Cultura e Società

Futuro fossile. Rita Corsa intervista Alberto Soi

31/10/19

Futuro fossile, ovvero la scadenza dell’eterno

Intervista a Alberto SOI a cura di Rita CORSA

(registrazione audio del 23 agosto 2019 a Quartu S. Elena – CA)

 

Onzi tandu naro una limba mia
da imbentu in impastu a su passado
da dongu solamenti in traduzione (1)
(Antonella Anedda, Limbas, 2018).

 

Ho conosciuto una Sardegna scontrosa, dallo sguardo brusco e ruvido. Un’isola dimentica dei bagliori che bruciano le sue interminabili coste lambite dal mare cobalto. Una Sardegna distratta da voci ossidate dal tempo.

Quanta pioggia che dorme
tra la mandria di nubi quanti
sciami di api pronti a fendere l’estate
e intanto l’isola slitta schiacciata contro il cielo
senza sorgenti e prati, senza colline
di mandorli e noccioli
senza – mai – fiori se non questi – dolcemente
radioattivi – anemoni di mare
(Anedda, Clima, isole, scorie, 2018) (1).

Compagno di questo mio transito per camminamenti aspri e pietrosi è stato un singolare artista sardo, Alberto Soi, il cui gesto creativo spazia dalla grafica alla costruzione oggettuale polimaterica.

L’ho incontrato questa estate, in una serata azzurra e fresca. La riva era lontana, eppure l’odore della salsedine si affermava con prepotenza, mitigato soltanto da una tenue fragranza di ibisco. Un paio di bicchierini di mirto ci ha aiutato nella conversazione.

 

Mi sono imbattuta nelle tue opere pochi anni fa, quando hai pubblicato Barocco digitale (2016), un’emozionante rilettura dell’iconografia devozionale filtrata da membrane digitali, che hai proposto come contenitori di memorie remote e universali. Ero rimasta folgorata dall’uso che tu facevi di codici attualissimi per interpretare figurazioni antiche. E viceversa. Ne ho già parlato in un altro mio intervento su SPIweb (L’arte delle tecnologie incarnate, 2017); ma di questo tuo recentissimo lavoro diremo dopo. Adesso vorrei partire da lontano e chiederti se la tua arte pianta le radici nel territorio sardo, o se origina da humus diversi.

 

Il mio rapporto con il suolo di nascita è strettissimo ed è fatto di affetto e di rispetto. Di conoscenza della sua storia e delle sue tradizioni, della sua geografia e della sua etnografia. La Sardegna è parte di me come i miei occhi, le mie mani, i miei polmoni… il mio cuore. Non ritengo però che la mia identità artistica sia ascrivibile esclusivamente alla mia terra natale.

Un destino mi sovrasta, quello della trasmissione mediante immagini del mio mondo interno e del mio modo di leggere la realtà. Un destino soggettivo nella formazione, nei processi esistenziali (e poi professionali), nell’espressione. Studi classici che, complici gli anni, mi conducono all’esistenzialismo, al surrealismo e all’anarchismo con le venature scettiche del luddismo nei confronti del progresso.

La mia soggettività artistica incontra, nell’impegno politico con il movimento anarchico sardo, la necessità di trasmettere ad altri contenuti politici e sociali e subisco il fascino della controcultura degli anni Settanta; tutto ciò che mi nutriva di forma e di senso proveniva da Milano, la Milano di Re Nudo (2), di Feltrinelli, di Samonà e Savelli, di Linus.

Finito il liceo classico, disilluso dall’esperienza politica e critico verso la formazione universitaria, ricerco – nell’intento consapevole della costruzione del mio “essere per sé” – gli estremi di altre esperienze esistenziali, da ufficiale della (regia) marina a operaio: costruivo linee elettriche in aperta campagna, meravigliosamente immerso negli umori della mia terra, ma costretto dalle condizioni di lavoro a portare in azienda la lotta sindacale iscrivendomi al PCI e creando una cellula FIOM. Licenziato per questo, arrivo finalmente a Milano, dove la mia passione per la comunicazione visiva che, inconsapevole, perseguivo sin da ragazzino, inizia a esprimersi nella concretezza dei manifesti per il sindacato della casa per cui lavoravo e trova alimento e struttura nei corsi di grafica della Scuola del libro dell’Umanitaria, all’epoca ricca di docenti di straordinario livello come Aldo Coloneti, Giovanni Baule, Maurizio Milani e, soprattutto, Franco Origoni.

Le mie espressioni artistiche di quel periodo hanno, però, un’intonazione minimalista influenzata anche dall’ “ora del destino dell’arte” fissata da Walter Benjamin. Mi trovo a rinunciare al colore e disegno temi estremamente soggettivi e solamente a china e in bianco e nero, quasi a rimarcare il mio rifiuto della mercificazione dell’arte, che potevo accettare esclusivamente finalizzata alla creazione degli elementi visivi richiesti dalla professione (fig. 1).

Fig.1. Alberto SOI Autoritratto (china su carta, 1978)

 

Gli anni Settanta sono stati molto turbolenti sul piano politico, ma anche molto fecondi sul versante culturale, specialmente negli ambienti della sinistra più vitale e creativa. Una sinistra tesa a edificare un futuro pieno di prospettive e di speranze.

 

Sì, era proprio così. Conobbi Matilde (Lica) Covo, vedova di Albe Steiner, e Franco Origoni e la moglie Anna Steiner che mi accolsero nei loro studi professionali, con un’attenzione e un affetto di cui sarò sempre grato, per lavorare ai loro progetti nel campo degli allestimenti e della grafica di pubblica utilità, apprendendo tecnica e filosofia di quello che Albe Steiner ebbe a definire “il mestiere del grafico”.

Mi trovai in una vera e propria fucina di cultura, certamente di sinistra, fatta da designer, artisti, grafici, fotografi, intellettuali che confrontavano le loro esperienze e i loro progetti. Per esempio, le feste provinciali dell’Unità, che allora si tenevano al Parco Sempione, erano occasione di progettazione collettiva urbanistica, allestitiva, comunicativa che raccoglieva le migliori eccellenze professionali della città.

È qui che ho appreso il “mestiere” collaborando a grandi allestimenti culturali, facendomi le ossa progettandone direttamente e ideando, per lo studio che intanto avevo aperto, editoria e illustrazioni per Zanichelli e Masson, comunicazione istituzionale per il Comune di Milano e altri clienti. Ciò che più mi esaltava, però, era la realizzazione di manifesti per il sindacato e per il PCI, che poi correvo a vedere affissi per le strade di quella Milano che ormai sentivo mia.

Siamo agli inizi degli anni Ottanta, quando τέχνη fa capolino nella mia produzione. E non mi abbandonerà più (fig. 2).

Fig. 2. Alberto SOI Quale lavoro nel futuro (manifesto P.C.I., 1985)

 

Intendi dire che ti sentirai catturato dalla tecnologia?

 

No, non catturato, ma la adoperavo, perché mi piaceva. E mi piaceva specialmente l’accento innovativo che la tecnologia poteva dare alla mia vis artistica, che sentivo però di dover finalizzare alla professione. Professione destinata a “oggettivare”, attraverso la forma, contenuti per renderli fruibili; di certo diversa dall’arte espressione di soggettività, personale e riservata agli intimi. Arte che privilegiava l’objet trouvé, il ready made, la scrittura automatica surrealista, ben connessa alle più recenti tendenze dell’arte psichedelica e dell’arte pop (fig. 3). Arte che risentiva dei contenuti e delle forme dei fumetti di Moebius o di Sergio Toppi e delle visioni distopiche della fantascienza di William S. Burroughs, Kurt Vonnegut, Philip K. Dick.

Fig.3. Alberto SOI Autoritratto (tecnica mista su carta, 1982)

 

Una breve stagione, tuttavia. Già nella metà degli anni Ottanta, infatti, il tuo flusso creativo, imprigionato per poco più di un biennio, riprende a sgorgare impetuoso. Se non erro, è del 1985 il Cavallo Cibernetico (fig. 4), l’opera che segna l’entrata in una nuova fase artistica, caratterizzata dalla scoperta dell’oggetto e dalla sua rielaborazione. Dall’incontro tra oggetti, di cui tu ti fai mediatore. E la tecnologia diventa il ricettacolo della conciliazione tra cose, mentre tu rivesti il ruolo di intermediario in un dialogo muto tra corpi organici e corpi artificiali. Un’operazione audace, che nel tempo ti porterà a sperimentazioni disturbanti.

 

Fig.4. Alberto SOI Cavallo cibernetico (collage psichico, 1985)

 

Con Cavallo cibernetico (1985) ho voluto sancire l’indissolubile legame della vita con la tecnologia, vista allora (come ora) come progresso risolutivo di futuro, anche se ancora elementare, analogica con primi vagiti digitali. Raccoglievo resti di radio, di vecchi televisori, valvole e circuiti elettronici che mi colpivano per il loro aspetto formale. Corpi straordinari, dalla conformazione misteriosa, ricettacolo di segreti sbalorditivi. Li smontavo e li facevo miei sovvertendo ogni ordine e ogni loro schema di coesistenza.

In Cavallo cibernetico ho stipato in maniera selvaggia questi residui tecnologici nel cranio di un cavallo (che avevo incontrato anni prima tirando cavi elettrici nelle campagne sarde), un cavallo robot morto per l’esplosione dei suoi circuiti.

Credo che già in questo mio primo lavoro sul tema dei rapporti tra l’animale/umano e il tecnologico io abbia tentato di rappresentare un elemento che poi è diventato centrale nel mio discorso. Quello della caducità. Come lo scheletro di una bestia è un resto, un avanzo destinato a dissolversi, così la tecnologia ha una sua scadenza. I circuiti del Cavallo cibernetico sono ormai dei fossili.

Ecco, io ritengo che sia esiziale e fatale per l’uomo, un essere animale, trascurare la dimensione temporale di τέχνη. Essa non è onnipotente ed eterna, come l’individuo contemporaneo illusoriamente pare ritenere. Ha la sua scadenza, che ho voluto rappresentare con la morte del cavallo cibernetico.

 

La “scadenza dell’eterno” è una provocazione presente in altre tue opere, specialmente a partire dagli Novanta, quando torni a vivere in Sardegna. Cominci a raccogliere ossa di animali e li fai parlare tra loro e con oggetti organici e sintetici, in una narrazione che scuote incessantemente il lettore. La costruzione/decostruzione/ricostruzione della storia visiva in una continua trasformazione.  

 

Ossi, non ossa, ci tengo a precisarlo. Sono pezzi di scheletri animali. Ossi. Li vedo come un pretesto giocoso. Una sorta di trovata ludica che mi porta a plasmarli e riunirli in opere dal profilo antropomorfo. Mi viene spontaneo vedere, quasi mio malgrado, volti umani negli oggetti del quotidiano, nei frammenti ossei sparsi da banchetti pastorali nei campi sassosi della mia Sardegna.

Demone (2001) (fig. 5) nasce da questa percezione proiettata sulla parte occipitale di un cranio bovino. Il mio intervento si è limitato a evidenziare ciò che già era: ho dipinto tutto di nero, tranne gli occhi che così hanno per tutti lo sguardo maligno e penetrante del volto di un demone.

C’è qualcosa di giocoso nel mio lavoro. O, per meglio dire, io mi diverto mentre maneggio queste cose morte che tento di riconfigurare, dando loro nuova vita.

 

Fig. 5. Alberto SOI Demone (mordente su osso, 2001)

 

Tuttavia i tuoi lavori non sono evocatori di istanze di morte. Anzi, maneggi ossami e li transustanzi in materia viva, che disfi e ricomponi, variandone senza posa il suo valore simbolico. Mi viene in mente Totem (2004), il cui senso fluttua in base alla collocazione che gli riservi (fig. 6).

 

Fig. 6. Alberto SOI Totem (2004)

 

Conosci bene le mie installazioni! In Totem (2012) trovo il modo di utilizzare un bacino d’animale, raccolto diversi anni prima (2002), come maschera apotropaica, creando un altare magico mistico nel grande spazio neoclassico delle scale d’onore del Palazzo Viceregio di Cagliari (fig. 7). Una tavola da cantiere sostiene l’idolo adornato da un lungo filamento di cotone e incrostato da piccoli transistor.

Al piede, sull’incarto di un uovo di Pasqua, una navicella nuragica col suo carico votivo di transistor e altri circuiti (fig. 8). Mistico!

Tutto trovato assolutamente per caso. Si può quasi immaginare che siano stati gli oggetti a venirmi a cercare, affinché io li potessi congiungere in una specie di amplesso vitale e giocoso. L’incontro tra gli oggetti ha dettato l’esito finale del mio progetto. Non io, ma il bisogno della cosa di esprimere ancora esistenza. Mi piace pensarla così… magari voi psicoanalisti sosterreste che è stato “il mio inconscio” a guidare il mio piano artistico. Mah! Non so. Prima mi chiedevi se nella mia tensione antropomorfa riproduco volti che ricordino sembianze note, di qualcuno per cui ho nutrito o nutro sentimenti intensi. Un genitore? Un’amante? Un nemico? Non credo, perché io non cerco significati. La mia non è un’arte concettuale, che ha l’obiettivo di comunicare chissà quali pensieri, a scapito di un’indagine estetica. Ma neppure quest’ultima vincola il mio atto creativo. Io non sono molto incuriosito da dove stia il senso. Il senso di chi o di cosa? Mi interessa di più l’emozione.

 

 

Fig.7 Alberto SOI Totem (installazione, 2012)
Fig. 8. Alberto SOI Navicella nuragica

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Come si accennava prima, mi sembra che tu ricerchi specialmente gli incontri tra cose.

 

Non li perseguo, mi capitano, li chiamo “collage psichici”. Ecco, mi considero un “mediatore d’incontri tra cose”, piuttosto che un artista. A ben riflettere, anche il grafico è un mediatore culturale, che coglie i bisogni e i significati del committente e li trasforma allo scopo di interfacciarli ai bisogni e ai significati del ricevente. Le cose si incontrano. Due o più pezzi raccolti in luoghi e tempi differenti improvvisamente mi si mostrano incocciando tra loro e guardandosi dall’interno, in una singolare interazione, somigliante quasi a una danza. E le mie mani agiscono e uniscono, senza razionale determinazione, assecondando il destino. L’oggetto nega la propria singolarità a favore di una conjunctio, indissolubile, artistica e dotata di senso, con l’altro (fig. 9). Accadono sincronicità fatali tra cose, e tra cose e uomini. Ma ora, forse, sto scivolando nel filosofico, oppure nello psicoanalitico.

 

Fig.9. Alberto SOI Antropomorfo ( installazione, 2013). L’installazione, creata con oggetti trascinati dal mare sulla spiaggia, viene fotografata e abbandonata.

  

A proposito di psicoanalisi, da analista sono rimasta molto attratta dagli ultimi sviluppi della tua azione artistica intorno alla tecnologia. Il ciclo Barocco digitale (2014-2016) è un collage di immaginette sacre su piastre e altri elementi di hardware, provenienti dallo smontaggio di tuoi computer divenuti, negli anni, obsoleti. Tale lavoro riproduce una rottura violenta, una separazione primaria, una frammentazione iconica dell’archetipo religioso. Ma, nel contempo, figura un ricongiungimento, un rimettere insieme il segno (συμ-βολε), una riparazione della remota voce devozionale, collettiva e universale. Il tuo gesto trasformativo tenta di declinare le estreme aporie della modernità con un linguaggio visivo di intenso impatto e d’immediata lettura, capace di accoppiare l’eternità del mito con il dominio autarchico di τέχνη.  La cornice simbolica dell’oggi – costituita di circuiti cibernetici, microchip, schegge elettroniche – si trova in tal modo a conservare e preservare memorie passate. Sono oggetti pregni a loro volta di sensi antichi e ormai tacitati dalle vertiginose progressioni del tempo tecnologico. La temeraria ibridazione tra icone tradizionali e cascami tardo moderni produce un nuovo genere di scenografia barocca, aggiornando il fastoso catalogo dell’oggettistica mistico-popolare (figg. 10-11)

Fig. 10. Alberto SOI Sacra Famiglia (2016)
Fig.11. Alberto SOI Auxilium christianorum (2016)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il mio Barocco digitale è composto da memorie di macchine elettroniche, che hanno elaborato idee, pensieri, immagini, lavoro. Elementi rivelatisi caduchi, ormai muti, impenetrabili. Geometrie, volumi, oggetti ormai destituiti di senso incontrano altri oggetti ancora densi di devozione popolare.

La loro unione richiede adattamenti e scomposizioni, crea un contorno che echeggia fasti barocchi e un nuovo senso, ancora religioso (figg. 12-13). Qui non c’è alcunché di ludico, come spiega Menesini: «C’è molto rispetto, e nessuna irrisione, nella sequenza dei relitti miracolati. Opere d’insospettabile resa estetica e misteriosa suggestione» (2016, 8). Forse questi fogli rigidi, quasi tutti di verdissima bachelite, sui cui corpi s’innestano lucenti piste di rame e avvolgimenti di sottili fili dorati, rappresentano l’eterno conflitto tra conduttori e isolanti (Mameli, 2016). O, forse, questa contaminazione tra religioso e profano mi ha trascinato, inconsciamente, a celebrare una sacralizzazione della macchina, che assurge a dimensioni metafisiche, quasi divine. Non a caso, il sociologo belga De Kerckhove definisce il nostro tempo “neo-Barocco”, riferendosi proprio all’esplorazione della sensorialità umana, tipica del Barocco, che l’elettronica riesce oggi a spingere oltre ogni limite. C’è chi invita a indugiare su queste immagini, per «scoprirle come brace silenziosa che accende riverberi di un modo altro, che osa il riscatto proprio là dove i segni sembrano quelli inesorabili della morte» (Casati, 2016, 63). Parole intense che toccano anche me, non conscio di poter evocare queste emozioni nell’animo dell’Altro.

Fig. 12. Alberto SOI L’ultima cena (2016)

 

Fig. 13. Alberto SOI Santa Rita da Cascia (2016)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A questo punto ti pongo una domanda che, sottotraccia, urticava tutto il nostro scambio. Prima ti riferivi a una dimensione ludica del tuo gesto creativo, che prova a unire il vivente generativo con il sintetico tecnologico. Io ti chiedo, invero, quanta morte c’è in questo meticciato, dove la tecnologia sembra prendersi uno spazio sempre più ampio, a discapito di un corporeo carnale vieppiù immiserito? La corrente contemporanea del transumanesimo dichiara che l’esistenza umana sarebbe un sistema subottimale, che va costantemente perfezionato mediante la tecnologia, che consente di spostare i limiti sempre più avanti (3). Tra le tante voci che cavalcano quest’onda di euforico ottimismo spicca quella di Max More, che nel suo The transhumanist reader(2013) giunge a preconizzare entusiasticamente che, un giorno, in un futuro non troppo lontano, i nostri discendenti penseranno con orrore ai tempi in cui l’invecchiamento e la morte erano accettati come parte normale della condizione umana. La tua visione pare meno fiduciosa, seppure non catastrofica, come quella di una parte di scienziati e intellettuali dissidenti.

Io uso la tecnologia, ma non la adoro (fig. 14). Non ripongo il futuro umano nella macchina. Macchina che è a sua volta caduca. Ecco, la parola che adopererei nel sintetizzare il mio pensiero su τέχνη è caducità. Nulla più della tecnologia a me richiama la finitezza, il limite, la consunzione. La cosa tecnologica ha dei tempi di scadenza brevissimi. Nasce e muore in un attimo. Per me la liturgia di τέχνη commemora la fugacità dell’oggetto, il lamento dell’oggetto che decade in un batter d’ali, condannato all’immediato rimpiazzo. Una sorta di memento mori. Questa suggestione ha guidato in particolare la mia produzione degli anni Novanta e del primo decennio del Duemila, da Cavallo cibernetico in poi, quando la materia ossea fusa alla cibernetica era la tela su cui figurare il mio linguaggio espressivo. Più di recente, con Barocco digitale, ho inteso recuperare la memoria racchiusa nell’oggetto ormai decaduto. Ho voluto ribellarmi alla finitudine di quello strumento, di quell’involucro meccanico divenuto ormai inutile, e rianimarlo, anche nella mia mente e in quella del fruitore. Una riabilitazione che può essere vista come dissacrante, per l’uso forse improprio di archetipi religiosi, ma che genera tuttavia un’inedita comunione simbolica (Picciau, 2016, 31). I pc ora non sono più contenitori di storie altrui, bensì assurgono all’irriverente ruolo di custodi di reliquie e di storie. Le loro storie.

 

Fig. 14. Alberto SOI Senza titolo (china su carta, 1979)

 

Vorrei terminare questa nostra intervista con un’immagine recentissima, una provocazione o un altro gioco, dove scovi la vita, “caduca, caduca e bellissima” (Achmatova, 1912), in luoghi impensabili e sconvenienti. Un volto umano, nero e perturbante, prende forma da un angolo sghembo di ferro. Forse solo uno scherzo.

Invito il lettore a scoprire la fonte, l’oggetto che si presta a questa burla antropomorfa (fig. 15) (4).

 

Fig. 15. Alberto SOI Antropomorfo, object trouvé (2012)

Note:

  1. Ogni tanto uso una lingua mia / la invento impastandola al passato / non la consegno se non in traduzione (trad. dal sardo di Antonella Anedda).
  2. Re Nudo è stata una delle principali riviste italiane dedicate alla controcultura e alla controinformazione, fondata a Milano nel novembre 1970 da un gruppo di intellettuali e di artisti, tra i quali Andrea Valcarenghi.
  3. Nel suo bestseller To be a Machine (2017), Mark O’Connel ha incontrato individui visionari, scienziati, programmatori, milionari bizzarri che stanno utilizzando le più innovative tecnologie per migliorare e implementare (improvement) le proprie funzioni corporee e mentali, con l’obiettivo di allungare la durata della vita. Per il transumanesimo, corrente di pensiero sorta negli anni Novanta, il soggetto e la stessa specie umana stanno trasformandosi in un’altra forma di vita, sulla spinta di un progresso dal flusso inarrestabile. Questo passaggio, d’importanza epocale, porterebbe al superamento della condizione umana, per sfociare nel post-human. Il trans indicherebbe, dunque, una fase transitoria, propedeutica all’esito ultimo, caratterizzato dal “congedo dall’umano”, realizzando l’antico, eterno sogno di oltrepassarsi, di diventare altro da sé, di riattualizzare in una narrazione moderna le eterne paure dell’uomo e le sue speranze di “risolvere il modesto problema della morte”.
  4. Si tratta di una pagina di finta pubblicità per il catalogo di una mostra fotografica intitolata A banda. L’oggetto fotografato è il perno di sollevamento di un cassonetto stradale per la raccolta della carta.

 

Bibliografia

 

ACHMATOVA A. (1912). Ho appreso a vivere. In: La corsa del tempo. Torino, Einaudi, 1992.

ANEDDA A. (2018). Historiae. Torino, Einaudi.

BENJAMIN W. (1936). L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Milano, Giulio Einaudi, 1966.

CASATI A. don (2016). Pietà popolare e immagini. In: Soi A. (2016), Barocco digitale. Cagliari, Arti grafiche Pisano.

CORSA R. (2017). L’arte delle tecnologie incarnate. In: Umani-Robot: una relazione pericolosa? Dossier SPIweb, ottobre 2017.

https://www.spiweb.it/dossier/umani-robot-una-relazione-pericolosa-ottobre-2017/rita-corsa-larte-delle-tecnologie-incarnate/

MAMELI A. (2016). A cavallo tra i fili di rame e la filiconìa. In: Soi A. (2016), Barocco digitale. Cagliari, Arti grafiche Pisano.

MENESINI A. (2016). Commento a Barocco Digitale. In: Soi A. (2016), Barocco digitale. Cagliari, Arti grafiche Pisano.

MORE M., NATASHA VITA-MORE (edited by) (2013). The transhumanist reader: classical and contemporary essays on the science, technology, and philosophy of the human future. Hoboken (New Jersey), John Wiley & Sons, Inc.

O’CONNEL M. (2017). To be a machine: adventures among cyborgs, utopians, hackers, and the futurists solving the modest problem of death. New York, Doubleday [Essere una macchina. Milano, Adelphi, 2018].

PICCIAU M.D. (2016). Le regole del gioco. In: Soi A. (2016), Barocco digitale. Cagliari, Arti grafiche Pisano.

SOI A. (2016). Barocco digitale. Cagliari, Arti grafiche Pisano.

STEINER AL. (1978). Il mestiere del grafico. Milano, Giulio Einaudi.

STEINER AN. (2015). Licalbe Steiner. Grafici partigiani. Mantova, Corraini.

STEINER L., BEGOZZI M. (2015). Lica Steiner. Milano, Unicopli.

 

*   *   *

di Rita CORSA

rita.corsa@spiweb.it

Bergamo, 20 ottobre 2019

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