Cultura e Società

Settimana 7 Commento di Chiara Napoli e Elisa Alice Pellerano

12/01/16

In Treatment seconda stagione – 7° settimana

Quanti psicoanalisti ci vogliono per sostituire una lampadina?

Commento di Chiara Napoli e Elisa Alice Pellerano

Che ne sarà di Mari? E dei suoi pazienti? E di noi che tratteniamo il fiato chiedendoci: “Adesso?”. Così come in quegli scatoloni, cosa c’è nell’ultima settimana di terapia, proprio quando al termine di un faticoso processo se ne dovrebbero raccogliere i frutti? Si ha la sensazione di un troppo, troppe situazioni lo hanno colpito profondamente. É l’uomo che entra in scena, fuori dallo studio, alle prese con i propri lutti e le responsabilità personali, ancor prima che legali. Umano, tanto umano.

E ci si sente chiamati a rispondere ad innumerevoli domande molte delle quali rimangono sospese. Ce la farà a ricominciare? Dove saranno portati quegli scatoloni? Quali delle sue cose andranno con lui e quali saranno perse? Quali legami resisteranno alla distanza? Sembra il momento degli addii. Anche noi ci sentiremo un po’ più soli e, forse, con un pizzico di curiosità in più verso noi stessi in quella stanza.

E se provassimo a pensare ai tanti interrogativi di questa settimana, che i pazienti gli portano, come qualcosa di lui, qualcosa che lo rappresenta? C’è un ritmo che scandisce il tempo delle separazioni, fino alla partenza verso un domani ignoto, che assumerà quella forma che l’esperienza gli avrà lasciato.

Lunedì. E’ il momento di Irene: la paura di non avere figli, di non essere feconda, di rimanere sterile come sembra che la sua storia la costringa ad essere. È troppo disperata per aspettarsi che qualcuno sostenga questo suo progetto? Oppure la maggiore consapevolezza di se stessa, ma soprattutto dei suoi limiti le permetterà di sperarci ancora? Cosa nel suo percorso l’ha cambiata? Sembra che sopravvivere ai propri lutti con la voglia di riprendere a vivere, sia uno degli scopi più importanti del farsi aiutare.

E Mari ce la farà? Riuscirà a rivitalizzare se stesso e i suoi rapporti, nonostante tutto? Potrà tornare ad essere creativo e pieno di entusiasmo come noi l’abbiamo conosciuto? Partirà per stare meglio oppure per scappare da se stesso, rinunciando ai propri sogni, alla sua professione, a qualcosa che ha tanto amato e che ora non si sente più in grado di fare?

Fare i conti con se stessi, certo, rischia di far perdere la speranza, ma forse permette anche di muoversi verso un mondo più libero, più consapevole dei propri limiti.

Ma c’è dell’altro. Martedì. Mattia, Pietro e Lea: una costellazione familiare dai legami interrotti, si muove verso scelte e compromessi dolorosi, che a volte sembrano molto difficili da capire. Lasciare un figlio, lasciare i pazienti, perchè non ce la si fa più, perchè se si resta è peggio, come a dover scappare per sopravvivere. La speranza è altrove, in una sospensione – o interruzione – in cui ritrovare quei pezzi di se stessi che si sono persi nelle tante separazioni. Ci si sente prosciugati, aridi, incapace di dare, di risuonare, come una buona madre o un buon terapeuta forse dovrebbe farebbe. Ma il figlio, come il paziente, lasciato solo avrà chance di farcela?

E Mari, rimasto senza padre, come potrà superare e ricucire questo dialogo incompiuto? Un po’ come per Mattia con la sua mamma, potrà farlo solo se avrà ricevuto abbastanza nella sua storia e nei tanti legami importanti della vita. Ci riuscirà? Forse sì, se avrà la possibilità di essere meno arrabbiato e di riconciliarsi con se stesso. Sì, se avrà la possibilità di chiamare qualcuno quando c’è bisogno. Sì, se saprà non sentirsi solo anche quando sarà da solo davvero.

Mercoledì. Guido: apre lo scenario su quanto sia difficile provare le cose. La faticosa conquista di vivere le emozioni che lo abitano sembra lentamente liberarlo dall’angoscia di non conoscerle, di non capire cosa faccia mancare l’aria all’improvviso. C’è una consapevolezza nuova oggi, un’alternativa al bisogno di fuga nelle esplosioni di panico.

Ma c’è anche una richiesta. Quella di comprendere davvero l’intimità, con se stesso e con gli altri: c’è lui – padre – che non si è sentito capace di esserlo fin in fondo, con una figlia che è andata lontano, ma c’è anche lui – figlio – che ha desiderato tanto essere nei pensieri del proprio genitore distante. La novità sta nel fatto che ora per lui sia possibile avvicinarsi a tutto questo.

E noi rimaniamo interdetti dalla reazione di Mari: è solo una fuga chiedere di aumentare le sedute? Non c’è più spazio a sufficienza in lui per gioire di questa nuova prospettiva? Come in una sorta di inversione delle parti, ora è l’analista a non poter più sostenere l’intimità e la passione della relazione terapeutica: il contatto profondo con sé stesso e con il mondo interiore dei suoi pazienti. Qualcosa lo tiene lontano dalla sofferenza propria e dell’altro. E’ entrato in crisi? O è per via di quella responsabilità che si porta dietro nonostante le rassicurazioni processuali? O ancora per la morte del padre? Sembra uno di quei momenti in cui il significato delle proprie scelte viene messo in discussione e non c’è strumento professionale che protegga. Servirebbe qualcosa per riaccendere il desiderio di andare oltre, il piacere di interrogarsi su cosa si sente e cosa si prova. Così Guido va via, confuso quanto noi, con una domanda a fior di labbra: “e con queste emozioni cosa dovrei farci?”.

Giovedì. Elisa: la cura funziona e fa diminuire quella massa che minaccia la sua sopravvivenza. Ma nonostante riconosca l’aiuto che ha ricevuto vuole interrompere la terapia. Gratitudine e senso del limite, in un “va bene così, oltre non voglio andare!”, sembra la comunicazione che accompagna questo episodio. Il desiderio di curare e di stare meglio. Due prospettive diverse: complementari e simmetriche. Elisa deve scegliere, nessuno se non lei può decidere cosa fare della sua vita. Di fronte a questo non c’è insistenza che regga: puoi aiutare solo chi desidera davvero essere aiutato.

Certo a questo punto non si sa proprio più di chi stiamo parlando. Abbiamo capito che dentro a Giovanni cresce inesorabilmente qualcosa che gli impedisce di superare il dolore, di amare e di lavorare. E così si arriva a venerdì. Anna: il colpo di scena. Mari chiede di interrompere il suo percorso terapeutico. Come per i suoi pazienti la terapia funziona, ma non sempre basta a far ritornare la voglia di vivere. C’è qualcosa che non può essere digerito ora, un groppo sullo stomaco che ha bisogno di essere assimilato.

Abbiamo guardato a questa settimana come ad un percorso, in cui ci è parso che ciascun paziente abbia portato a galla un pezzetto di Giovanni. Da principio lui era costretto nel sentirsi bloccato a procreare, a portare avanti sogni, bambini, progetti, impossibile da soli, se non c’è un altro che aiuti nel farlo. Ma poi abbiamo visto non era solo questo. Perchè infatti, pur potendo avere figli, può succedere che si scelga dolorosamente di lasciarli per cercare se stessi. Il problema sembra dunque l’avere un buon partner, come dice Lea a Pietro chiedendogli: “me la puoi dare una famiglia”? Ma poi, no, non si ha l’impressione che ci si fermi neanche a questo, perché quando il compagno c’è – Guido che chiede a Mari di fare insieme il viaggio – ed è entusiasta e ti vuole e sogna di camminare insieme, nemmeno questo basta.

Perché forse c’è un punto in cui perdi la strada, e se la strada è persa devi provare a ritrovarla. C’è un momento in cui vorresti azzerare tutto e recuperando la frase di Elisa: “ho ventitré anni e il cancro, dove vuole che vada? Se potessi tornerei solo indietro. A casa.”.

Si conclude il viaggio di Mari e dei suoi pazienti. Chissà se ci sarà un’altra casa dove accogliere i suoi pazienti. Chissà se lo scatolone delle lampade e dei paralumi, il primo che viene inquadrato, rientrerà in un altro studio.

“Quanti psicoanalisti ci vogliono per sostituire una lampadina? Uno. Ma la lampadina deve proprio desiderare di essere cambiata”. E, aggiungeremmo noi, ci vuole anche anche uno psicoanalista che voglia davvero farlo.

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