Cultura e Società

Non c’è una fine. Di Piotr M.A. Cywinski (2012). Recensione a cura di Mario Rossi Monti

23/01/17
Non c’è una fine. Di Piotr M.A. Cywinski (2012). Recensione a cura di Mario Rossi Monti

Piotr M.A. Cywinski (2012) Non c’è una fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz. Bollati Boringhieri, Torino, 2017, pp.148, euro 15,00

Recensione a cura di Mario Rossi Monti

Piotr M.A. Cywinski è uno storico polacco. Si è laureato a Strasburgo e ha conseguito un dottorato studiando Bruno di Querfurt, un missionario e arcivescovo cattolico tedesco ucciso nel 1009. Meno di cinque anni dopo, Cywinski si occupava di tutt’altro. Nel luglio 2006 era arrivato ad Auschwitz come Direttore del Museo Statale di Auschwitz-Birkenau. Da quel giorno, ogni giorno, per anni, è entrato nel campo di Auschwitz. I visitatori in genere si trattengono circa 4 ore, noi invece – scrive – restiamo qui. Vediamo Auschwitz giorno dopo giorno, nella neve, alla luce del sole, nella foschia del mattino, prima delle vacanze, nel giorno del nostro compleanno e così, alla fine, Auschwitz non è mai fuori del campo visivo, diventa parte di te, si radica nei tuoi pensieri. Auschwitz ti sommerge in tutti i sensi. E’ il Luogo che sommerge, del quale non si può essere all’altezza e che non si potrà mai comprendere del tutto. Nel corso della sua esperienza di Direttore, Cywinski ha dovuto affrontare una serie di problemi che consentono di vedere quel Luogo da un punto di vista meno conosciuto o addirittura inedito. Di questo dà ampiamente conto nel suo libro.

In primo luogo, scrive, io voglio vedere soprattutto le persone. I loro volti. I volti dei visitatori. Oltre 3.200.000 negli ultimi due anni. Ad esempio i volti allegri dei ragazzi delle scuole secondarie che arrivano al parcheggio e si riversano rumoreggiando fuori dai pullman. Qualche ora più tardi tornano diversi. Camminano in silenzio, un po’ come a se fossero in processione a un funerale: tutti insieme ma ognuno solo con i suoi pensieri. Ma vuole vedere anche le persone nel senso di recuperare la memoria di quelle che sono state ad Auschwitz: lo fa passando attraverso la cura dei reperti. Un giorno – racconta – i restauratori stavano lavorando, in maniera monotona e meticolosa, alla pulizia di una serie di almeno 40.000 documenti. Quelle carte, che erano per lui fonti preziose di informazioni, forse per loro erano solo pezzi di carta da trattare con prodotti chimici. Si avvicinò così a una di loro e le chiese se dopo tanti anni di lavoro riuscisse ancora a vedere le persone dietro i documenti. “Non li ho letti molto, di recente – rispose l’addetta –  ma la settimana scorsa di colpo ho visto che stavo ‘pulendo’ mio zio”. Oggi Auschwitz  è definito un Memoriale perché il significato più profondo della memoria è prolungare l’esistenza di coloro che non ci sono più. E la memoria – scrive Cywinski – è la ragione prima per visitare Auschwitz

Un secondo ambito di lavoro e di riflessione riguarda il problema di come salvaguardare l’ autenticità del luogo con quello che contiene: 150 edifici, 300 rovine, 100.000 scarpe, chilometri di recinzione di filo spinato, quasi due tonnellate di capelli umani, enormi quantità di occhiali, valige, e così via. Tutto si deteriora e tutto va protetto e restaurato. Ma fino a che punto? In che misura? I resti umani vanno seppelliti? Oppure restaurati fino al punto da trasformarli in oggetti artificiali? In certi punti di Birkenau si vedono a terra molti sassolini bianchi. Sembrano sassolini. Non lo sono. Sono frammenti di ossa umane. Residui incombusti delle camere a gas che venivano gettati nella Vistola. Ma molti frammenti ossei si perdevano per strada. Come non comprendere l’angoscia di molti ebrei ortodossi, scrive Cywinski. Per loro è imperativo che quei resti vengano seppelliti.  Ma seppellirli porterebbe la pace e la quiete e farebbe loro perdere il significato che hanno: “sentivo che se avessimo coperto l’intera area con uno spesso strato di terra …. avremmo perso qualcosa che non avrei saputo nemmeno definire.” Invece “questo Luogo deve gridare. Ma deve essere il suo grido e non il grido che vorrebbero attribuirgli museologi, educatori o storici. Questo è il punto. Poche persone oggi lo comprendono”.

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