Cultura e Società

“Una battaglia dopo l’altra” di P. T. Anderson. Recensione di M. De Mari

12/12/25
"Una battaglia dopo l’altra" di P. T. Anderson. Recensione di M. De Mari

Parole chiave: cambiamento, resistenze, intergenerazionale

Autore: Massimo De Mari

Titolo: “Una battaglia dopo l’altra”

Regia: Paul Thomas Anderson, USA, 2025, 170’

Genere: Commedia, Avventura, Drammatico, Thriller

“Sarà rivoluzionario colui che potrà rivoluzionare sé stesso”

(Wittgenstein, 1944)

È un film di azione travolgente, in cui sembra difficile trovare un momento di pausa che permetta di elaborare un pensiero. Le due ore e cinquanta minuti di durata scorrono tutte in un fiato e solo quando si esce un po’ storditi dalla sala di proiezione, i pensieri arrivano a valanga e ci si rende conto che è un film che parla di tante cose.

Rivisitando il romanzo Vineland (Thomas Pynchon, 1990), il film parla in primis di rivoluzione, di lotte sociali, ideologiche e personali, di razzismo, fascismo, di sette, parla dell’America attuale, senza fare nomi e cognomi ma rappresentando uno scenario in cui i conflitti sociali esplodono letteralmente, senza controllo, con un realismo che ricorda l’ipotesi catastrofica di un attacco nucleare di “House of dynamite (USA, 2025, regia di Kathryn Bigelow).

Il taglio è dichiaratamente leggero, in fin dei conti si potrebbe descrivere come la storia di un gruppo di rapinatori, i French 75, affascinati da un ideale rivoluzionario, i cui personaggi oscillano tra l’ironia e il grottesco. Ma dietro ci sono storie di sentimenti, di chi vive la propria vita fuori dai canoni di una civiltà che corre verso un progressivo imbarbarimento e cerca di cambiarla mettendone alla berlina le contraddizioni e le ipocrisie.

 Di Caprio porta in scena Bob Ferguson, un personaggio idealista ma fragilissimo che sta nel mezzo tra il venir travolto dal flusso degli eventi e lottare per ciò che ama. Ma soprattutto c’è il colonnello Lockjaw, uno splendido, quasi irriconoscibile Sean Penn, meritevole di qualche riconoscimento prestigioso. Lockjaw incarna quel mondo dichiaratamente omofobo e razzista che oggi ha rappresentanza politica negli USA e in molte parti del mondo e in Europa, capace però di restare imbrigliato in una relazione perversa con Perfidia Beverly Hills, una ragazza di colore, interpretata da Teyana Taylor, che è a capo del gruppo di terroristi che lui sta cercando di eliminare militarmente. Immediatamente iconico, costantemente in bilico tra un realismo disgustoso e una spietata parodia, Lockjaw si dibatte nelle sue contraddizioni senza un minimo pensiero critico, in stretta contrapposizione con i conflitti nevrotici del gruppo di rivoluzionari, le cui imprese ricordano a volte quelle raccontate in modo esilarante da Woody Allen ne “Il dittatore dello stato libero di Bananas(USA, 1971).

Il ritmo del film è sostenuto da una regia che alterna piani sequenza da manuale a sequenze action leggibili e divertenti, ma anche da una colonna sonora (composta da Johnny Greenwood, chitarrista dei Radiohead) costante, incessante, un vero affresco di associazioni libere di taglio jazzistico. La musica di Greenwood, che ha firmato le colonne sonore di altri 5 film di Paul Thomas Anderson, si alterna a classici vecchi e nuovi, da Perfidia di Alberto Dominguez (1939) a Dirty work degli Steely Dan (1972), per descrivere i personaggi e sottolineare i passaggi a volte vertiginosi del film, che alterna scene di guerriglia urbana a momenti di riflessione sulla genitorialità e i passaggi generazionali.

È un film terribilmente attuale, soprattutto per l’America, in cui si dipinge una realtà in cui concetti come libertà, ideali sono sempre più sentiti e importanti, in cui alzarsi e scegliere di lottare per quello in cui si crede è diventato di vitale importanza in un mondo dominato da ideologie e forme di potere che vogliono controllare e dominare. La riflessione di Bob sul senso della rivoluzione che incarna la figlia sembra mettere in discussione il senso che lui stesso ha dato alla propria sete di cambiamento. È cambiata la società o, invecchiando, la visione della vita deve fare i conti inesorabilmente con la stanchezza e la disillusione? La regia di Anderson (autore di capolavori come Il petroliere e Il filo nascosto”) molto critica e cruda, descrive uno scenario talmente vero da sembrare surreale in cui il tema della morte viene visto nelle diverse età della vita, incarnate dal personaggio di Di Caprio in particolare. Da un punto di vista psicoanalitico il film potrebbe essere interpretato come il racconto del paziente Bob che, sdraiato su un lettino immaginario, racconta, come voce narrante per tutto il film, la propria ellissi esistenziale.

Se, da giovane, Bob è un rivoluzionario entusiasta che non ha paura di affrontare la morte a viso aperto, con l’entusiasmo di chi mette in gioco la sua vita per un’ideale, il vecchio Bob riflette, tra un bicchiere di whisky e uno spinello, sulle responsabilità per la figlia e gli acciacchi dell’età, fa i conti con le proprie scelte e le proprie paure e non sempre i conti tornano. Un po’ come il vecchio Noodles nella fumeria d’oppio del capolavoro di Sergio Leone (C’era una volta in America, 1984), che si guarda indietro e non riesce a fare i conti con il passato.  Il messaggio del film però, rispecchiando il titolo, sottolinea come la lotta per il cambiamento necessiti di un lavoro di costanza, di memoria e di messa in discussione delle proprie resistenze personali: una battaglia dopo l’altra, un processo continuo, come in un percorso analitico, che passa di persona in persona, di generazione in generazione.

Un film di cui non si può dire troppo per non rovinare le mille sorprese, le citazioni, il fascino della recitazione degli attori del cast (formato in parte anche da musicisti) che attendono lo spettatore. Imperdibile.

Riferimenti

Wittgenstein L. (1944) “Pensieri diversi”. Pag. 91. Adelphi (1980)

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