Cultura e Società

Contro la semplificazione 2. Don Gino Rigoldi intervistato da A. Migliozzi

2/02/23
Contro la semplificazione. Salvatore Natoli in dialogo con Anna Migliozzi

V. VAN GOGH, 1890

Parole Chiave: Beccaria, Don Gino Rigoldi, Salute Mentale, Psicoanalisi

Contro la semplificazione 2

Don Gino Rigoldi intervistato da A. Migliozzi

Abbiamo incontrato Don Gino Rigoldi, cappellano del Carcere Beccaria.

Don Gino ha 84 anni di cui 52 spesi presso il Carcere. Ha conosciuto la realtà carceraria per i minori nella sua costituzione e trasformazione. Ultimamente sembra che, a più riprese, quando gli ricordano che sarebbe ora di pensare di più alla sua vecchiaia, risponde che la vecchiaia lui, anagraficamente, la vive ma non per questo rinuncia a costruire ‘un nuovo Beccaria’. Don Gino è un vulcano di progetti, di energia. Mentre risponde, riceve telefonate continue dai suoi ragazzi, ragazzi che dopo molti momenti faticosi sono riusciti a tornare a vivere bene, onestamente.

La vicenda della fuga dei 7 ragazzi dal carcere Beccaria, a Natale 2022, ha provocato un’eco piuttosto forte presso la classe politica e i media. Eco che però non ha prodotto un reale confronto sui temi del disagio degli adolescenti, delle periferie e della povertà. Cosa ne pensa, ci darebbe una sua lettura?

Don Gino Rigoldi Quel giorno c’ero, ero lì come quasi sempre nei pomeriggi delle feste. Ero proprio nel cortile dal quale sono scappati i ragazzi. Mi sono accorto che alcuni agenti stavano correndo, urlando “Sono scappati, sono scappati due ragazzi!” C’è stato un gran trambusto, sono accorso per vedere. Nella recinzione c’era un buco. Deve sapere che il Beccaria è da 16 anni in ristrutturazione, le pareti fatte di assi, pescano nel terreno da 16 anni e qualcuna in basso era marcita. Due pedate messe bene, si è fatto il buco e da lì sono scappati.

E’Natale, sono le 5 del pomeriggio, c’è la nebbia, fa freddo, c’è una forte nostalgia, la noia del non far niente, del vuoto. C’è un buco, scappiamo. Sono adolescenti che hanno fatto piccoli reati, qualcuno con disabilità. Non c’era niente di intenzionalmente distruttivo e irresponsabile ma una avventura di sette adolescenti. A questi fatti, sono seguite visite, clamore mediatico.

Come è finita la storia? Oggi al Beccaria siamo rimasti quelli di prima con tre persone più che mai impegnate a progettare il futuro che sono la Dirigente della Giustizia minorile Lombardia, la direttrice facente funzione e il sottoscritto. La direttrice era arrivata da qualche settimana e questo è stato il benvenuto. Si è accorta subito dello stato in cui versava il Carcere: mancanza di personale di polizia, fatica grande degli educatori, in generale molto disordine ma soprattutto un diffuso senso di fallimento e confusione riguardo, come a dover ricominciare tutto daccapo.    

Superato questa specie di shock, siamo arrivati alla conclusione che fosse necessaria una riflessione. Non potevamo fare da soli ma sarebbe stato necessario interpellare alcune figure professionali esterne, agenzie di formazione con esperienza sui gruppi e sulla progettazione educativa. Stiamo ricostruendo. A tutti gli operatori abbiamo ripetuto che si deve ricominciare da zero, nessuna posizione pregressa.

Ovviamente al centro c’è la cura dei ragazzi. Non dobbiamo, certo, costruire delle macchine da guerra ma dobbiamo equipaggiare i ragazzi di strumenti che permettano loro di capire, di interpretare la realtà, di guardare avanti. Aiutarli a sviluppare non soltanto le relazioni tra loro ma i rapporti con la realtà esterna, la scuola, le aziende, il teatro. Non dobbiamo però dimenticare la realtà dalla quale vengono e dove dovranno andare una volta usciti. Il nostro obiettivo è dunque farli uscire da qui con qualche strumento utile a vivere ma anche con una buona stima di sé. Arrivano in manette e dovrebbero uscire con più stima e più progettualità. Siamo il tramite con l’esterno, visto che sono per lo più di bassa cultura.

Andremo avanti. Rifare, ricominciare a costruire un Beccaria capace di educare. Sarà molto duro per tutti noi, come credo per quasi tutte le persone che lavorano in carcere, ma necessario. 

Due cose saranno imprescindibili: la formulazione di un progetto educativo concordato e praticato con gli educatori, gli operatori dell’attività professionali e culturali ma anche da parte degli agenti di polizia penitenziaria. Occorrerà tenere molto presente le caratteristiche e le provenienze anche culturali e religiose, la scolarizzazione e talvolta l’analfabetismo relativamente ai sistemi di valori che siamo abituati a frequentare a partire dalla nostra Costituzione. Alcuni ragazzi che sono nati in campagna, qualche volta ai confini del deserto, in assenza di socialità e di cultura.

Per poter realizzare questa rivoluzione, sarà necessario che ciascun operatore della realtà carceraria possa sentirsi parte di un tutto, diventare competente e attore propositivo a partire dalle conoscenze dei giovani, delle loro storie familiari, scolastiche, sociali.

Piccolo inciso storico. Quando sono arrivato al Beccaria, cinquantadue anni fa, passavano circa 1000/1200 ragazzi l’anno, erano quasi tutti italiani, proveniente dal Sud Italia per il 90%, figli di immigrati. Stranieri quasi nessuno. I responsabili dei gruppi di giovani, capi e il personale della Polizia Penitenziaria avevano tra i 30 e i 50 anni. Erano padri di famiglia e il padre di famiglia si fa sentire e diventa una figura di riferimento. Oggi abbiamo agenti di Polizia che hanno 23/25 anni, giovani che stanno poco tempo, dopo sei mesi se ne vanno. Abbiamo un drop-out altissimo; quest’anno 30 se ne sono andati. La figura autorevole funziona, se incontri qualcuno poco più grande di te, non funziona. Il personale di Polizia è quello che sta più ore con i ragazzi, gli educatori stanno un buon numero di ore ma chi vive veramente a contatto costantemente con i ragazzi, sono loro. Avrebbero bisogno di una formazione continua, anche se vengono formati all’inizio del servizio e mai più supervisionati. 

Quale è la funzione del Beccaria, quali i principi che lo animano?

A mio avviso, ci dovrebbe essere la relazione come motore di ogni intervento. Cosa intendo? Gli operatori dovrebbero sviluppare, prima di tutto tra loro e solo dopo con i ragazzi, la capacità di essere e entrare in relazione. Una relazione di collaborazione, e non di guerra, e che siano ispirati/guidati da un metodo educativo condiviso. Siamo quotidianamente confrontati con ragazzi quasi sempre in difficoltà con la famiglia che normalmente è povera o poverissima, talora non esiste neppure. Oppure li ha espulsi per il comportamento o per la separazione dei nuovi coniugi, non sempre disposti ad accettare il figlio di un precedente matrimonio.

Le faccio un esempio. A Milano, sono arrivati 1500 minori non accompagnati, il comune ne ha collocati 700/800 ma altri 500 sono in strada. Arriveranno prima o poi in carcere. Io stesso ospito 12 ragazzi e quando alla sera, suona alla porta un ragazzino di 12/13 anni e magari dovergli dire di no, non è facile. Mette a dura prova la mia vita e mi costa in termini di salute.

In questi casi, ci vorrebbero operatori che sappiano costituire una grande Comunità Educante in rapporto con la città e il Carcere sia un luogo di educazione dove poter ricominciare e non una sterile punizione.

Da qualche anno, e sempre più spesso, i giovani che arrivano al Beccaria si portano una sofferenza psichica e talora psichiatrica. Il carcere non è, e non dovrà diventare, una clinica, anche se dovrà necessariamente dotarsi di tutti i presidi necessari per la salute mentale. Moltissimi ragazzi presentano seri problemi di sofferenza psichica, aggravato dall’attacco che ha prodotto il Covid-19 in termini di rapporti che sono diventati prevalentemente virtuali. Questa mancanza di rispecchiamento in uno sguardo reale ha prodotto più confusione e più violenza. La violenza è un modo di esistere.

Tema a parte è l’appartenenza ad un paese straniero che comporta problemi di documenti, di cultura e di pratiche di vita. E’ sempre importante, il ruolo delle madri straniere soprattutto quelle di origine africana e di religione islamica. Per questo, le madri dovrebbero essere obbligate a imparare l’italiano E’ la madre che dovrebbe tenere i contatti con la scuola, con le realtà educative. E’ vero che i mariti non lo permettono ma questo è una debolezza che non possiamo più permetterci.

Inoltre, quando pensiamo ai corsi di formazione per i ragazzi in carcere, dobbiamo agire con raziocinio. Attività capaci di risvegliare qualcosa di vivo che c’è in loro. Dobbiamo pensare a qualcosa che li interessi, finire un corso di studi, imparare un mestiere che sia utile. Il teatro sviluppa in loro una significativa attrattiva e apertura; la recitazione è significativa in quanto permette loro di entrare in una parte, essere una persona diversa ma anche banalmente, è un modo per ricevere applausi. Insomma, trovare qualcosa che li invogli a fare fatica, a studiare, oltre a trasmettergli che c’è un vero progetto pensato per loro.

Milano, è una città con molte risorse di formazione e di lavoro e di studio. Non c’è la povertà del Sud del mondo da dove provengono, qui c’è la povertà umana che va sanata.

Talora capita che questi ragazzi ti deludano, è evidente. L’adolescente ti delude, questa è la norma, è il suo destino che ha messo in gioco e si deve ricominciare. Certo a volte si fanno scelte forti, non sempre accolte con favore, ma bisogna avere fiducia nella relazione e attendere.

La grande carenza è sulla Salute Mentale, non ci sono più specialisti, né psicoterapeuti né Neuropsichiatri e Psichiatri.

A.M. La Società di Psicoanalisi ha portato all’attenzione della classe politica la situazione drammatica in cui versano i Servizi di Salute Mentale e ha redatto un documento che sostanzialmente evidenziava la necessità di fare un lavoro che parta dalla comunità tutta, dal territorio. Soltanto attraverso una visione condivisa possiamo avvicinare il disagio degli adolescenti e la loro estrema difficoltà a confrontarsi con gli adulti e la legge.

Don Gino Rigoldi In tutti gli interventi che sono stati messi in campo, il ragazzo non è mai al centro; anche le attività che si progettano, i vari corsi proposti hanno come obiettivo di ‘occuparli’ più che essere corsi pensati veramente per loro. L’interesse dei ragazzi è secondario. Cosa servono tutti questi corsi senza una reale finalità e progetto? Fino a quando non si metteranno al centro i ragazzi e i loro enormi problemi, tutte le iniziative sono pregevoli ma rischiano di fallire. Pertanto è necessario un lavoro sul gruppo degli operatori che li aiuti a sviluppare una visione comune sul concetto di Comunità Educante e una supervisione continua sul lavoro svolto.

A.M. E ora? Cosa è rimasto?

Appaiono oggi soprattutto rovine ma sotto la cenere ci sono ricordi e voglia di ricominciare. Partire da esperienze decennali che possono essere risvegliate Ci sono anche persone che possono lasciare il campo.

Da parte dello Stato, ci dovrebbe essere l’impegno di ricominciare con un direttore titolare, un comandante degli agenti titolare, un numero di educatori e educatrici adeguato, una ristrutturazione finalmente terminata, una cura speciale per le nuove patologie giovanili di cui abbiamo parlato.  Ormai i discorsi generali non mi interessano più. Non mi interessa parlare e basta. Non ho bisogno della mia personale esibizione narcisistica. Alle parole devono seguire, azioni, qualcosa deve accadere. Cinquantadue anni.

AM. Mi sembra che lei dica che ora è tempo di progetti seri perché abbiamo il know-how, abbiamo le competenze e l’esperienza.

Don Gino Rigoldi Per semplificare, ora come ora non mi aspetto che il Ministero dell’Istruzione faccia un progetto per il Beccaria; mi aspetto invece che chi ha competenze specifiche, faccia progetti educativi e di salute dove la salute psichico fisica dei ragazzi sia al centro. Certo, lo Stato non può intervenire direttamente sul Beccaria, non me lo aspetto, ma può impedire che ci sia un cambiamento di 30/40 agenti della Polizia Penitenziaria all’anno. Fatti come questi possono ‘polverizzare’ l’esperienza.  Devo aggiungere però che la parola Educazione, anche nelle scuole Cattoliche, ha perso presa e non la sento più. Se chiedo chiarimenti, non mi si sa rispondere. Se poi parlo di relazione, allora nebbia. “Ma in che senso la relazione?” La relazione deve essere al centro ma una relazione autentica, dove siano presenti tutti i sentimenti, come l’odio e non solo l’amore.

Una relazione dunque capace di contenere tutti i sentimenti. La relazione è una forma di amore. Un’ultima cosa. Quando ho iniziato a lavorare, ho fatto un lavoro su me stesso perché mi sono chiesto ma questo sorriso che ho stampato in faccia è vero o di circostanza? Nel lavoro su me stesso, sono stato massacrato ma ho capito che in ciò che si fa bisogna essere competenti e autentici. Non basta essere preti, adulti, laureati, serve l’emozione e l’autenticità.

AM Grazie Don Gino.

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