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Geografie della psicoanalisi

15/05/14

Una psicoanalista a Teheran

“Non ho dubbi circa l’universalità del complesso di Edipo e della lotta per il potere e il controllo che esso rappresenta nel suo personificare la paura universale della castrazione. Vi è, tuttavia, un elemento che è specifico di ogni cultura, e in questo caso sembra essere la reazione a quella paura. Secondo la mia ipotesi, la fantasia collettiva iraniana è fissata in un’angoscia di disobbedienza che desidera l’obbedienza assoluta. Nel momento in cui desiderano ribellarsi, i figli sanno inconsapevolmente che, ponendo in essere quel desiderio, saranno probabilmente uccisi.[…] La cultura greca viceversa, sembra incentrata sulla conquista e il rovesciamento del potere, e la fantasia collettiva reagisce alla paura collettiva della castrazione consentendo di prendere le distanze dal padre e eliminarlo, al fine di assumere potere e controllo” (Gohar Homayounpour, 2012, Una psicoanalista a Teheran, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2013, p.60)

L’incontro viene aperto da Andrea Baldassarro, Segretario Scientifico del Centro Psicoanalitico di Roma, che presenta Gohar Homayounpour, psicoanalista di training e supervisore del Freudian Group di Teheran autrice del volume Una psicoanalista a Teheran. L’evento odierno si colloca all’interno del progetto internazionale di “Geografie della Psicoanalisi”, coordinato da Lorena Preta e promosso fin dal periodo in cui è stata Direttrice della Rivista “Psiche”. Il progetto si occupa di promuovere attività di studio e ricerca relative allo sviluppo e alle “contaminazioni” che la psicoanalisi sta vivendo e vivrà al di fuori dei confini dove attualmente è diffusa. Oltre a Gohar Homayounpour e Lorena Preta partecipano Tiziana Bastianini Segretario Scientifico della Società Psicoanalitica Italiana che introduce l’incontro, Giancarlo Bosetti Direttore della Rivista di politica e cultura RESET e Silvia Ronchey Professore Ordinario di Civiltà Bizantina presso l’ Università Roma Tre. Gohar Homayounpour è nata a Parigi da genitori iraniani, ha studiato in Canada e poi a Boston dove è stata la più giovane psicoanalista in training. È tornata nel 2008 a Teheran dove esercita come psicoanalista sia privatamente che all’università. Ha costituito la prima società di psicoanalisi iraniana di cui è membro e supervisore.
Gohar ha già presentato in Italia la sua esperienza in un’intervista a cura di Barbara Piovano pubblicata nel numero 1/2008 di Psiche. Nel 2012 (1) ha partecipato al Seminario Internazionale che si è svolto a Pavia, organizzato all’interno del progetto Geografie della psicoanalisi (2).

Andrea Baldassarro
Brevi notazioni sul lavoro di Gohar Homayounpour

1 – Nel suo paragone tra due miti fondatori, quello di Edipo in occidente e quello di Rustam e Sohrab nel Libro dei Re in Iran, si fa riferimento ad un’ipotesi per la quale i figli, nella tradizione persiana, vengono uccisi per il loro desiderio di ribellarsi all’autorità paterna: verrebbe comunque da pensare che i due miti, pur essendo geograficamente così lontani tra di loro, facciano riferimento alla stessa angoscia di castrazione, giustamente rilevata da Gohar Homayounpour nel suo libro, in quanto anche nel mito di Edipo, prima dell’uccisione del padre, cioè di Laio, c’è da parte di questi un tentativo di infanticidio nei confronti del figlio Edipo.

2 – La formazione di Gohar Homayounpour è avvenuta negli Stati Uniti, ma i suoi riferimenti più frequenti sono alla psicoanalisi francese: Kristeva, Lacan , Green sono gli autori più spesso citati. È da immaginare allora una capacità di avere uno sguardo davvero internazionale, che riesce a unire tradizioni così diverse: sarà per questo che la psicosessualità, faglia concettuale e clinica spesso rimossa dalla psicoanalisi americana, compare così insistentemente nel discorso di Gohar: “A Teheran ho trovato la sessualità. Qui, oggi la sessualità è ancora la stessa di Freud” (p.124). C’è da domandarsi allora se la sessualità sia ancora presente nei discorsi sul lettino allo stesso modo che ai tempi di Freud perché l’Iran è un paese “arretrato” (cosa poco probabile), o piuttosto perché essa sia una questione ineludibile nell’esperienza umana, e dunque non cancellabile, dovunque, nelle forme che prende in Oriente ed in quelle che appartengono di più all’occidente, restando l’enigma per eccellenza del discorso umano.

3 – Queste trasformazioni, o ritorni, del discorso analitico ci fanno interrogare sulle trasformazioni in corso nella nostra stessa disciplina, in quanto non si tratta a questo punto soltanto di una trasformazione “interna” alla clinica ed alla riflessione analitica tradizionale, ma di un vero e proprio lavoro di confluenza e “contaminazione” tra linguaggi e culture diverse. Sarà molto interessante valutare allora le trasformazioni che la psicoanalisi incontrerà nella sua diffusione a Teheran, in tutto l’Oriente, o dovunque nel mondo. Ma ancora più interessante sarà osservare in che modo essa stessa “tornerà” nel luoghi della sua fondazione, in Occidente, quanto si sarà modificata e come ci costringerà a fare i conti non solo con qualcosa di permanente (l’ intemporale dell’inconscio) ma con qualcosa d’altro, sensibile invece ai tempi ed ai suoi cambiamenti.

Tiziana Bastianini
Conserviamo forme di Esperienza Psichica

Questa giornata rappresenta per me lo sviluppo di un lungo itinerario che, forse non casualmente, approda nel tema delle Geografie psicoanalitiche con un’attenzione alle Culture più lontane, meno familiari, nel tentativo di introdurre interrogativi inerenti l’universalità degli assunti che usiamo per pensare la realtà e la loro possibile traducibilità. Gohar attraverso il suo libro ce ne dà un’interessante testimonianza.

• Ogni cultura crea la psicoanalisi di cui ha bisogno, sebbene questo avvenga in “maniera inconscia”. Le forme di psicoanalisi che si sviluppano nei diversi paesi, sono a loro volta il risultato dell’influenza esercitata da diverse tradizioni e convinzioni culturali. Tali forze a loro volta influenzano i modi e le forme in cui le ipotesi psicoanalitiche evolvono nelle diverse culture. Così non possiamo mai separare per certi versi, il destino della psicoanalisi dalle mete e dagli ideali della cultura in cui essa prende forma, compreso1 il tempo cui si riferisce. Siamo alla ricerca di quegli elementi invarianti che declinano l’umano nelle forme della realtà psichica che incontriamo.
• Ogni soggetto umano non potrebbe divenire tale senza l’investimento che per prima cosa ci ha fatto oggetti di un desiderio e garanti di una continuità tra le generazioni. Già prima della nostra nascita siamo investiti come esseri umani chiamati a prendere un certo posto nella catena del desiderio o del bisogno di un altro, di più altri. ( Käes)

In questa prospettiva, con la Commissione Scientifica e l’ Esecutivo Nazionale abbiamo dato vita ad un gruppo di ricerca, su progetto di Lorena Preta e da lei coordinato, con uno sguardo internazionale, orientato a cogliere i nessi tra psicoanalisi ed espressioni dello psichico nei diversi contesti culturali [clicca qui per proseguire la lettura]

Lorena Preta
Perché Geografie della psicoanalisi

Cercherò ora brevemente di inquadrare questo nostro incontro in relazione alla ricerca avviata con Geografie della psicoanalisi.
Il rapporto psicoanalisi-culture non può che porsi sul piano di un’interrogazione. Si apre infatti un ventaglio di problematiche che richiedono una molteplicità di risposte. In termini generali potremmo dire che il quesito di fondo riguarda cosa significhi per la psi entrare in contatto con le diverse culture del mondo e con quelle esperienze di psicoanalisi, che ormai si stanno sempre più diffondendo in molti paesi non occidentali.
Nasce una prima domanda di ordine teorico, fondativo: le ipotesi psicoanalitiche possono avere un valore universale? descrivono una dinamica psichica uguale, o simile, per qualsiasi essere umano in qualsiasi contesto storico e culturale-sociale?
L’altra è più tecnica: la psicoanalisi, magari anche rivisitata rispetto ai suoi assunti di base, può aiutare ad affrontare la sofferenza mentale in contesti differenti?Sono due quesiti importanti ma in qualche modo limitanti. Credo infatti che in un periodo di grandi cambiamenti come quelli che stiamo attraversando, di interconnessioni sempre più fitte, questi quesiti rischino di farci relegare il problema all’interno del nostro proprio recinto, cioè quello psicoanalitico. [clicca qui per proseguire la lettura]

Gohar Homayounpour
Una Psicoanalista a Teheran

L’Iran è popolato da 75 milioni persone di cui 13 milioni vivono a Teharan. In Iran lavorano 10 psicoanalisti di cui 3 sono donne. La domanda eccede l’offerta. Negli ultimi anni analisti sono stati formati attraverso supervisioni via telefono. Sono stati attivati dei corsi via Skype e ne è stato avviato uno nella città più religiosa dell’Iran. Vengono insegnanti i fondamenti della teoria di Freud anche da docenti che vivono in paesi dall’altra parte del pianeta e ci impegniamo a seguire le regole dell’IPA. Gli sforzi stanno portando ad una nuova condizione in Iran. A Teheran in cui il sistema a livello macro sociale è patriarcale, il soggetto supposto sapere è l’uomo e una donna non dovrebbe avere il fallo per conoscere l’inconscio. Tutti i riti di passaggio operano per escludere qualsiasi fallo da parte di una psicoanalista donna. Nel momento in cui una donna diventa analista si deve sdraiare sul lettino per recuperare il proprio senso interno di legittimazione. Dal punto di vista degli occidentali c’è una correlazione: L’ Iran è tanto scandaloso politicamente quanto desiderabile infatti in anni recenti si è assistito ad un incremento del desiderio per tutto quello che viene dall’Iran: cinema, fotografia, cultura, per quello che si potrebbe definire l’ “altro esotico”. La mia esperienza relativa a conferenze durante le quali parlo della psicoanalisi in Iran produce fantasie nel pubblico “occidentale” che si aspetta storie esotiche accompagnate da una rifiuto inconscio e segreto. Ho avuto la sensazione di aver deluso l’uditorio quando ho presentato materiale clinico nel quale invece ho evidenziato come sia possibile fare psicoanalisi in Iran. Uno psicoanalista americano mi ha chiesto: gli iraniani fanno libere associazioni? Queste considerazioni potrebbero essere influenzate da una forma di “orientalismo” per cui l’altro, l’orientale, è visto come “inferiore” una visione di cui però gli stessi orientali si sono resi responsabili. Il concetto di inquietante estraneità, la paura dell’altro ritengo sia legato alla paura dello straniero che è in noi: l’altro è la fonte della nostra angoscia ed è il pericolo che ci minaccia. La paura inquietante per l’estraneo non può essere mai confrontata con il nostro inconscio e con la paura per la nostra morte. La paura dell’altro in quanto l’estraneo dentro di noi, la lotta che ingaggiamo contro questo sentimento, è la stessa lotta che ingaggiamo contro il nostro inconscio. Accogliere gli estranei è pertanto accogliere il proprio sé estraneo. [clicca qui per proseguire la lettura]

Silvia Ronchey
Le frontiere sono linee di gesso

“Les frontières sont des lignes de craie sur
le sol que nos peurs sacralisent.”
Louise Michel

È stato Fernand Braudel a insegnarci a guardare la storia europea, in particolare la storia cosiddetta medievale, individuando come sua unità centrale il Mediterraneo e chiamando in causa quello che ha denominato il Mediterraneo Maggiore: la “zona spaziodinamica, che rievoca un campo di forze magnetico o elettrico”, estesa fino al Mar Rosso, al Golfo Persico, all’Oceano Indiano, in cui la civiltà mediterranea si è irradiata, dopo esserne stata in precedenza irradiata a sua volta. Ogni civiltà, secondo Braudel, si misura da questi irradiamenti, poiché “il destino della civiltà è più facile a leggersi nei suoi margini esterni che non al centro”.
Non è un caso che il Mediterraneo Maggiore di Braudel coincida con le zone di attrito, di contrapposizione etnica, di crisi del ventunesimo secolo. Che proprio quelle zone rappresentino oggi il problema maggiore per la storia presente, di cui, da contemporanei, non possiamo che fare la cronaca evenemenziale, quella “degli eventi singoli visti dai contemporanei al ritmo della loro breve vita”. Una storia, quindi, non delle onde lunghe, ma delle increspature brevi, di superficie: una storia-racconto soggetta alla nostra contingente visione e filosofia della storia, se non all’ideologia e alla propaganda politica.
Guardando la storia da questo punto di vista è forse meno difficile comprendere il turbolento esordio del ventunesimo secolo. Faglie di attrito antichissime, preromane e prebizantine, hanno ricominciato a entrare in moto complesso nel momento in cui il fantasma unitario degli imperi — romano, poi bizantino, poi ottomano da un lato e russo-sovietico dall’altro — si è dissolto, revocando quella composizione forzata dei conflitti, etnici anzitutto, che per millenni gli imperi avevano promosso e presidiato. [clicca qui per proseguire la lettura]

Giancarlo Bosetti
Il senso delle distanze

Il libro di Gohar Homayounpour, Una psicanalista a Teheran, racconta con grande vivacità l’esperienza professionale dell’autrice, che si è formata in Occidente e che è poi tornata nel suo paese di origine, l’Iran, sommando le emozioni di un lavoro non proprio famigliare e non ancora acclimatato in un paese musulmano con quelle del ritorno a casa, tipiche dell’esule, con le sue nostalgie, i suoi entusiasmi e le sue delusioni. È un racconto che nasce da un forte bisogno di condivisione, dal desiderio di trasmettere le proprie scoperte ai lettori come in un diario, diretto, sincero, ma nasce anche da una sfida nei confronti del padre che scopriamo traduttore di Milan Kundera nella lingua farsi. Anche lui dunque un uomo con una vita a cavallo di universi culturalmente diversi e attraversato da tensioni analoghe a quelle della figlia.
L’autrice confessa che i libri di Kundera hanno avuto una grande importanza nella sua formazione, sono come diventati parte della griglia attraverso la quale misurare le proprie esperienze analitiche e auto-analitiche. E questo ci introduce alla tensione «geografica» della vita dell’autrice, «geo-psichica», se volete, tra Est e Ovest. Nonostante Kundera abbia raccontato l’esperienza di individui e di una società immersi nel comunismo dell’Europa dell’Est, (o forse proprio per questo) si può dire certo che ci sono pochi libri che, come L’insostenibile leggerezza dell’essere, abbiano rappresentato l’animo occidentale tra gli anni che vanno dal ‘68 della luminosa primavera di Praga, spenta poi dalla repressione sovietica, fino agli anni 80 quando quel libro è diventato un bestseller tra Parigi, Roma e New York. E grazie al padre di Gohar anche a Teheran.
Tutta l’esperienza di Gohar è attraversata dalla tensione tra Occidente e Oriente, tra una società fortemente secolarizzata, disincantata, «spudorata», per citare la postfazione di Lorena Preta, come è spesso quella delle capitali occidentali, da una parte, e una società fortemente segnata dalla tradizione e dalla cultura islamica, in particolare nel campo delle relazioni sessuali e famigliari, tra «leggerezza» e «pesantezza». [clicca qui per proseguire la lettura]
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Conclusioni
Lorena Preta

L’invito che emerge dagli interventi mi sembra sia quello di superare una visione stereotipa tra oriente e occidente nei termini di un’opposizione radicale e irriducibile che trascura le origini comuni e parallelamente anche i diversi e molteplici destini che le varie vicende storiche hanno determinato.
Come ricorda Silvia Ronchey si tende a ricondurre i conflitti ad una semplificante opposizione dualistica e ad “esorcizzare la complessità dei conflitti tra etnie, la trasversalità dei fronti, la molteplicità e complessità delle opposizioni” mentre è la considerazione della storia con tutte le sue contraddizioni e motivazioni che si intersecano l’una nell’altra, che può ridare spessore e verticalità al travaglio conflittuale che caratterizza la vicenda umana. È addirittura la nostra particolare organizzazione psichica, quella occidentale, che ci porta a leggere “ come un unico scontro frontale” quello tra oriente ed occidente e ci porta ad “esorcizzare questo sciame sismico di conflitti, questo disegnarsi continuo e asimmetrico di sempre nuove faglie di attrito.” Occorrerebbe una visione storica verticale ma anche reticolare, come lei ci propone, continuamente volta a far riemergere gli eventi ma collegandoli in maniere non deterministiche ma creative di un senso allargato.
Dal punto di vista psicoanalitico la psiche individuale vive in un costante anacronismo che rende l’esperienza del tempo vissuto, irrimediabilmente sfasata rispetto agli accadimenti succedutisi nel corso della storia personale. Il tempo della psiche è un tempo spiraliforme dove passato e presente, si incrociano e sovrappongono dando luogo ad una presenza costante della storia passata sulla scena del presente, ma anche ad una risignificazione incessante del passato che trasforma il senso del nostro sentire e agire dandogli una prospettiva più ampia e profonda. Continuità e cambiamento rappresentano dei poli finzionali che assumiamo di volta in volta per poterci collegare al prima e ricostruire un senso o poter affrontare il nuovo, apparentemente liberati da un destino predeterminato. Sono strategie di conoscenza che tengono in funzione la complessa struttura del vivente consentendogli quelle trasformazioni che ne garantiscono la sopravvivenza ma anche la creatività.
Le due polarità riflettono inoltre l’oscillazione tra una posizione depressiva in cui si condensa la possibilità di elaborazione dell’esperienza interna e momenti di frammentazione e rotture paranoidi, entrambe però necessarie allo sviluppo della vita mentale.
A livello sociale la considerazione della continuità della storia oppure l’esaltazione dei suoi momenti di frattura, hanno un riscontro nelle mitologie sottostanti le varie culture, le teorie scientifiche, le religioni.
Come Giancarlo Bosetti sottolinea è necessario cambiare l’ottica dell’ interpretazione delle differenze, mettendoci volutamente in posizioni a volte localistiche, “provinciali” rispetto a noi stessi e alla nostra cultura, e a volte riconquistando invece la necessità di un valore universale che vada al di là di quel paese specifico e della sua storia. Troppo spesso ci troviamo a considerare “arretrati” dei paesi che adottano pratiche e visioni dell’uomo e del mondo diverse dalla nostra ma simili a quelle che abbiamo adottato fino ad un recente passato proponendo come “avanzato” un superamento di queste, sulla scia di un’evoluzione storica catalogata come più progredita. Importante invece nell’approccio alle differenti culture, è “capirne la struttura, le gerarchie di valori, il funzionamento anche per cambiare quel che appare indifendibile perché viola la dignità umana”. Questo consente di fare dell’analisi critica delle culture una “palestra pluralista”.
E’ un invito accattivante anche per la psicoanalisi che soprattutto attualmente si vede stimolata a confronti inediti sia con il mondo esterno che con le conseguenti variazioni concettuali e di pratica clinica. Possono non essere delle fratture come quelle evocate nei discorsi storici e politici precedenti, ma sicuramente designano la necessità di una tensione rinnovata e sostanzialmente diversa intorno alla visione stessa dell’uomo.
Tiziana Bastianini si chiedeva all’inizio del nostro incontro, di quale soggetto si parla quando ne affrontiamo una definizione da un punto di vista psicoanalitico. Qual è la linea che separa o meglio contribuisce a definire l’individualità rispetto alla collettività, alla communitas. “Dobbiamo riflettere sui dispositivi che nelle varie culture ci consentano di raggiungere le forme dello psichico in esse prodotte”. E si chiedeva se gli elementi che lo caratterizzano in ogni cultura possano essere per esempio le emozioni da tutti i punti di vista anche del loro sostrato neurofisiologico.
Come ci ricorda Gohar Homayoumpour parlando dei sentimenti di base che ci accomunano tutti, possiamo ricomporre intorno a questi una comprensione più profonda e precisa di queste esperienze senza prescindere dalle espressioni che culturalmente danno loro forma. Soprattutto, io penso, possiamo recuperare il senso del fare terapeutico che, districandosi nei meandri delle diverse manifestazioni e dei differenti linguaggi, trasforma in intervento trasformativo il disagio e rimette in circolazione il suo senso profondo.
Perché la psicoanalisi sia capace ancora al giorno d’oggi di operare in questa direzione è necessario confrontarsi con le diverse visioni antropologiche e allo stesso tempo creare una movimentazione e una disarticolazione al loro stesso interno che possa far emergere la pluralità dei significati che spesso sono imbrigliati o immobilizzati dalla consuetudine della tradizione.

(1) Vedi Report Seminario internazionale geografie della psicoanalisi – Pavia 2012
(2) “Psiche” numero 1/2008