Cultura e Società

“Ebbro d’erba e di tenebre” ricordo di Pier Paolo Pasolini nel 50°della morte, di P. Moressa

18/12/25
“Ebbro d'erba e di tenebre” ricordo di Pier Paolo Pasolini nel 50°della morte, di P. Moressa

Pasolini, ritratto 1965

Parole chiave: teatro di parola, poesia, anticonformismo, conflitto, disimpasto pulsionale, mondo interiore.

“EBBRO D’ERBA E DI TENEBRE”

RICORDO DI PIER PAOLO PASOLINI NEL 50° DELLA MORTE

di Pierluigi Moressa

L’intensità e il pathos di “Bestia da stile”, pièce a cui Pasolini lavorò dal 1965 al 1974, ci porta a contatto col teatro di un autore dalla personalità profonda e controversa. Nella introduzione al testo, Pasolini entra in polemica coi drammaturghi contemporanei e col conformismo comune tanto alla destra quanto alla sinistra in un paese che egli definisce “sempre più stupido e ignorante” (Pasolini 1974, 761). La posizione dell’intellettuale, che si confronta in termini polemici col potere, compare con forza nel panorama dell’Italia coeva, dove la parabola dell’esistenza di Pier Paolo sarà ben sintetizzata nel testo curato da Laura Betti: “Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione e morte” (1977).

Vorrei ricordare la sua figura soprattutto per l’attività di autore teatrale, forse meno nota rispetto a quella di scrittore, poeta e regista. Il motore della scrittura pasoliniana è sempre la poesia, quella poesia che ne innervò anche le qualità cinematografiche e drammaturgiche. La misura classica dà forma allo stile di Pasolini, che si confrontò anche col mondo antico attraverso la traduzione di testi greci e latini. Il frammento tragico “Edipo all’alba”, da lui composto negli anni bolognesi, porta in scena un conflitto che ricorrerà in tutta la sua drammaturgia, quello tra il soggetto e il destino sancito dall’alto, tra l’obbligo della coazione e l’anelito a una trasformazione sentita lontana e talvolta impossibile.

Pasolini, autoritratto 1947

Scrivere attraverso i personaggi: questa l’idea drammaturgica, desunta dal “Simposio” di Platone, dal quale Pasolini trasse ispirazione per mettere in scena pensieri che cercavano un luogo per proseguire il dialogo con la società, dialogo amaro e deludente, ma sempre aperto a registrare le tensioni individuali e collettive e soprattutto a ricevere ascolto da chi era disposto a leggere la poesia. Pasolini porta in scena il proprio mondo interiore, che sotterraneamente appare proteso alla speranza di aprire una breccia nel muro sociale dell’indifferenza. Il tema che emerge dominante fin dai primi testi è il conflitto col potere: sorta di entità arcaica, capace di schiacciare l’individuo e di reprimerne le spinte creative.

Il teatro delle idee che Pasolini portò in scena fu concretamente incarnato dal “teatro di Parola”, questa la definizione espressa nel “Manifesto per un nuovo teatro” (1968), il cui intento è ulteriormente reso esplicito nel riepilogo: “il teatro di Parola è … completamente nuovo, perché si rivolge a un tipo nuovo di pubblico, scavalcando del tutto e per sempre il pubblico borghese tradizionale” (Pasolini 1968). Testo e attori, postisi sullo stesso piano dello spettatore, creavano uno spazio “frontale”, garanzia di democraticità scenica e mentale. Il teatro diveniva il luogo per un rito di cultura mediato dagli intellettuali avanzati e rivolto al popolo, e non era da intendersi come spazio educativo, ma come modello di pensiero e di formazione diretto alla coscienza comune. Viene da pensare allo sguardo interiore trasmesso al pubblico fino a sollecitare lo stimolo verso una reciproca contaminazione feconda. La parità culturale fra intellettuali e classe lavoratrice trova in Pasolini le note di una poesia capace di circolare tra l’erba umile dei campi e le tenebre del mistero per ricercare la commistione tra emozioni, esperienze, tragedie personali e l’incessante anelito verso la liberazione interiore.

Pasolini, Narciso, 1947

In “Orgia” (1966 a), testo che descrive “la cronaca delle povere emozioni sadomasochistiche di due coniugi piccolo – borghesi nel tepore di una desolata Pasqua padana” (Davico Bonino, 9), il dramma procede verso la tragedia, mentre le pulsioni erotiche svelano il loro inquietante contenuto perverso e desimbolizzato. Pasolini porta in scena il disimpasto delle pulsioni. Eros lascia il posto a Thanatos, e questo rende la drammaturgia pasoliniana sovente il cupo cielo di una notte senza stelle, il crudo stridore di un destino di sangue. È questa l’unica soluzione? La salvezza, appena accennata, sta nella pura espressione della diversità, purezza che rende l’individuo disposto a riguadagnare il sogno. In questa prospettiva, sentita talvolta come troppo elevata, si fa strada l’orgia, pulsione regressiva vissuta dalla coppia come “un’allucinazione liberatoria dalla schiavitù che la avvince agli oggetti della vita” (Davico Bonino, 10).

“Affabulazione” (1966 b) è un testo in cui l’autore tramuta il mito di Edipo in quello di Crono: “migliaia di figli sono uccisi dai padri, mentre, ogni tanto, un padre è ucciso dal figlio” (Pasolini, 15). Tre sono i ruoli assegnati alla figura paterna: il padre – amante, il padre – coetaneo, il padre – voyeur. In un universo degradato, il padre si fa rappresentante del potere; questo non può reggere l’invidia verso la giovinezza del figlio che sfugge al suo controllo, fino a ucciderlo in una vana speranza di appropriazione, ma con l’amara constatazione della propria impotenza, che esplicitamente non può essere ammessa.

“Bestia da stile” (1965-1974) descrive la parabola di Jan Palach, martire autoimmolato della primavera di Praga. La pièce “non è altro …  che un itinerario verso lo scacco estremo della Poesia” (Davico Bonino, 20), tanto che sul cadavere del giovane, nel finale, discuteranno le loro ragioni il Capitale e la Rivoluzione. Il poeta è la bestia da soma, autore di “versi senza metrica/ intonati da una voce che mente onestamente/ … destinati/ a rendere riconoscibile l’irriconoscibile” (Pasolini, 1965-1974, 599). E la funzione del poeta appare svuotata, mentre nel finale compare la figura della madre morta, spirito protagonista di un monologo, che dal nativo friulano è degradato “a un macaronico veneto di terraferma” (Davico Bonino, 21). L’ombra del padre ha, invece, un intento profetico: comunicare al figlio l’imminente invasione sovietica di Praga. La risposta di Jan è amara e distaccata: “È tutto qui? Caro padre,/ io son saltato giù dal carro da un pezzo,/ e, oltre tutto, non per calcolo o interesse” (Pasolini, 1965-1974, 673).

La profezia è assegnata all’autore: anch’egli disceso dal carro e prossimo alla morte. La parabola di Jan Palach è assunta da Pasolini come sviluppo del proprio destino alla vigilia della tragica fine. Restano impressi sulla scena di un’epoca dalle ambivalenze feroci il profilo spigoloso e la voce dolcemente roca di un poeta scomodo, che proclamava laceranti verità:

“Il Cuore Diabolico sa/ che bisogna essere impopolari: qualcosa/ cioè di peggio che deludere!/ Bisogna dire verità impossibili (ma verità),/ giocare con l’Antipatia come prima/ si era giocato con la Simpatia, preparare/ con sorda ironia l’ultimo Rifiuto” (Pasolini 1965-1974, 672).

Bibliografia

L. Betti (a cura di). Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte. Garzanti, Milano, 1977.

G. Davico Bonino. Introduzione in P. P. Pasolini “Teatro”, 5-22. Garzanti, Milano, 1988

P. P. Pasolini (1941). Edipo all’alba in “Teatro”, 19-38. Meridiani Mondadori, Milano, 2001.

P. P. Pasolini (1966 a). Orgia in “Teatro”, 503-593. Garzanti, Milano, 1988.

P. P. Pasolini (1966 b). Affabulazione in “Teatro” 167-276. Garzanti, Milano, 1988.

P. P. Pasolini (1965-1974). Bestia da stile in “Teatro” 595-709. Garzanti, Milano, 1988.

P. P. Pasolini (1968). Manifesto per un nuovo teatro in “Teatro” 711-732. Garzanti, Milano 1988.

Pierluigi Moressa

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