
Parole chiave: Guerra, conflitto israelo-palestinese
CINEMENTE – Why War
Report di Filippo Maria Moscati
Nell’ambito del ciclo di proiezioni 2025 Cinemente, la rassegna cinematografica promossa dalla Società Psicoanalitica Italiana, quest’anno dedicata al tema della distruttività, si è tenuta una serata intensa e partecipata attorno al film Why War di Amos Gitai. Ispirato alla corrispondenza tra Albert Einstein e Sigmund Freud del 1932, il film è stato accompagnato dagli interventi di Bruno Tobia, Andrea Auletta e Alfredo Lombardozzi, che ne hanno discusso le implicazioni storiche, cinematografiche e psicoanalitiche.
Einstein, nella sua lettera a Freud, poneva quattro domande che ancora oggi restano aperte: esiste un modo per liberare l’umanità dalla guerra? Come può una minoranza trascinare una maggioranza nel conflitto? Perché le masse si lasciano asservire? È possibile orientare l’evoluzione psichica dell’uomo per evitare la guerra?
Freud, nella sua risposta, sottolineava la natura complessa e intrecciata della distruttività, tanto come dinamica interna all’uomo quanto come riflesso dei rapporti di potere nella società. La guerra, dunque, non si produce solo fuori di noi, ma si radica profondamente dentro la struttura psichica e sociale dell’umanità.
Proprio da questa corrispondenza prende le mosse Why War, un’opera ibrida e audace, dove Amos Gitai intreccia performance teatrali, immagini documentarie, musica, parola, movimento e simbolismo visivo. Il film si apre con un lungo piano sequenza che disturba l’armonia di un concerto e ci porta nelle strade, tra slogan, manifesti e rumori di fondo, per poi farci scivolare in un buio tunnel visivo e sonoro: un passaggio metaforico verso la dimensione archetipica della guerra. Le immagini sovrapposte evocano secoli di conflitti che non si estinguono, ma si rigenerano come in un incubo ricorrente.
La grandezza del film si manifesta nel capovolgimento della domanda iniziale: perché oggi ci chiediamo come eliminare la guerra? Forse perché, al contrario del passato, oggi non cantiamo più le gesta dei guerrieri, ma cerchiamo di sopravvivere. Questa inversione di prospettiva riflette un processo storico di incivilimento che, seppur incompiuto, orienta le nuove generazioni verso il rifiuto della violenza come valore.
Gitai evita con cura la spettacolarizzazione. Nessuna iconografia cruenta: la guerra è evocata, suggerita, non esibita. Come disse Freud nella sua lettera: “Tutto ciò che lavora a favore dello sviluppo della cultura lavora anche contro la guerra”. Ed è proprio nella dimensione culturale e artistica, teatrale e interiore, che il film trova la sua forza.
Bruno Tobia, storico e saggista,ha proposto una lettura storica articolata del fenomeno bellico, centrata sul nesso tra costruzione dell’identità nazionale e dinamiche di potere. Quando le tensioni interne a una società diventano insostenibili, la guerra emerge come forma di sfogo e ridefinizione di un ordine. Ma ogni guerra è diversa: Tobia ha invitato a considerare non solo le strategie militari ma anche la struttura sociale sottesa a ciascun conflitto. Ha criticato le interpretazioni puramente economiche della guerra: sebbene gli interessi materiali siano spesso presenti, ciò che muove la guerra in prima istanza è la difesa di un determinato assetto sociale. Ha ricordato l’espansionismo romano in Dacia non solo per l’oro, ma per gli schiavi – essenziali alla struttura produttiva dell’impero. Ha poi tracciato una tipologia in tre fasi:
- Prima guerra mondiale: crisi dell’equilibrio europeo, tensioni esplose in una guerra “civile” continentale.
- Seconda guerra mondiale: conflitto politico-ideologico, dove emerge una concezione razziale e biologica del nemico. L’obiettivo non è la pace ma l’annientamento.
- Guerra fredda: un’inedita “pace armata”, in cui la minaccia nucleare blocca il ricorso alla guerra come prosecuzione della politica. La posta in gioco diventa la sopravvivenza stessa dell’umanità.
Da qui l’invito finale: abbandonare l’antico motto si vis pacem, para bellum in favore di un più radicale si vis pacem, para pacem.
Andrea Auletta ha invece approfondito la forma estetica e sensoriale del film. Gitai, ha spiegato, aveva già raccontato l’esperienza della guerra in Kippur, pellicola autobiografica in cui ricostruiva un episodio vissuto in prima persona: la caduta di un elicottero da cui era miracolosamente sopravvissuto. Ma in Why War Gitai sceglie un’altra via: non mostra, non sciocca, non indulge. La sua riflessione si concentra sul rischio della sovraesposizione mediatica: le immagini di guerra ci raggiungono di continuo, ma finiscono per anestetizzarci. Il film cerca di rompere questo meccanismo, suggerendo – anziché mostrando – il dolore, la perdita, la distruzione. L’unico sangue visibile è quello, paradossale, della tinta per capelli: una tragedia che si consuma nell’ordinario. Auletta ha sottolineato il rischio del diniego, di considerare la guerra come qualcosa che non ci riguarda, che appartiene ad altri popoli, lontani da noi. E ha invitato a interrogarsi sul ruolo del femminile: non solo spettatrice, ma anche agente e testimone della guerra.
Alfredo Lombardozzi ha offerto infine una lettura psicoanalitica profonda, a partire dall’impossibilità, riconosciuta da Freud stesso, di dare una risposta definitiva alla domanda di Einstein. La sua analisi ha esplorato il concetto freudiano secondo cui la cultura è al contempo contenimento e veicolo della distruttività. Ha rievocato la teoria dell’orda primordiale e del patricidio originario come fondamento mitico del legame sociale: è l’unione fraterna a dare origine al diritto, alla religione, e alle norme. Ma questa stessa dinamica può essere invertita: quando il gruppo si riconosce in un leader narcisista maligno, come nel caso della Germania nazista, la violenza non è più mediata ma agita. Lombardozzi ha richiamato le riflessioni di Kohut, secondo cui un gruppo umiliato può cercare salvezza in un oggetto-sé grandioso distruttivo, che invece di rendere creativi, rafforza il senso di unicità e superiorità del gruppo stesso, proiettando il “marcio” all’esterno. Ha infine menzionato Bion, che considerava l’arroganza un ostacolo alla comunicazione analitica, e ha discusso il ruolo del diniego e della dissociazione come difese collettive.
La serata si è conclusa con domande e osservazioni del pubblico, che hanno arricchito ulteriormente un dibattito già intenso e articolato. Gli interventi degli ospiti hanno mostrato come la guerra non possa essere pensata solo in termini di strategia o geopolitica, ma vada compresa anche come dinamica psichica, sociale e simbolica.
All’interno del ciclo dedicato alla distruttività, questa proiezione ha rappresentato una tappa cruciale, un’occasione per riflettere sulla possibilità – o sull’impossibilità – di contenere ciò che distrugge. Come ci ricorda Freud: “Possiamo dire a noi stessi che tutto ciò che promuove la cultura lavora anche contro la guerra”. E se la cultura è anche portatrice di dolore, è solo attraverso essa che possiamo sperare di immaginare un mondo diverso.
Vedi anche nella sezione Dossier > Psicoanalisi e Guerre – Gennaio 2014: