Cultura e Società

“Perfect Days” di W. Wenders. Recensione di E. Marchiori

10/01/24
"Perfect Days" di W. Wenders. Recensione di E. Marchiori

Parole chiave: Ascolto, Rito, Uso dell’oggetto, Rispetto

Autore: Elisabetta Marchiori

Titolo: “Perfect Days”

Dati sul film: regia di Wim Wenders, Giappone, Germania, 2023, 123′

Genere: drammatico

“Adesso è adesso, un’altra volta è un’altra volta”

(Hirayama)

Quando sono entrata in sala, la sera stessa del suo primo giorno di uscita, sapevo solo che stavo andando a vedere l’ultimo film di Wim Wenders. Man mano che le immagini scorrevano sullo schermo, una misteriosa pace impregnava mente e corpo, trasportandomi in quello stato simil-onirico come solo il vero Cinema può fare.

La storia è di una semplicità assoluta: lo spettatore accompagna il protagonista nel vivere i suoi perfect days, day by day, in un ripetersi di azioni che, lungi dall’essere coazioni a ripetere o sintomi ossessivo-compulsivi, sono rituali quotidiani che “riordinano il tempo, lo aggiustano” (Han, 2021, 12).

Hirayama (Koji Yakusho) si sveglia, si lava i denti, si sistema i baffi, annaffia i suoi alberelli e, indossata la sua tuta blu su cui campeggia orgogliosa la scritta Tokyo Public Toilet, va al lavoro con il suo Van pieno di tutto ciò che gli serve per svolgere al meglio il suo lavoro. Che è quello di pulire, con cura quasi maniacale, i bagni pubblici di Tokyo, meravigliose costruzioni progettate da architetti di grande prestigio che paiono quasi piccoli templi. Durante i tragitti da una toilette all’altra ascolta la voce roca di Lou Reed che canta “Perfect Day” o la sua versione giapponese, e tante altre magnifiche canzoni, che sceglie dalla sua vasta collezione di audio cassette di musica rock degli anni Sessanta e Settanta. Sono la colonna sonora della sua vita, non sa cosa sia Spotify. Poi si siede sempre sulla stessa panchina in un parco a mangiare un sandwich, osservando e fotografando, con una vecchia macchina analogica, le fronde degli alberi e i riflessi di luce che giocano con rami e foglie (scoprirò poi che questo gioco di luci ha un nome in giapponese: komorebi[1]).

Hirayama poi si fa la doccia nei bagni pubblici e consuma la sua cena alla sua solita tavola calda “dopo una dura giornata di lavoro” (il gestore lo accoglie sempre con queste parole). In giorni fissi della settimana porta la tuta da lavoro in lavanderia e a far sviluppare il rullino di foto, comprandone uno nuovo. La sera legge Faulkner sdraiato sul futon della sua casa umile ed essenziale, che è arredata solo di audio cassette e libri (ne compra regolarmente in una piccola libreria dell’usato). Si vede che è un seguace di Marie Kondo, quella de “Il magico potere del riordino” (2014), che valorizza solo le cose preziose.

Hirayama parla davvero poco, ma ascolta attentamente e guarda con curiosità e attenzione, è gentile e rispettoso con tutti, anche con il suo lavativo, insopportabile giovane collega che, ad un certo punto, lo pianta pure in asso. Incontra sguardi cui il suo sguardo mite e sorridente si aggancia, gioca a Tris con qualcuno che non conosce, a calpestare le ombre con un uomo che ha bisogno di essere consolato e accoglie la giovane nipote scappata di casa.

Si può pensare che Hirayama, nella ripetitività della sua vita quotidiana e i suoi riti, abbia trovato un modo per curarsi le ferite, di riflesso rendere pulito e candido suo mondo interno, forse mondare peccati del passato. Perché si intuisce che un passato c’è, ed è doloroso e tragico. Si scorge nelle ombre che danzano nella stanza, forse create dalle prime luci dell’alba. Oppure sono immagini frammentate, residui inquietanti di sogni notturni, memorie sopite che si agitano nel rimosso?

Dal volto di Hirayama traspaiono con assoluta immediatezza sentimenti lievi: malinconia, preoccupazione, gioia, ma vince su tutti una profonda quiete, che si esprime in una vita messa al servizio dei suoi simili, dei suoi concittadini e della sua città con profondo impegno e rispetto. Il senso di serenità che il protagonista è riuscito a trasmettermi ha del magico. Sta nella capacità di riuscire a incanalare le pulsioni distruttive nel bene comune, nel rispettare la natura e le vite degli altri.

Fa bene al cuore immedesimarsi in un personaggio così, desiderare di poter essere come lui, consapevole di tutto e, nel contempo, capace di essere felice dei komorebi, delle piantine da crescere, della musica da ascoltare, del libro comprato e condiviso, insomma, delle cose che hanno consistenza reale, odore, sapore e una loro storia. Cose che si toccano, si annusano, si assaporano, si puliscono, di cui avere rispetto e prendersi cura con responsabiltà giorno dopo giorno, amare, far durare nel tempo, senza sbuffare, recriminare, lamentarsi. Ma stando piuttosto in silenzio, in ascolto, indugiando.

Uscita dal cinema, molto incuriosita, leggo on-line titoli come “Perfect Days è probabilmente il miglior film di Wim Wenders”[2] e “Perfect Days, la meraviglia di una vita tra le immagini”[3], solo per fare un paio di esempi. Recensioni entusiastiche, Palma D’Oro a Cannes per Koji Yakusho e possibile candidatura agli Oscar come film giapponese. Son contenta di non aver letto nulla prima, mi son goduta una visione che mi ha profondamente sorpresa.

Certamente è un film che trasuda cultura giapponese, conosciuta e amata profondamente da Wenders[4], scritto a quattro mani con lo scrittore e produttore Takuma Takasaki.

Ma è un film che va molto oltre: trasmette con forza l’importanza dei riti, quelli che Byung-Chul Han definisce nei termini di “tecniche simboliche dell’accasamento”, che “trasformano l’essere-nel-mondo in un essere-a casa, fanno del mondo un posto affidabile” (2021, 12). Citando Saint-Exupéry e Anna Arendt, il filosofo sottolinea l’importanza della “resistenza delle cose”, che “hanno la funzione di stabilizzare la vita umana”, come i riti, e a caratterizzarli è la ripetizione, la costanza, la prevedibilità che accoglie l’imprevedibile. Come la psicoanalisi. È un film che mostra l’importanza dell’usare le cose e permettere loro di essere vissute — e qui si potrebbe aprire il mondo dell’uso dell’oggetto di cui parla Winnicott (1971)— rispetto al “consumarle o spenderle”, consumando anche le emozioni e i valori di cui si fanno portatrici (ibidem, 15). Rappresenta la possibilità di vivere il presente accettando la caducità della vita e assaporandone la bellezza respiro dopo respiro, abitando la terra e il cielo, piuttosto che precipitare in Google Earth e nel cloud, nell’inconsistenza delle non-cose (Han, 2022, 6).

Wenders riesce a mettere in scena la speranza che non vinca il predominio dell’autoreferenzialità narcisistica, che si possa ancora creare un autentico rapporto con l’Altro e con il mondo, attraverso il continuo gioco di luci e ombre che dal mondo esterno filtrano e risuonano nel mondo interno.

Bibliografia

Han B. (2021). La scomparsa dei riti. Una topologia del presente. Torino: Einaudi.

Han B. (2022). Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale. Torino: Einaudi.

Kondo M. (2014). Il magico potere del riordino”. Milano: Vallardi.

Winncott D.W. (1971). L’uso dell’oggetto e l’entrare in rapporto attraverso identificazioni. In: Gioco e realtà, 151-165. Roma: Armando.

Gennaio 2023


[1] Komorebi è la luce che filtra tra le foglie degli alberi, un momento breve, ma inteso, che esprime uno stato d’animo, una sensazione che è sfuggente, come i raggi di sole che filtrano tra le foglie degli alberi di un bosco. Una sensazione magica, ma allo stesso tempo anche malinconica, che ci ricorda l’impermanenza e la mutevolezza costante di tutte le cose (https://www.villaggioverde.org/agri/2021/01/25/komorebi/)

[2] https://www.wired.it/article/perfect-days-wim-wenders-trama-cast-recensione/

[3] https://ilmanifesto.it/perfect-days-la-meraviglia-di-una-vita-tra-le-immagini

[4] https://www.corriere.it/sette/cultura-societa/24_gennaio_04/perfect-days-wenders-addetto-pulizie-insegna-vivere-attimo-29d88a22-aae3-11ee-97df-1dec2b8b830c.shtml

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