Cultura e Società

Prima settimana Commento di Pietro Roberto Goisis, Maria Teresa Palladino, Cristina Saottini

1/12/15

In Treatment – 2° stagione – 1° settimana

Ci vogliono tre psicoanalisti per cercare di capirne uno

Pietro Roberto Goisis, Maria Teresa Palladino, Cristina Saottini

“Chissà come sta il dottor Mari…”

Questa domanda non certo peregrina è sorta spontanea nel gruppo di colleghi che si stanno accingendo a commentare la seconda stagione di In Treatment. Ci eravamo accorti che nei nostri commenti della serie precedente era diventato implicito considerare il nostro “collega” della fiction come un altro dei pazienti sui quali riflettevamo. Era stata la sua umanità, la sua fragilità, i suoi tentennamenti, gli errori e le difficoltà che ce lo avevano fatto sentire vicino come se fosse una delle persone di cui ci occupiamo.

La prima puntata della nuova stagione, infatti, ci fa incontrare un Giovanni Mari proprio “stropicciato”,forse svegliato dal padre di un suo ex-paziente, Dario, arrabbiato con lui per la morte del figlio avvenuta in circostanze drammatiche. La rabbia di questo padre, ex magistrato, prende la forma di una citazione in giudizio.

Giovanni, come è naturale, si rivolge a un avvocato, ma non trova nulla di meglio che approdare a una sua ex paziente, Irene, che aveva seguita in una breve tranche di terapia circa vent’anni prima. Il colloquio è piuttosto burrascoso e si snoda fra le attuali preoccupazioni del terapeuta e le antiche rimostranze della paziente, ora affermata e prestigiosa avvocatessa.

Cosa può aver spinto il Dottor Mari a fare una richiesta così inopportuna?

In questa puntata gli sceneggiatori hanno affiliato ufficialmente il dottor Mari alla Società Psicoanalitica Italiana.

Siamo incuriositi da questa attribuzione inaspettata e del tutto virtuale.Ci sembra inutile precisare che siamo nel campo della fiction e che l’appartenenza alla SPI è solo nella fantasia degli sceneggiatori. Contemporaneamente la citazione testimonia dell’importanza e ruolo di riferimento che la Società rappresenta ormai da tempo nell’immaginario collettivo.

Certo se fosse uno psicoanalista della SPI sarebbe passibile davvero di una segnalazione alla Commissione Deontologica: i suoi comportamenti professionali sono stati più volte sul filo dell’imprudenza quando non del superamento dei confini.

Con Sara, con Dario e ora anche con Irene.

Il codice etico dello psicoanalista stabilisce che una relazione sessuale, seppure non agita, con una paziente non sia mai accettabile e in nessun modo è consentito approfittare delle opportunità e competenze che ci possono derivare dalla frequentazione dei nostri pazienti.

In realtà, con tutta probabilità, se fosse uno psicoanalista della SPI sarebbe anche più attrezzato nel confrontarsi con i propri movimenti emotivi e avrebbe più strumenti per affrontare la complessità delle situazioni che si possono presentare a un terapeuta nella sua pratica quotidiana.

Un’altra domanda sorge spontanea: la reazione di Irene lascia capire che Mari non si era sintonizzato con il disagio provato da lei quando l’aveva inviata a un’altra terapeuta. Evidentemente non l’aveva aiutata a elaborare questo cambiamento e non aveva capito quanto fosse stata emotivamente costosa per lei questa separazione. Quindi rivolgersi a Irene non sembra solo inopportuno sul piano deontologico, ma è anche rivelatore di una sua opacità, di una mancanza di attenzione presuntuosa: cosa si aspettava da lei?

Mari è provato in questo momento della sua vita personale e questo si riflette nella sua vita professionale: è confuso, incerto, ha dubbi sul proprio lavoro e le proprie capacità, sensi di colpa. L’inizio è molto difficile. Fin da subito è messo in scena il tema della confusione tra la sua vita e la sua professione di terapeuta: con Irene vuole ritrovare un contatto personale dopo una interruzione professionale. Perché? Forse il suo senso di colpa inconscio lo porta a cercare un inevitabile rimprovero in un momento in cui è lui a essere in crisi?

Nella seconda puntata Mari sembra riprendere un po’ della sua naturalezza nel rapporto con il piccolo Mattia, figlio di Lea e Pietro, già conosciuti come coppia estremamente conflittuale nella precedente stagione. Il suo desiderio di entrare in contatto con il ragazzo riflette probabilmente quello di conservare un buon rapporto con suo figlio al di là delle tensioni con la ex moglie che  i conflitti tra Lea e Pietro gli evocano.

Non è cosa semplice dare voce al ragazzino schiacciato tra una madre iperprotettiva e un padre sfidante che lo vorrebbe tutto d’un pezzo. Forse un po’ gli ricordano i suoi genitori che inutilmente ha cercato di “salvare” da bambino?  Certo con Mattia Mari si sintonizza con una facilità che il ragazzino coglie e sembra rispondergli con più fiducia e in modo più interlocutorio, ma poi arrivano i genitori e riprendono i movimenti avanti e indietro, in bagno, in ingresso. Un via-vai che Mari osserva con gentilezza e comprensione, ma come un passeggero un po’ stranito e preoccupato.

Con il terzo paziente Giovanni sembra riprendere un po’ di competenza e di tranquillità. Certamente Guido, un manager, un uomo apparentemente molto sicuro di sé, un paziente molto diretto che ingaggia immediatamente il terapeuta nella relazione, costringe il dottore a muoversi dentro la seduta, probabilmente meno influenzato dalle proprie vicende esterne. L’incontro avviene di sera e, per la prima volta, torniamo a vedere un’ambientazione scenografica caratterizzata dai toni scuri e dall’illuminazione soffusa. Colpisce vedere nelle altre puntate uno studio chiaro e luminoso, assai differente dall’ambientazione cui eravamo abituati nelle precedenti stagioni. È difficile stabilire se la luce, nella ricerca introspettiva, sia un fattore favorente o distraente. È vero che generalmente associamo all’introspezione dei toni più oscuri…

Come sta a questo punto il dottor Mari? Un po’ meglio…

Il paziente Guido sembra molto interessante. Potremmo considerarlo quasi una figura centrale, una sorta di paradigma del paziente dei giorni nostri. È un uomo molto diretto, che ci convoca alla rapidità, che ci offre una disponibilità limitata di tempo, poco abituato alla riflessione e alla introspezione, ma contemporaneamente, se sappiamo toccare le giuste note, curioso e interessato alla prospettiva di pensiero che uno psicanalista gli può offrire. È una bella sfida, ovviamente! E’ estremamente stimolante e forse funge anche un po’ da antidepressivo per il nostro terapeuta, che nella sfida sembra rianimarsi virilmente, come se il paziente sollecitasse sue aree più energiche, più identificate con il valore proprio e del suo lavoro.

Il giovedì arriva nello studio la quarta paziente, Elisa. Come già detto in altre occasioni, pensiamo che Giovanni offra le sue migliori prestazioni quando a che fare con pazienti giovani. In questo incontro difficile sembra attento, vicino alla paziente, in un contatto contemporaneamente rispettoso e partecipe. È stato capace di cogliere rapidamente il problema centrale della paziente, quello della fiducia. Anche Elisa è una paziente paradigmatica, richiedente da un lato, ma sfuggente dall’altro. Una di quelle persone che prima di fermarsi in uno studio hanno bisogno di incontrare  e saggiare altre figure professionali, di metterle a confronto, di capire con quale interlocutore l’incontro possa essere più proficuo e opportuno. Fa bene Giovanni a parlarne con franchezza, non svalutando il collega precedentemente incontrato, ma cercando di utilizzare a fini terapeutici l’esperienza avuta dalla paziente, anche se questa viene dichiarata fallimentare. Qui la domanda di Elisaè sfidante come se, piuttosto che sfidare la malattia, sfidasse il terapeuta cui cerca di consegnare la parte che vuole tentare di guarire, costringendolo in una posizione oggettivamente molto difficile. Come fare a salvare Elisa, convincendola a curarsi? Quanta potenza può avere un terapeuta oltre a quella della parola? Sono domande inquietanti di cui parlerà con Anna.

Infatti di venerdì il dottor Mari rivede Anna, quella figura imprecisamente oscillante fra un supervisore e un terapeuta che abbiamo già conosciuto.

Anna sembra mostrare quella dolcezza un po’ affettata di quando non è ben chiaro quanto profondo sia il disagio di chi ci troviamo davanti e cosa si possa fare per lui, quale sia la nostra funzione. Anche lei sembra preoccupata e a tratti sembra trattare Giovanni come un bambino pronto a esplodere che deve essere tenuto ad ogni costo tranquillo.

E’ ricca di buon senso, ma anche un po’ sedativa.

E’ in questo incontro che emergono i temi salienti di questa prima settimana: una figura di terapeuta stanco, confuso, con una idea del lavoro molto penosa e faticosa e molto,troppo, interferito tra vita professionale e personale. Certo il nostro lavoro è sempre attraversato da tante tensioni: in primis dal rapporto col paziente, poi dal rapporto con la propria vita, poi quello del contesto in cui questo avviene. Potremmo però chiederci come mai nella fiction, attraverso le fatiche di Mari, venga proposta una visione della nostra  professione così afosa, una specie di purgatorio, mentre ne venga trascurata la vitalità, la creatività, il piacere.

Certo è un mestiere impegnativo sul piano emozionale, ma anche molto vitale, perché consente il contatto con la bellezza che deriva dalla scoperta di come funziona la mente, propria e altrui, e con il piacere di vedere riprendere energia e desiderio in vite prima vissute con dolore o senza un senso pieno.

Siamo solo agli inizi ovviamente della serie e della stagione televisiva. Fa piacere sottolineare l’estrema bravura degli attori, la loro grande capacità di immedesimazione ed interpretazione nei ruoli e nei personaggi a loro affidati. È piacevole vederli e ascoltarli, come normali esseri umani in un momento di difficoltà.

A questo proposito ci è sembrato di cogliere nella prima settimana una sorta di filo rosso che può riguardare il tema dell’oscillazione fra forza e debolezza. Praticamente in ogni paziente, in ogni puntata, qualcuno ha parlato di forza, qualcuno ha citato la debolezza, tutti si sono in qualche modo confrontati con l’estrema delicatezza e difficoltà nel prendere contatto con le proprie aree fragili e problematiche. Timorosi che questo potesse significare la rinuncia o la perdita di una posizione di forza o di competenza.

Anche questo ci sembra un tema di grande attualità, ancor più centrale in un momento di grande inquietudine come quello che il mondo e le persone di buona ragione stanno vivendo in questi giorni.

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