Cultura e Società

Oliver Sacks, “In movimento”, Adelphi, 2015

20/12/16
Oliver Sacks, “In movimento”, Adelphi, 2015

Recensione di Laura Ravaioli

Quando il 30 agosto 2015 morì Oliver Sacks, il mondo perse un uomo straordinario, un medico le cui storie scaldano il cuore ed in cui lo spirito osservativo del ricercatore incontra una sincera umanità.

Mi sono appassionata alle sue descrizioni neuropsicologiche leggendo “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello”(1985) toccata dal suo assoluto rispetto per la sensibilità e l’esperienza del paziente. L’ ho ammirato quando ha saputo fare di un deficit personale transitorio un’occasione per comprendere maggiormente chi lo vive quotidianamente in “Su una gamba sola” (1991). E, sul comodino, si sono da poco succeduti “Musicofilia” (2007) e la sua autobiografia “In movimento”.

Sacks non si era mai nascosto nei suoi libri, che anzi trasudavano della sua personalità anche solo per lo stile narrativo dei casi clinici, ma la lettura di “In movimento” è stata davvero simile all’ascolto delle libere associazioni di un paziente disteso sul lettino, a proprio agio nella situazione analitica, che si lascia trasportare dai propri ricordi e ci coinvolge nella sua passione per la neurologia, i pazienti, le motociclette, lo sport.

Apprendiamo così che Oliver Sacks era uno dei bambini sfollati durante la guerra (di cui si era preoccupato anche Winnicott nelle sue conversazioni alla BBC nel 1945) e che questa sua precoce esperienza ha suscitato riflessioni: “l’immaginaria mancanza di interesse nei miei confronti non poteva invece essere la proiezione di qualcosa che mancava, o era inibito, in me? Una volta ascoltai un programma radiofonico dedicato ai ricordi e ai pensieri di coloro che- come era accaduto a me- erano stati evacuati durante la seconda guerra mondiale, separati dalla loro famiglia in tenera età. L’intervistatore osservava come queste persone si fossero adattate bene agli anni penosi e traumatici della loro infanzia. <Sì> ammise un uomo <Però io ho ancora dei problemi a stabilire legami, a provare un senso di appartenenza, e a fidarmi degli altri>. Credo che in una certa misura questo valga anche per me.”(pag.243).

La psicoanalisi era in effetti da lui ben conosciuta. Nel 1973 in risposta ad una lettera dell’amico Thom Gunn (autore della poesia “On the move” che da il titolo al libro) che gli chiedeva se a renderlo “così aperto, così recettivo, e così vario” fosse stato lavorare con pazienti tanto a lungo, oppure l’esperienza allucinatoria con le droghe, Sacks scrive “Credevo invece che la psicoanalisi avesse giocato una parte essenziale nel permettermi di maturare (ero in analisi intensiva dal 1966).” Ed aggiunge, a testimonianza dell’introiezione della funzione analitica “non potei fare a meno di chiedermi se stesse pensando anche a se stesso, ai cambiamenti verificatisi in lui e nella sua poesia” (pag. 286-287)

Con questo libro Sacks non ci fa solo entrare nelle stanze d’ospedale dove lavorava, non ci fa solamente seguire le vicissitudini del pensiero che sottende le sue intuizioni cliniche, possibile in quanto, come ci spiega “A me sembra di scoprire i miei pensieri attraverso la scrittura, nell’atto di scrivere (pag. 198)”. Ma partecipiamo ai dubbi, alle perplessità della nascita dei suoi libri, tra cui, ancora non citati: Emicrania”(1970), il più conosciuto “Risvegli” (1973) da cui fu tratto il film omonimo con Robin Williams e Robert De Niro, “Un antropologo su Marte” (1995),“Zio Tungsteno” (2001),“Diario di Oxaca” (2002), “L’occhio della mente” (2010), “Allucinazioni” (2012).

Lo scopriamo ancora più umile e pieno di gratitudine verso i maestri ispiratori:“Lo studio avrebbe potuto essere affine a “Una memoria prodigiosa di Lurija”, o all’ “Interpretazione dei sogni” di Freud (nei mesi della nostra “analisi della sindrome di Tourette” tenevo questi due libri costantemente al mio fianco)” (pag.257); comprendiamo inoltre che l’originalità del suo vertice di osservazione non si limitava alla clinica ma faceva parte della sua vita quotidiana: “Al principio dell’estate del 1994 fui adottato da una gatta randagia” (pag.296).

Sacks condivide con noi fotografie che lo ritraggono studente, viaggiatore e anche detentore del record di sollevamento pesi nel 1961 in California, dove si era trasferito prima di stabilirsi a New York; ci presenta le sue amicizie ed i suoi collaboratori, e non fa apparentemente resistenza a parlarci delle prime esperienze sessuali o della sua astinenza dal sesso per trentacinque anni.  Ci fa entrare in famiglia, con il dolore per l’incapacità della madre, molto ammirata, ad accettare la sua omosessualità e riporta l’esempio del padre, medico instancabile; ci presenta la zia che lo ha sempre spronato a portare avanti le sue idee e ci parla con affetto del fratello schizofrenico ma anche della difficoltà a vivere con lui: “Benchè non sia certo di averlo capito sul momento, nel 1951, quando mia madre apprese della mia omosessualità e mi disse <vorrei che non fossi mai nato>, le sue non erano solo parole di accusa, ma di angoscia: l’angoscia di una madre che, sentendo di aver già perso un figlio per la schizofrenia, adesso temeva di perderne un altro per l’omosessualità, una <condizione> allora considerata vergognosa e stigmatizzante e con un gran potere di segnare e rovinare una vita (pag.73)”.

La fotografia scelta per la copertina lo ritrae motociclista e nel libro comprendiamo forse la ragione di una così forte passione:“Perfino nella rigida Inghilterra, le motociclette sembravano aggirare le barriere, rendendo tutti socialmente disinvolti e tolleranti. <Bella moto!> diceva uno, e da lì partiva la conversazione. I motociclisti erano gente amichevole; quando ci si incrociava sulla strada ci si salutava con la mano, e se capitava di incontrarsi in un locale si attaccava a discorrere senza difficoltà. Formavamo una sorta di società romantica, senza classi, all’interno della società più ampia” (pag.83). Goodbye, Dr. Sacks. Che vita straordinaria!

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