Cultura e Società

“Coda”di A. Smith. Recensione di D. Federici

18/12/23
"Coda"di A. Smith. Recensione di D. Federici

parole chiave: #creatività, #parola, #preconscio

CODA

di Ali Smith (Sur, 2023)

recensione di Daniela Federici

La parola collega la traccia visibile

 alla cosa invisibile,

alla cosa assente,

alla cosa desiderata o temuta,

come un fragile ponte di fortuna gettato sul vuoto.

Calvino Lezioni americane

Un libro visionario, un gustoso tributo all’invenzione letteraria nel suo dispiegarsi sorgivo, una dichiarazione d’amore alla parola, alla sua capacità di creare scenari ed evocare vissuti, memorie, percezioni, all’infinita poiesi trasformativa delle sue potenzialità in giacenza, al suo potere taumaturgico di far venire a essere aspetti profondi e sconosciuti dell’umano.

Sandy Gray è una giovane donna ancora in cerca della sua identità. Il padre è in ospedale per un importante problema al cuore e lei si divide fra l’attesa delle brevi visite (per le restrizioni del Covid) e l’accudimento della sua cagnona che ne aspetta mesta il ritorno.

Sullo sfondo un’Inghilterra che sta cercando di ignorare il lutto che l’epidemia ha seminato e si assiepa sotto le finestre dei propri cari ricoverati in uno smarrimento diffuso. È una serata in cui Sandy fissa nel vuoto: apprensione, tristezza, paura, una stratificazione di colori proprio come nei suoi quadri, perché questo si è inventata di fare la protagonista, dipinge poesie, sovrascrivendone le parole sulla tela.

Le arriva una strana telefonata da un’ex compagna del college che le racconta di essere stata trattenuta per ore al controllo dogana perché trasportava un prezioso lucchetto medievale per il suo museo. Chiusa da sola in una stanza con quell’oggetto unico, aveva sentito una voce dirle: Chiurlo o coprifuoco (curlew o curfew), quale vuoi? Sentendosi destinataria di un messaggio enigmatico ma incapace di comprenderlo, aveva pensato di cercarla, perché dopo tutti questi anni in cui non si erano più sentite, lei le rimaneva ancora in mente come la persona che sapeva comprendere le parole. Sandy ricorda a stento questa Martina: da studentesse le aveva chiesto di poter copiare la sua tesina su una poesia di Cummings, mentre Sandy le aveva proposto di leggere insieme quel componimento che parlava della morte e del fidarsi piano. L’aveva invitata a confidare nell’ascolto di quel che le parole dicono e di ciò che suscitano quando le si ascolta e, alla fine di quella chiacchierata, Martina si era ritrovata piena di risonanze e pensieri, e capace di realizzare una propria tesina.

Mi racconta una storia così vicina a me che non sapevo nemmeno fosse mia.

Uno scambio che, come tutto il libro del resto, è uno zampillare di richiami analitici: qualcuno che arriva cercando risposte e viene aiutato a farsi domande, un pensare insieme che fa trovare qualcosa di sé e ispira un procedere più personale, il sovrascriversi delle parole che, rivela ri-vela, fa lo ‘spessore’ dell’esperienza.

La strana vicenda del chiurlo e del coprifuoco scuote Sandy dal suo torpore e improvvisamente la sua casa si anima di figure che non serve sancire quanto reali o immaginarie, dalle curiose figlie gemelle di Martina a una giovane barbona che si porta dietro un uccello dal lungo becco, storie che prendono vita nel suo quotidiano ed elaborano fili emotivi e fantastici di un tempo d’attesa angosciosa.

Ciò che l’Autrice ci mette in mano è un incantevole ricamo immaginifico dove nulla sembra lasciato al caso, frammenti del possibile, visioni, ricordi, onirismi, un tintinnare arborescente di significanti in un intreccio sapiente di continui slivellamenti temporali.

Quell’antico lucchetto dove non si vede la toppa sembra una creatura viva e i fabbri un mestiere di cui viene detto: lavorare i metalli è una forma di ascolto, un sapere che li rende artigiani amati per la magia di saper costruire e aggiustare le cose, e al contempo temuti perché maneggiano il fuoco e sanno trasformare le sostanze da uno stato a un altro. Questo il loro insegnamento: Tutto quello che è inflessibile prova a scaldarlo… la natura rigida può arrivare a cedere. La terra, l’aria, l’acqua e il fuoco più violenti possono essere blanditi e lavorare per noi, come succede per i cavalli, a patto che noi rispettiamo la loro potenza e impariamo la loro lingua.

Il presente si intreccia con un medioevo violento e sessista da cui emerge la vicenda di una giovane fabbra molto talentuosa che viene perseguitata, marchiata e abbandonata quasi morta in un fosso; tornata cosciente, si trova accanto un orfano come lei, un uccellino lanuginoso che non la lascia più. Era forse lei la piccola vagabonda che le era piombata in casa con la strana creatura dal becco lungo come le maschere che si indossavano ai tempi della peste? Un chiurlo, il più selvatico tra gli uccelli, impossibile da addomesticare, di cui la leggenda narra una natura numinosa con il compito di saldare il cielo con la terra, il segno di una presenza divina. E ora in via di estinzione.

Una storia di peste in un presente di nuovo minacciato dal contagio; un tempo che forse, come quell’epoca buia, dovrebbe domandarsi se sta spegnendo la vitalità di parti sensibili dell’umano in contatto con l’invisibile?

Nell’intreccio del romanzo, la Smith arruola anche l’episodio delle fate di Cottingley che aveva appassionato Arthur Conan Doyle: era il 1920, due bambine si fecero delle foto con delle immagini di fate che vennero credute vere. Perché dopo i morti della guerra e della spagnola, la gente aveva bisogno di credere.

Mamma mia quanto ci credevo. Credevo che il fruscio del vento tra i cespugli fosse il suono delle loro voci. Ma ovviamente sapevo anche che non era così.

Noi umani andiamo in cerca di storie nelle condizioni di difficoltà: l’illusione sfoca il confine fra ciò che è reale e ciò che è possibile e l’inclinazione visionaria ci permette di tollerare la durezza della realtà, di consolarci con le sue quote di finzione, ma anche di addomesticare l’inquietante e a volte perfino trasformarlo. E poi le storie sono un modo per non restare da soli.

“Parla con me, ho paura del buio. … Se qualcuno parla c’è la luce.”

(Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale)

Quando riesce a far visita al padre in ospedale, Sandy lo trova sospeso in un limbo d’incoscienza e si mette a raccontargli questa trama di eventi incredibili e di una delle prime poesie in lingua inglese che parla di solitudine e sopravvivenza, in cui un marinaio canta la sua nostalgia.

Mi riempio di meraviglia al pensiero di quanto non è solo, in realtà, il protagonista di questa poesia ogni volta che qualcuno la legge. … laggiù in mezzo a quel mare solitario, dice che i versi delle sule e dei chiurli hanno sostituito le risate degli uomini … hanno preso il posto dei rumori felici che si sentono quando ci si ritrova da qualche parte con altre persone, dico a mio padre da dietro la mascherina, nel silenzio, tra un bip e l’altro.

E così in quell’aria di mare ci sono allegria e tristezza allo stesso tempo, gli dico.

Mio padre, disperso in mare. Oppure ero io a essermi persa? 

Nel tempo fermo del lockdown Sandy aveva camminato in una natura che si riprendeva i suoi spazi, e si era quasi smarrita. Quello che sentivo erano i suoni che si sentono quando non c’è nessuno ad ascoltarli. Sentivo gli alberi che scricchiolavano quasi parlassero tra di loro nella loro lingua. … e sotto di me il rumore che fa l’erba quando si muove. Si, una sorta di slittamento sonoro, un’apparente assenza di rumore che diventa a sua volta una tavolozza di nuovi suoni. … Ciò di cui ero consapevole era la mia assenza. Ciò che percepivo, con la chiarezza di un’aria non turbata da nulla, era il fantasma di una possibilità, una diversa presenza.

Compresenze: il fantasma di una possibile me del passato… il fantasma di una me appartenente a un passato futuro… tutte insieme nel presente.

Il bellissimo parco in cui Sandy porta a sgambare la cagnona del padre – e luogo reale vicino a casa dell’Autrice – fu terreno di sepoltura dei morti di peste, paesaggio stipato di assenti, di ombre, di eternamente vivi.

La storia è qualcosa che succede anche in questo preciso istante.

Questo romanzo è un rutilante carrellare nella consustanzialità dei tempi, il qui e ora insieme al là e allora, i non-ancora degli inespressi e le memorie del futuro.

Il tempo è una cosa rotonda.

Non siamo noi la storia. E comunque, una storia non è mai una risposta. Una storia è sempre una domanda.

La Smith ci offre una bellissima costruzione dello spartito della psiche: l’inconscio come fonte inesauribile e forza che ci sposta continuamente dal nostro centro, senza mai riuscire a coincidere con un accadere che subito supera ogni tentativo di designazione. Nel continuo dislocarsi delle invenzioni dell’Autrice è ben espresso il gioco gravitazionale di uno psichico perennemente alla ricerca di nuove narrative preconsce che possano rendere intelligibile la realtà e i vissuti, l’esplorazione del nuovo per assimilarlo al conosciuto, l’incessante ripresa che smonta e ricompone, accrescendo l’organizzazione significativa di ciò che viene alla luce.

La parola è lo strumento per portare alla coscienza altri codici e, nel suo collegarsi all’esperienza, intensifica la vita psichica e la fa elevare a una nuova dimensione. Dalla poesia apprendiamo come le parole incarnino ciò di cui sono la rappresentazione, dando vita alle cose, chiamandole a comparire. Nel collegare l’astratto al concreto le parole hanno poi la potenzialità di trasformare e sviluppare il significato perché possono dotare di qualità anche quegli investimenti che non possono derivarla dalla percezione in quanto mere relazioni fra le rappresentazioni degli oggetti. Freud (1915) rimarca l’importanza di queste relazioni per la vita psichica, per consentire ai moti di desiderio di avere accesso alla coscienza e al pensiero cosciente di essere vivificato da questo flusso.

La capacità di oltrepassare (transgredior) il già noto e acquisire il nuovo, costruisce lo spazio di “una ‘terra promessa’, non più come qualcosa che dolorosamente sfugge in continuità, bensì come raggiunta fiducia di ognuno di potere andare al di là del contingente, senza perdersi, ma anche senza avere presuntuosamente già tutto in mano, tutto afferrato ed espugnato” (Racalbuto 1987, p.39).

Questo romanzo è una ghiotta occasione di lasciarsi sorprendere, di-vagare in quel libero flusso che fa il nostro divenire.

… una delle cose più entusiasmanti della lingua è che la grammatica è flessibile come il ramo verde e vivo di un albero. Perché se le parole per noi sono vive allora anche il loro significato è vivo, e se la grammatica è viva allora in qualche modo sarà la sua capacità di creare connessioni, più che la nostra di creare divisioni, a dare energia a tutto quanto.

Un libro per ricordarci che il pensiero resta sempre la nostra principale arma di speranza.

Bibliografia

Freud, S. (1915) L’inconscio, OSF v. 8, Boringhieri

Racalbuto, A. (1987) “Le pietre miliari del simbolo lungo i tragitti simbolici” in: Racalbuto, A.; De Zordo,

M.R. (a cura di) Simbolo. Alla ricerca dell’oggetto perduto Lubrina Ed.

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