diversa da quella del quadrisnipote Stefano che spesso sappiamo in volo per tutti i continenti e spesso senza il tempo di una lunga sosta.

 

Il gusto del nuovo e dell’avventura si sposano con l’opposto gusto dell’appartenenza e della tradizione, del resto come  avviene anche all’analista Bolognini ben ancorato alla nostra storia condivisa di “freudiani” e capace di balzi in avanti sino alle proposte “disorientanti” d’oltre-oceano. L’onore delle armi per  perdenti, gesti cavallereschi d’altri tempi, il cuore del gruppo, il “non sapere cosa dire”, diventano nodi, personaggi di una narrazione che prende il lettore e ne attanaglia l’attenzione sino allo scioglimento finale del “dramma” messo inscena.

 

 

 

Un inaspettato regalo l’Autore ce lo fa circa a metà libro, non solo perché riprende il tema dei cani, nel quale è evidente che lascia vibrare note particolari, da Buck a Zanna Bianca, ma anche perché ci porta direttamente nella propria stanza di analisi e dove si lascia vedere al lavoro con i pazienti “che si affidano a noi perché non si coltivi la pretesa di infiocchettare un leone come se fosse il micio di casa o di fare di un pollo un gallo da combattimento”.

 

Vediamo l’analista al lavoro capace di lasciar sviluppare la narrazione, di lasciarla sorgere sino ad accettarne le note più forti senza sottrarsi ad esse sino “a far emergere quanto di cane e quanto di lupo si agitano variamente intrecciati nel profondo di una persona che è in cerca di se stessa”.

 

A questo punto mi tocca di dichiararmi persino “geloso e invidioso” (ma non kleinianamente!) dell’abilità narrativa dell’Autore che si giostra alla Cervantes tra Erode, inteso come parte scissa del Bambin Gesù che non tollera l’esistenza di altri bambini rivali (lo dicevo: lo zolfo!), Piranha e notai che vengono a portare il diritto dove le passioni fremono sotto rispettabilissime identità: sino alla salomonica ricetta che tra i due contendenti “l’uno dei due preparasse due porzioni,  mentre l’altro, in seconda battuta avrebbe scelto” e poi turnando.

 

Veniamo informati successivamente che a fronte di circa cinquantamila libri che vengono pubblicati ed altrettanti Autori esiste anche “uno” conteso da tutti i salotti che i libri persino li legge.

 

Arriviamo così nuovamente a Lajos e alla sua trionfale “parata” dietro la Chicca, condividendone il ritmo e il passo. Un salto e siamo in America e alla cerimonia del caffè, per rientrare poi a Bologna con uno studio dell’arte di occupare un posto al bancone del bar con la micro-descrizione di movimenti transferali ( e forse anche controtransferali) rispetto il proprio abituale barista inclusi eventuali tradimenti. Ciò mi induce a una mia self-disclosure: (anche se questa  la”self disclosure” non è psicoanalisi o lo è solo in quei Paesi in cui per prendere un caffé ci vogliono venti minuti buoni e allora ti scappa la pazienza, diventi incontinente e finisci per raccontare i fatti tuoi!) ho commesso adulterio rispetto al mio barista cui ero stato fedele per anni, l’ho lasciato perché l’altro (bar) è più bello, più fornito, fa anche da mangiare, ma quale angoscia e senso di colpa ogni volta passando davanti al mio vecchio bar e vedere il mio ex barista affacciato sulla soglia del bar senza potermi impedire di pensare “forse mi aspetta e si chiede il perché del mio tradimento”.

 

 Ma l’analista fa “vendita a strappo” o conta sulla “fidelizzazione del cliente” quest’ultima direi specialmente quando fa la cotoletta al paziente che non se ne dimentica. Ed anche se questo non è logico. E’psicologico.

 

È questa una affermazione-tormentone che ci troviamo spesso a chiusura di evidenze in cui, l’Inconscio, o la natura umana, saltano fuori in maniera imprevedibile e contrarie a ogni logica, ma si impongono con la loro forza di ‘’fatti” come direbbe Bion.

 

Il “superio” può anche proteggerci ed evitare che ci bagniamo sino ad ammalarci, non è che sia sempre sadico o crudele ed anche questo ci aiuta a riflettere.

 

Non è facile legare i Proci, Telemaco, Ulisse, il ragionier Rossi e un punkabbestia e il suo cane. Ma il Nostro ci riesce benissimo fornendoci in poche pagine un saggio che si colloca tra il sociologico, lo psicologico, l’antropologico e lo psicoanalitico ove in modo mirabile viene descritto questo fenomeno tipicamente bolognese. Dopo la lettura ci troviamo più pacificati sia con i punkabbestia sia con noi stessi.

 

L’altra faccia del punkabbestia – almeno per contiguità – è il mito dell’eterna giovinezza dove al diavolo è sostituito il chirurgo plastico.

 

Questo diviene progressivamente il capitolo della “nonnità” che rimanda non poco a quanto diceva  Luciana Nissim Momigliano nella Introduzione a quell’introvabile libretto “In due dietro al lettino” dove la funzione del supervisore veniva assimilata a quella di un nonno, un nonno che è stato capace di essere un padre che “abbia ballato almeno un valzer con la figlia” come scrive Bolognini. Impattiamo quindi col tempo, forse il capitolo più difficile da scrivere, ricordate che Federico Fellini non scriveva nei suoi film “FINE”, eppure è un tema che va affrontato tra parossismi giovanilistici, negazioni maniacali, depressive scivolate e il ritrovamento della capacità di giocare con i nipotini.

 

Ma a testimoniare che la “nonnità” non è l’ultimo capitolo ecco che arriva un luogo del tutto speciale: il sogno e i suoi paesaggi.

 

Ma il libro in realtà passando attraverso “Re Leone” ci lascia  con due pazienti, o meglio, due sogni, dalla nonnità all’adolescenza. Così Matteo scongela energie prima glaciate e Severino con l’apparire del lago sotto la finestra scopre potenzialità dapprima occluse. Il sogno è finito quando lo si racconta e così giungiamo all’ultimo capitolo che paradossalmente ci riconsegna alla nostra realtà e al nostro lavoro dopo la lunga vacanza del sogno della narrazione in cui tutto il libro ci ha trascinato e uscendo da questo libro non siamo più gli stessi, esso ci ha aiutato a sognare le nostre parti scisse, rimosse che non eravamo stati capaci di sognare e che Stefano Bolognini ci ha aiutato a sognare, a ritrovare, a rifare o a fare nostre per la prima volta. Il sogno – dice Ogden – consente di metabolizzare tutto quello che era rimasto indigerito, come nel disco del papà di Luisa.

 

 In tutto il libro una dimensione sempre presente è quella del “gioco”.  Altra -inorridite-  mia self disclosure : mio nonno sul pavimento mi aiutava a smontare gli orologi per vedere come erano fatti dentro, né si scandalizzava che il mio gioco fosse talvolta smontare anche i giocattoli. Ma mi insegnava anche a piantare chiodi e costruire sgabelli, sedie, scalette. Così il testo di Stefano è un testo che si presta a mille giochi di fantasia, a mille associazioni possibili, a una danza di evocazioni possibili.

 

Mi è capitato spesso di trovarmi con Stefano per Convegni in varie parti del mondo e in genere i momenti magici erano quelli in cui a fine giornata ci trovavamo nella stanza dell’uno o dell’altro dicendoci: “E allora raccontami!”

 

Mi accorgo di aver giocato con il testo di Stefano Bolognini e questo me lo rende prezioso, senza dover scegliere tra la sotterranea via profondamente psicoanalitica sottesa ad ogni pagina e il piacere del testo che apre a immagini, paesaggi, ricordi molti dei quali sono anche quelli di tutta una generazione, quella oggi dei “nonni”.  Forse perdono qualcosa quelli che non sanno godersi le varie tappe della vita che vorrebbero stringere a soffietto, comprimere in un tempo indifferenziato, anziché espandere la fisarmonica o l’organetto del tempo e delle età per goderne tutta la gamma di note possibili.

 

Al ristorante-durante le vacanze estive in cui scrivevo questa mia nota di lettura, sembra ancora pochi giorni fa- mi hanno, a fine pranzo, portato un vassoio pieno di dolci e io ho chiesto il “Babà”. Il cameriere solerte ed un po’ deluso mi ha chiesto: “non prende altro”? ed io “Si, un altro babà”. Allora godiamoci tutte e due queste linee narrative contenti di aver ricevuto due Babà! E perché no, la terza di Alì Baba che ci porta alle Mille e una notte, delle narrazioni che ogni analista continua a fare in tutti i generi letterari possibili in forma orale e talvolta per  nostra fortuna anche in forma scritta. Grazie Stefano!

 

 

 

Antonino Ferro

 

 

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