Cultura e Società

La Repubblica 21/04/20 I Polacchi sul Crescentone. I miei eroi. A. Spadoni

24/04/20

La Repubblica

 21 aprile 2020

Edizione locale di Bologna

 

I Polacchi sul Crescentone. I miei eroi, ero un ragazzo

 di Alberto Spadoni

 

Introduzione: Come non dimenticare e identificarsi nella resilienza dei Polacchi, eroi della guerra di un tempo antinazista e antifascista, mentre ci confrontiamo con l’insidiosa guerra di oggi anti Covid 19!

Alberto Spadoni, psichiatra, membro ordinario della Società Psicoanalitica Italiana e  dell’International Psychoanalytical Association, indomito decano del Centro Psicoanalitico Bolognese, testimonia col suo vitale ricordo il coraggio, l’integrità e il rispetto dei combattenti polacchi nella guerra di Liberazione (Maria Naccari Carlizzi).

 

La Repubblica

Edizione locale di Bologna

21 aprile 2020

I Polacchi sul Crescentone I miei eroi, ero un ragazzo

di Alberto Spadoni

 

Chi li ricorda più i valorosi soldati polacchi che furono i primi a doversi difendere dalla furia nazista nel settembre del ’39 e gli ultimi a deporre le armi nell’aprile del 1945. Chi ricorda più che, a testimonianza di tenacia e preveggenza, cento piloti polacchi sfuggiti alla cattura raggiunsero nel gennaio del ’40 gli aeroporti di Londra con una fuga rocambolesca di tremila km., attraverso la Romania, dove gli vennero confiscati gli aerei, poi la Serbia, l’Italia e infine la Francia? Li guidava il trenta- seienne maggiore Zdzislaw Krasnodebski che diresse le loro squadriglie di Hurricane e Spitfire nella vittoriosa battaglia per la salvezza dell’Inghilterra nell’agosto-settembre del ’40. Assegnati all’aeroporto di Northolt, dieci miglia a ovest di Hyde Park, con il comandante inglese parlavano francese.

Ventinove di loro persero la vita.

Chi li ricorda più i valorosi soldati polacchi del generale Anders, che, scampati miracolosamente ai nazisti nel ’39 e ai plotoni sovietici del ’40 (la strage di Katyn!), finirono reclusi, decimati dal freddo e dalla fame, nei gulag siberiani al di là degli Urali, sotto Arcangelo, per il delirio persecutorio di quel pazzo assassino di Stalin. Pieni di rabbia impotente vi rimasero tre anni, a tagliar boschi nel gelo.

Con loro c’erano molti civili, donne e bambini, i primi a morire. Finalmente negli ultimi mesi del ’42, incoincidenza con l’imminente vittoria di Stalingrado, il vento prese a cambiare e il tiranno, grazie alla miracolosa mediazione di Churchill, decise di liberarsene. Ottennero così di avviarsi verso sud, con un viaggio disastroso in un treno primitivo senza acqua né cibo per diverse migliaia di km. Gli era stato detto che in Uzbekistan, nei pressi di Samarcanda, li attendeva un campo di raccolta.

Poi in nave, attraverso il mar Caspio fino in Persia; da ultimo in Palestina per contarsi, indossare la divisa inglese e riprendere a combattere eroicamente nell’ottava armata di Montgomery, dal dicembre 1942 alla primavera del ’43 in Libia e Tunisia, dallo sbarco del ’43 all’aprile del ’45 in Italia. Si sa che i loro attacchi furono determinanti a Cassino, a Ortona, Ancona, in Romagna.

Questo nei libri, non nella memoria degli italiani, anche di quelli che stando al riparo li videro passare coperti della polvere delle nostre strade.

Quando l’esito della guerra era già palese le truppe naziste erano ancora aggrappate come zecche al nostro martoriato Paese e per sradicarle occorse la tenacia e l’ardire dei soldati polacchi.

Ma chi lo ricorda più? Nessuno, a giudicare dall’assenza di visitatori nei Cimiteri di guerra di S.Lazzaro (Bo), di Ancona e in quello ancor più vasto di Cassino, persino nei giorni rituali della Liberazione. Eppure dai libri e nel ricordo dei vecchi è ben evidente il fatto che dove la difesa nazista si faceva accanita, lì era necessario per vincerla l’eroismo delle truppe polacche, che non chiedevano sostituzioni prima d’aver sbaragliato il loro storico nemico.

Determinanti furono i polacchi a Ravenna, dove i nazisti avevano minato le chiese bizantine.

E chi corse a disattivare le mine appena in tempo per salvare i nostri tesori?

Se lo si chiede in giro, nessuno lo sa, neppure in Romagna. Le foto e i filmati d’epoca mostrano le jeep dei polacchi che entrano nel centro storico di Bologna dopo aver vinto l’ultima sanguinosa inutile battaglia. I polacchi erano soldati speciali anche in libera uscita, diversi da tutti gli altri, per lo stile garbato e un tantino cerimonioso dei loro approcci con i “liberati”. Le contadine romagnole rimasero sbigottite dal baciamano dei soldati polacchi. Non poche tirarono indietro la mano per il timore d’esser derubate della fede, com’era capitato con soldataglie asiatiche arruolate dalla Wermacht. Non erano belli e dinoccolati come gli americani, ma erano molto simili a noi, alla nostra gente di campagna, medesima statura, stessa corporatura massiccia, stessa facilità a familiarizzare.

Colpiva subito la loro affidabilità e la loro modestia, a differenza degli altri soldati che cercavano l’avventura.

Erano cattolici scrupolosamente osservanti; gli unici che subito dietro la linea del fronte assistevano imperterriti alla messa.

Questo spiega i molti matrimoni che vennero celebrati nell’immediato dopoguerra fra i militari polacchi e le nostre ragazze.

Non poche, dopo le nozze, se ne sono andate con loro in Sudamerica e in Canada dove hanno fatto carriera.

Perdemmo presto i contatti.

Un’altra particolarità che nessuno ricorda riguarda il divieto, impartito dal loro comando, di frequentare i casini, nei pressi dei quali balzava agli occhi la scritta stampata sui muri Ulica Sakazana, strada proibita. Ce n’era una di queste perentorie intimazioni sotto il portico fra il cinema Medica e l’imboccatura di via degli Usberti. Il divieto riguardava solo loro: la fila degli americani si allungava fin dentro il largo Montegrappa.

Una particolarità che ci riguarda.

Il governo di Londra in segno di gratitudine offrì ai soldati polacchi la cittadinanza, ma a condizione che non fossero sposati con un’italiana.

Forse speravano di sistemare le tante vedove di guerra, e non solo loro.

 

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