
Parole chiave: adolescenza, suicidio, bullismo, cinema e psicoanalisi
Cinemente: Il ragazzo dai pantaloni rosa. Recensione e report della serata
di Giuseppe Messina
La rassegna Cinemente 2025, giunta ormai alla sua undicesima edizione in collaborazione con il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, è intitolata quest’anno “Forme della distruttività” e cerca di contattare, attraverso l’arte, le molte declinazioni della distruttività umana a cui assistiamo sempre più frequentemente nel tempo presente. Il progetto è trainato, come di consueto, da Fabio Castriota, analista con funzioni di training della nostra Società e del Centro Psicoanalitico di Roma, e prevede la proiezione di un film cui segue la discussione della sala con la regista insieme a due analisti, uno senior e uno junior: per questa serata, rispettivamente Alessandro Bruni (CdPR) e Leonardo Spanò (CPdR).
L’incontro del 22 maggio è stato dedicato ai temi della violenza, del bullismo, del cyberbullismo e del suicidio. Il film scelto per raccontare questi temi è Il ragazzo dai pantaloni rosa, tratto da una storia vera: la vicenda di Andrea Spezzacatena, quindicenne suicidatosi a Roma nel 2012 in seguito ad atti di bullismo e cyberbullismo a sfondo omofobico. Il film prende ispirazione dal libro di Teresa Manes, madre di Andrea, intitolato Andrea oltre il pantalone rosa, e si avvale dello studio delle vicende processuali e dell’incontro diretto tra la madre e la regista Margherita Ferri.
La regista, al suo secondo lungometraggio, ha commentato a fine serata che il suo intento era quello di raccontare una storia nella convinzione che il racconto delle storie può cambiare la visione, il mondo. Si potrebbe aggiungere, da analisti, che le storie non sono immodificabili e spesso nemmeno sono state scritte: sono ancora materia informe e hanno bisogno dell’incontro con un altro per potersi scrivere o riscrivere. Basti pensare al processo di storicizzazione che ogni giorno cerchiamo faticosamente di mettere in atto insieme ai nostri pazienti, processo a cui si è riferito il collega Leonardo Spanò durante il suo intervento.
Il film si apre con suoni, singhiozzi e pianti, poi un grande urlo: “non ce la faccio”, è Teresa, la madre di Andrea (interpretata da Claudia Pandolfi) che sta partorendo. Seguono parole: “sono otto ore che non vuole uscire”, poi la nascita e il desiderio immediato di avere Andrea sulla sua pelle. Una scena che rappresenta tutta l’ambivalenza del parto e della nascita, tra desiderio di trattenere ed espellere.
Il film è narrato in prima persona da Andrea, che dice: “avrei avuto ventisette anni, se non mi fossi… vabbè, avete capito”. Questa modalità auto-canzonatoria, che unisce tragico e comico, accompagna tutta la narrazione. Si susseguono scene dell’infanzia con la famiglia, le giostre, lo sguardo orgoglioso della madre, le tensioni con il padre, i litigi, il rifugio in libreria con il fratello, il ricordo delle Pasque di rinascita in Calabria.
Tutto questo rappresenta il tempo dell’infanzia, il tempo del bambino parlato dai genitori, sul quale si innesta il secondo tempo del film: l’epopea del corpo pubertario, che incontra e si scontra con i coetanei. Andrea si confronta con Cristian, figura ambigua di amico-nemico, e con Sara, figura femminile amica e potenziale oggetto pulsionale. Cristian rappresenta il doppio ideale: sviluppato, sicuro di sé, popolare. Andrea invece è legato ancora al mondo infantile, bravo a scuola, gentile, accogliente.
In una scena significativa, Andrea risponde a un professore con “bravo il cazzo”, ricevendo poi una punizione dal padre. Qui si gioca la partita della soggettivazione: fra infanzia e adolescenza, tra slegamento e rilegamento, tra oggetti primari e gruppo dei pari. La partita è così fortemente giocata sulla possibilità di mettere a distanza gli oggetti primari che Andrea rifiuta la collaborazione della madre per sfuggire alla punizione inflitta dal padre: la madre gli aveva proposto di intercedere presso il padre a condizione che Andrea fosse “tornato quello di sempre” – un bambino.
Esemplificativo del perturbante pubertario è il momento in cui Andrea, battendo finalmente Cristian in qualche campo, viene ammesso a cantare per il Papa, i genitori ormai separati sono lì, uniti, a restituirgli l’ultimo sguardo benevolente dell’infanzia, ma lui canterà per la prima ed ultima volta per il Papa, la sua voce sta cambiando, sta diventando un adolescente pienamente sessuato e ne è fortemente turbato.
Cristian e il suo branco attenteranno Andrea dopo averlo fatto vestire da prostituta con l’inganno al ballo della scuola: sarà picchiato, deriso, bollato, la scena fotografata e ripresa, pubblicata sui social, su una pagina di derisione a lui dedicata.
Come ha detto Leonardo Spanò, il cyberbullismo vieta al soggetto il diritto all’oblio: il trauma è fermo nel tempo e sempre presente nella pagina social, condannando all’eterno ritorno dell’uguale. Andrea dice: “quando sei adolescente, essere socialmente morto ed essere morto è la stessa cosa”. Di qui l’epilogo tragico che è insieme un arresto evolutivo e la decisione di togliersi la vita, Andrea è alle soglie dei quindici anni, deve festeggiare il suo compleanno e chiede alla madre di festeggiarlo alle giostre, in un effetto cinematografico quasi analitico che riporta la fine del film al suo inizio: la madre prova a dire ad Andrea che forse è grande per le giostre e lui risponde che è ancora piccolo. L’infans ha la meglio sull’adolescens, la storia si è fermata. Sarà l’ultimo giorno di vita di Andrea che, voce fuori campo, saluta gli spettatori: “tornare bambino è bello, quando era tutto più semplice, la mia ultima giornata sulla terra è stata serena, dopo tanto tempo ero di nuovo felice”.
Alessandro Bruni ha offerto una lettura laterale del bullismo, incentrata sul tema del male, del malato e della negazione attraverso la figura del pharmakos, il capro espiatorio dell’antica Grecia, nutrito e poi scacciato o ucciso per liberare la società dal male. Il parallelo con il bullismo è forte: la società proietta su un individuo stravagante le proprie parti folli e lo elimina. Suggestiva la chiusura: a Roma, l’AMA gestisce sia i rifiuti che i cimiteri — la morte come immondezzaio.
Leonardo Spanò, invece, ha sottolineato la vitalità della pellicola, più che la sua dimensione tragica: megalomania, invidia, gelosia, desiderio — l’adolescenza come esplosione di vita: il film ha una valenza pedagogica in quanto la rifiuta, non c’è giudizio rispetto alle emozioni che vuole trattare, la pellicola non cede al manicheismo di buono o cattivo ma si domanda le ragioni di tutti: in ognuno di noi albergano un Andrea e un Christian, si tratta di farli dialogare internamente.
Margherita Ferri, la regista, ha concluso raccontando l’incontro con Teresa Manes, che ha dato senso al film. Alla domanda su cosa raccontare, Teresa rispose: “un film vitale, pieno di vita, come era Andrea”. Questa risposta ha guidato tutta la lavorazione e ha aiutato la regista a tollerare un finale già scritto, tragico. Insomma un film, una sala e una discussione che ci invita a riflettere, come adulti, come società civile, come psicoanalisti.
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