Cultura e Società

25 Novembre 2025 Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. M.T. Palladino

24/11/25
25 Novembre Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne

(illustrazione di Stefania Pandolfo)

Parole chiave: violenza, donne, stupro, legami perversi, vittime

Nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne, spiweb pubblica questo contributo di Maria Teresa Palladino che analizza aspetti clinici, riferimenti culturali e fenomeni sociali contemporanei, per mostrare come l’attacco al femminile possa manifestarsi tanto nei contesti familiari quanto nelle dinamiche collettive e istituzionali, offrendoci una riflessione psicoanalitica che restituisce complessità e pensiero alle molte forme di violenza contro le donne, un tema troppo spesso schiacciato sulle cronache.

Stefania Pandolfo
Caporedattrice di Spiweb

25 Novembre Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne

di Maria Teresa Palladino

Il 25 novembre ricorre la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. È un appuntamento che ogni anno ci invita a fare il punto su una realtà trasversale a culture, contesti sociali e generazioni diverse. Le forme della violenza mutano nel tempo: accanto agli attacchi diretti al corpo delle donne – ancora oggi drammaticamente frequenti, come testimoniano i numerosi femminicidi – si affiancano aggressioni alla loro libertà, come il sabotaggio dell’indipendenza economica e dell’autonomia psicologica. Oggi sono sempre più diffusi il controllo digitale, le molestie online e la diffusione non consensuale di immagini intime: violenze meno visibili, ma non meno dolorose.

La complessità del fenomeno impone uno sguardo multidisciplinare capace di interrogare gli stereotipi, i modelli di mascolinità talvolta improntati alla sopraffazione e quelli di femminilità imprigionati nella sottomissione, trasmessi – in forme diverse – dalle varie culture.

È difficile ignorare, in questo quadro, quanto accaduto in tempi recenti: il presidente della più importante nazione occidentale ha apostrofato una giornalista con un insulto sessista. Non è utile citare l’episodio per l’ennesima denuncia dell’inadeguatezza dell’uomo politico in questione, quanto perché questo gesto, compiuto da una figura così esposta, appare emblematico dell’assenza di modelli maschili sani e credibili. Una mancanza che pesa soprattutto sui giovani uomini, privati di riferimenti autorevoli nel processo di costruzione della propria identità. Oggi il modello dominante nella gestione dei conflitti sembra essere quello della forza e della sottomissione del più debole.

Il tema dell’assenza di figure paterne affidabili è stato ampiamente discusso anche nei commenti alla serie Adolescence; non vi torneremo qui.

Accanto a queste riflessioni, è utile affiancare una prospettiva psicoanalitica che, più che sugli autori della violenza, ponga l’accento sulle vittime, nella speranza che questo aiuti a mettere a fuoco anche qualcosa dei carnefici.

Pensiamo, per esempio, alle bambine indiane o cinesi uccise prima della nascita o abbandonate. In questi casi l’attacco al femminile affonda le radici soprattutto in fattori sociali: in molte regioni orientali la figlia è considerata un “investimento a fondo perduto”, destinata a entrare nella famiglia del marito. In Cina, la politica del figlio unico ha aggravato un’antica tradizione di infanticidio femminile; in India – e altrove – l’ecografia che consente di conoscere il sesso del nascituro ha favorito aborti selettivi su base di genere, pratica che le istituzioni tentano di arginare vietandone l’uso.

Come psicoanalisti, tuttavia, non possiamo non vedere che qui si manifesta anche un attacco violento alla maternità stessa, con la complicità delle donne-madri. È il tentativo estremo di controllare il processo procreativo, un’espressione dell’invidia nei confronti della potenza generativa femminile. Entrambi i sessi, impegnati nel difficile processo di separazione dal potere materno, si ritrovano qui – come hanno mostrato Chasseguet-Smirgel e altri – alleati nell’attacco al femminile, fino a negare il diritto alla nascita.

Della stessa natura è la violenza dello stupro. Qui la donna non ha un volto: esiste solo come corpo, e spesso neppure nella sua interezza. Un corpo ridotto a un “buco”, un oggetto su cui scaricare rabbia, impotenza, debolezza; un contenitore della frustrazione di uomini segnati da profonde angosce e da condizioni sociali diseguali. Non sorprende, in questo quadro, che alcune sentenze nei casi di violenza sessuale finiscano per colpevolizzare le vittime, segnando ulteriormente la disarmonia del contesto culturale.

Diverso è il caso delle donne coinvolte in legami di coppia perversi. Qui l’identità femminile è presente, pur se fragile, e inserita in una dinamica relazionale patologica. In questi casi la violenza finale appare quasi come un incidente all’interno di un gioco perverso, in cui il legame è fondato sul desiderio di distruggere progressivamente l’altro per esistere a sue spese. Come scrive Racamier nell’introduzione al volume L’odio dell’amore di Hurni e Stoll-Simona, “l’esistenza stessa è la posta in gioco di questa perversione”. I due partner, profondamente feriti da traumi – spesso abusi, anche in forma subdola – diventano esseri svuotati, incapaci di fidarsi e di amare. La relazione coniugale non è più luogo di affetto, ma campo di battaglia.

In questi legami, ciò che conta non è capire o essere capiti, ma esercitare potere: dominare l’altro, sottometterlo, magari distruggerlo. Il partner viene scelto spesso per le sue fragilità, perché più facilmente controllabile. Le donne, più vulnerabili sul piano economico-sociale ed emotivo, finiscono più spesso nel ruolo di contenitori della svalutazione narcisistica del compagno e vengono isolate perché l’altro possa essere il loro unico riferimento.

Questi sistemi relazionali sono così chiusi che raramente riescono a entrare nei nostri studi se non per “sfidarci”, riproducendo nella relazione terapeutica la stessa logica distruttiva.

Tra gli estremi appena descritti esiste però un ampio territorio intermedio.

Spesso incontriamo donne coinvolte in relazioni squilibrate fin dall’inizio: idealizzano il compagno, mancano di autostima, amano troppo. A volte restano legate da un malinteso istinto materno, che le porta a proteggere il partner anche quando ne subiscono le conseguenze, talvolta fisiche.

Molte però riescono a evolvere: grazie a cambiamenti concreti – una maggiore stabilità economica, incontri significativi – o a un percorso interiore che accresce l’autostima. Allora desiderano ridefinire i rapporti nella coppia e smettono di essere il sostegno narcisistico dell’altro. Quando non ci riescono, decidono di interrompere la relazione.

Ed è proprio in quel momento che spesso esplode la violenza: l’abbandono diventa una minaccia insostenibile per uomini incapaci di elaborare la perdita dell’onnipotenza infantile.

In altri casi, è semplicemente un “incontro sbagliato”. Donne sane che interrompono una relazione appena nata, percependone subito le ombre, possono innescare nell’altro – che magari ha investito in modo massiccio e repentino – il terrore dell’abbandono e quel rancore che alimenta l’atto violento.

Ed è qui che emerge un nodo cruciale: molte donne che provano a uscire da una relazione pericolosa vengono lasciate sole. Le cronache recenti raccontano denunce inascoltate, richieste d’aiuto rimaste senza risposta. Troppe per non parlare di un’inerzia colpevole delle istituzioni, come se valesse ancora il vecchio detto “tra moglie e marito non mettere il dito”, anche quando in gioco c’è la vita. O come se, più in profondità, persistesse una sottovalutazione del malessere femminile e un tacito avallo del potere maschile.

Qualcosa, fortunatamente, sta cambiando. La rettrice dell’Università di Torino ha annunciato ieri la creazione di un nuovo sportello di ascolto, dato l’alto numero di segnalazioni per comportamenti inappropriati. Le denunce aumentano: forse non solo perché la violenza cresce, ma perché le giovani donne non sono più disposte a tacere o a proteggersi cambiando ascensore per evitare un docente molesto.

Anche il movimento Me Too, pur con i suoi limiti, ha contribuito a un cambiamento culturale: oggi molte ragazze hanno deciso di non subire più.

Bibliografia

Chasseguet -Smirgel J.il corpo come specchio del mondo 2003 Cortina Milano

Hurni M., Stoll Simona G.  L’odio nell’amore . La perversione delle relazioni umane. 1998 l’harmattan

Chi ha letto questo articolo ha anche letto…

Sui femminicidi e sulla violenza. L. Betti

Leggi tutto

Inattualità/5 — Sul tatto della diagnosi. Contro l’uso improprio del lessico clinico e la banalizzazione della violenza. C. Buoncristiani

Leggi tutto