Cultura e Società

Lucian Freud (Berlino 1922 – Londra 2011)

22/07/11

Del rapporto con il celebre nonno
Sigmund, Lucian Freud si limitava per lo più a ricordare che ad entrambi
piacevano i cani, e le storielle di Max e Moritz. Max e Moritz? Chi erano
costoro? Incuriosita, ho subito cercato lumi navigando in quell’odierna
biblioteca di Alessandria che è Internet, scoprendo che trattasi dei
protagonisti di un volume per l’infanzia pubblicato per la prima volta nel
1865, diffusissimo in area tedesca e che si è soliti ormai definire un antesignano
degli odierni fumetti. Testi in versi e grafica dello stesso scrittore, l’umorista
W. Busch, humor nero e grottesco sapientemente mescolati; i due protagonisti,
Max e Moritz, sona una specie di Bibì e Bibò molto molto più cattivi, due
bambini terribili  – böse Kindern – che
ordiscono scherzi e trappole crudeli ai danni di chiunque capiti loro a tiro.
Due piccini malvagi e senza cuore, che per le loro malefatte finiranno puniti
in modo atroce: chiusi in un sacco di frumento, gettati sotto la macina di un
mulino, e i corpi smembrati e triturati dati poi in pasto alle oche – insomma,
brividi nella migliore tradizione “dark” dell’immaginario tedesco, basti
pensare a certe fiabe dei Grimm!

Lucian dunque leggeva insieme al nonno
di questi due polimorfi perversi senza casa né legge, di due perfidi e
irriverenti ribelli nei confronti della piccola comunità contadina in cui
vivevano, e ricorda: “… mio nonno era straordinariamente comprensivo e
divertito”.  Molto di più non è dato
sapere. Il grande pittore inglese appena scomparso era di leggendaria
riservatezza e burberamente schivo, per quanto a proprio agio sia nel bel mondo
che negli ambienti più malfamati.

Nato a Berlino nel 1922, ed esule con la
famiglia a Londra nel 1933 -il padre Ernst, architetto, era l’ultimo figlio di
Sigmund Freud – trascorse nella capitale inglese una giovinezza inquieta e
ribelle, espulso da diverse scuole e tra amicizie disordinate e chiacchierate.
Alla morte del nonno, rifugiatosi anche lui a Londra da appena un anno per
sfuggire alla follia nazista, Lucian aveva 17 anni, e dopo aver peregrinato tra
diversi istituti cominciava il suo primo apprendistato in una scuola d’arte.

Lucian Freud, divenuto famoso, amava
ostentare una sorta di disinteresse o svagata considerazione per il pensiero e
gli scritti psicoanalitici del nonno: “Ho letto le storie dei casi clinici, e
il suo volume sul motto di spirito, l’ho scorso da cima a fondo per cercare
storie comiche”.

Di comico nell’opera di Lucian Freud c’è
ben poco, e assai più c’è invece di quel disagio e
sofferenza a cui Sigmund Freud aveva dedicato la sua ricerca e il suo lavoro.
La materia con cui si confrontavano Lucian nel suo laboratorio d’artista, e
Sigmund nel suo gabinetto clinico, non erano poi così dissimili.

Nell’atelier di Lucian Freud si è
invitati a spogliarsi dei propri abiti, e l’indifesa nudità che si espone è
rivelazione di sé, del proprio disagio e sofferenza. Se in senso metaforico ciò
è quanto avveniva nello studio di Sigmund Freud e di ogni psicoanalista dopo di
lui, potremmo dire che nello studio del nipote questo avveniva letteralmente, e
nella densa matericità dei corpi dipinti si esprime una lucida e spietata
introspezione psicologica. “È quello che c’è nella testa delle persone che
importante per me”, ha affermato l’artista, aggiungendo che: “Tutto è
autobiografico e tutto è ritratto”.

C’è dunque una sorta di continua
autoanalisi attraverso la pittura, un’ansia di conoscenza che ossessivamente lo
spinge ad esplorare i corpi per cercarvi il mistero del pulsare della vita,
cosa c’è sotto la pelle, cosa c’è dentro, come accade al bambino di fronte al
corpo della madre. Lucian Freud lo fa con freddezza e con uno sguardo privo di
idealizzazione o sentimentalismi, con forza e impietosa determinazione, benché
senza quella distruttività con cui il suo amico Francis Bacon abbatteva i
confini dei corpi. È come se l’indagine di Lucian Freud mirasse a cercare nei
suoi modelli, riflessi come in uno specchio, aspetti di sé, anche quelli più
perversi, sordidi e disperati. Il suo celebre nonno ci ha insegnato che tra il
normale ed il patologico non vi sono netti confini, è solo questione di
intensità, e come per la massima di Terenzio, in quanto uomini, nulla di ciò
che è negli altri uomini può esserci estraneo o inconcepibile.

Sia che dipinga mogli, figli (i
pettegolezzi gliene attribuiscono più di venti tra legittimi e non), amanti,
personaggi dell’élite aristocratica o intellettuale, gente comune o ai margini
della società, Lucian Freud ha sempre cercato di ri-trarre – ossia di “tirar
fuori” dai suoi modelli – l’essenza della loro irriducibile e singolare
individualità umana, laddove li privava di qualsiasi caratterizzazione sociale,
professionale, relazionale. Conta solo ciò che parla attraverso il corpo. Nulla
suggerisce che quel sensuale e vibrante nudo femminile sia la top model Kate
Moss, e l’assenza di regalità dal volto spiegazzato di casalinga di Elisabetta
II, è quasi forzosamente e incongruamente compensato dalla corona d’ordinanza.
I numerosi ritratti della madre del pittore ci restituiscono una donna assorta
nel suo isolamento depressivo, in una dura chiusura alla vita dopo la morte del
marito: il figlio ha sentito di poterla ritrarre solo allora, quando per lei
nulla contava più. Solo allora quel figlio prediletto, inquieto, ribelle,
donnaiolo, che in famiglia era chiamato Lux con lo stesso nomignolo di lei, ha
potuto accostarsi alla madre dal cui amore esclusivo ed oppressivo era fuggito
via.

Colpiscono, nei quadri di Lucian Freud,
il degrado e la desolazione degli ambienti spogli, che fanno da sfondo a corpi
per lo più svestiti, realisticamente dettagliati nelle loro flaccidezze,
protuberanze, tensioni o abbandoni. Costretti in pose scomode o sgraziate, con la
composizione a volte tagliata di sghembo, a volte con visuale dall’alto, questi
corpi comunicano a chi guarda un senso di minacciosa incombenza, di pesantezza
per la troppa realtà  che grava su di
loro. Tutto ciò che la compiaciuta coscienza di sé dell’homo sapiens vuole
negare o allontanare – l’animalità e la pulsionalità che lo attraversano, la
vulnerabilità e il decadimento che ne minano l’esistenza – è espresso da Lucian
Freud nella carne dei suoi dipinti, che rivelano l’angoscia e il disfacimento
ma anche l’illuminarsi vitale del colore. “Il ritratto è segno di un’assenza,
espressione di una nostalgia, risposta alla morte”, afferma lo storico
dell’arte Édouard Pommier. Per Lucian Freud, di fronte alla tragica
consapevolezza della transitorietà dell’esistenza umana, l’unica forma di
permanenza è quella offerta dall’arte, passione tenace a cui l’artista ha
continuato ad aggrapparsi così come la modella nuda, sua ultima giovane amante,
si aggrappa all’ottantaduenne pittore nell’autoritratto fatto apposta per la
mostra di Venezia di qualche anno fa.

Maria
Grazia Vassallo Torrigiani

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