Dossier

Rita Corsa. L’Arte delle tecnologie incarnate

12/10/17

Rita Corsa – è psichiatra e psicoanalista, membro ordinario S.P.I. e I.P.A.
Per molti anni ha prestato attività consulenziale presso il Servizio trapianti d’organo e di tessuti degli Ospedali Riuniti di Bergamo ed è in collegamento con il Centre for Research Ethics & Bioethics (SE).
Sui rapporti tra psicoanalisi e biotecnologie ha scritto:
“Oltre il limite. Mutazioni somatopsichiche nelle protesi e nei trapianti”. In: Corsa R., Monterosa L., Limite è speranza. Lo psicoanalista ferito e i suoi orizzonti. Roma, Alpes, 2015;
“Ibridazioni transumane. Psicoanalisi e biotecnologie”. In: AAVV., Psicoanalisi e Metodo. Trasformazioni del mondo e della psicoanalisi. Pisa, ETS, 2016;
“Limite è speranza. Considerazioni psicoanalitiche nell’età delle biotecnologie”. In: Corsa R. (a cura di), Oggi, la Speranza? Una contraddizione della contemporaneità. Quaderni del Centro Milanese di Psicoanalisi – nuova serie, 2016.

Il corpo contemporaneo «è la mappa su cui convergono diverse sinestesie e sensibilità pulsionali, è la topografia su cui ibridazioni inorganiche possono innestarsi (…) è il luogo dove avvengono i ricombinamenti, i trapianti e gli incroci, è il luogo di concatenamenti macchinici», dove l’estensione dell’inconscio pare congiungersi alla contaminazione tecnologica. Le corruzioni tra corpo e cosa creano una «carne tecnomutativa» (1), esposta a continue trasformazioni, con ricadute imprevedibili sulla dimensione somatopsichica dell’individuo. Queste forme inedite e strabilianti di irradiamento somatico, queste chimere di sangue e tecnologia, fanno germogliare una distopica fenomenologia estetica, che disloca l’espressione artistica della corporeità in una dimensione sempre più postorganica e postumana.

Nel contempo, il lavoro clinico con i nuovi pazienti, figli di questa generazione dominata da Τέχνη, ci conduce continuamente ad attraversare i territori medico-chirurgici delle tecnologie incarnate, dove l’inserimento nel corpo di oggetti esterni, dotati di una loro propria, automatica intelligenza, ha un valore vicariante e salvifico. Pensiamo, a semplice e parziale esempio, alla sostituzione di un arto mancante con protesi bioniche collegate direttamente ai motoneuroni somatici, all’impianto nel torace di cuori artificiali, all’innesto sottocutaneo di microautomi, come i defibrillatori cardiaci, e di microcomputers che regolano la dialisi intraperitoneale o il rilascio d’insulina. È notizia di pochi mesi fa quella della nascita di un fantascientifico robot, una stampante 3D biologica, capace di “creare tessuti vivi”, e che, in tempo assai breve, sarà in grado di “stampare organi per i trapianti umani” (2).

Già negli anni Ottanta dello scorso secolo, la grande intellettuale femminista Donna Haraway con il suo A Cyborg Manifesto vaticinava un futuro prossimo dove il corpo sarebbe divenuto sempre più un territorio di sperimentazione e di fusione tra l’umano e l’artificiale (3). La Haraway parlava di superamento della dialettica natura/cultura, che sarebbe stata soppiantata dall’avanzata pervasiva del cyborg. La copertina dell’edizione italiana del Cyborg Manifesto riproduce un olio di Lynn Randolph (Lynn Randolph, Cyborg (1989), una pittrice femminista statunitense che ha spesso collaborato con la Haraway.

 

Nel quadro, la Randolph ritrae una giovane donna, interconnessa al computer mediante dei terminali elettrici che originano dall’interno del suo corpo, mentre le mani, fosforescenti, esprimono una somaticità virtuale. Una tigre albina dalle zampe trasparenti attraversate dai raggi X avvolge la testa della ragazza, sullo sfondo incorniciata da orbite atomiche, diagrammi, formule matematiche e una galassia giallastra, dal nucleo pallido, che pare disegnare un cuore artificiale pulsante: «L’inquietante commistione comunica immediatamente ciò che l’autrice intende per “nuova soggettività”: (…) una identità composta di corpo-mente, animale-macchina, dentro-fuori, io-mondo, dove i due poli interagiscono produttivamente» (4). Ma decreta anche un’ormai ineludibile fusione tra carne e metallo, tra pensiero umano e pensiero digitale, dando origine ad un meticciato fortemente perturbante, in quanto posto sulla soglia tra il vivente e l’inanimato. Una chimera ambigua, al servizio dell’esistenza che, per il filosofo, racchiude il segreto stesso della vita umana, in cammino tra il sapere della morte e l’antico sogno di vita eterna (5).

Stelarc, il rivoluzionario bodyperformer cipriota, naturalizzato australiano, ha fatto del cyborg il suo campo privilegiato ed originalissimo di rivelazione artistica (6). Per Stelarc, il «corpo umano» è da considerarsi un «residuo obsoleto», che esige di essere migliorato ed esteso dalla tecnologia ed ibridato con il robot. Egli parte dall’assunto che «il corpo è una struttura oggettiva impersonale e soggetta a evoluzione» e la «tecnologia», che è frutto di questa evoluzione, entra a pieno titolo «a far parte dell’essere umano». La tecnologia deve colonizzare il corpo affinché il corpo possa colonizzare il mondo (7). Nelle sue performances più celebri egli crea una connessione intensamente perturbante tra il suo corpo e l’automa. In The third hand (1981-1984) ha applicato al proprio busto un terzo braccio meccanico, azionato elettronicamente, una terza mano bionica che gli consente di scrivere contemporaneamente con tre mani (Stelarc, The Third Hand (1981-1984) ).

Nelle più recenti Fractal flesh (1995-98) (Stelarc, Fractal flesh (1995-1998)), Pingbody (1996), Prosthetic head (2003) e Muscle machine (2003) (Stelarc, Muscle Machine (2003)), l’artista australiano ha generato delle chimere tecnologiche tra il suo corpo, l’automa e la realtà virtuale, dando vita ad una serie di performances telematiche e interattive, durante le quali gli spettatori o un pubblico in remoto controllano e muovono via internet il suo corpo, trasformatosi in una sorta di entità robotica post-umana in perenne mutazione.

 

Antropologi, sociologi, filosofi e, attualmente, diversi psicoanalisti si sono interessati all’innovativo e provocatorio messaggio del cyberperformer australiano. Gli analisti tendono a rilevare che il gesto creativo di Stelarc invochi «simultaneamente un’immagine di libertà infinita e di autodeterminazione (la pelle non significa più chiusura), e di controllo (…)», allo scopo di ridurre al silenzio l’ansia paranoide, rassicurando il Sé con la convinzione onnipotente di essere il proprio artefice (8). L’opera di Stelarc travalica ogni fantasia di autogenerazione narcisistica: in una sorta di atto cybermaieutico, l’uomo può agire la fantasia di una partenogenesi sintetica, artificiale, autoplasmandosi in un anelito di grandiosità e di eternità. «Né umano, né inumano» – sostiene il filosofo – (9), ma un’identità in tumultuosa metamorfosi, che dilata all’infinito i suoi profili. Profili sempre più scomposti e rarefatti, sospesi in un non luogo ed in esilio dal tempo ciclico biologico. La memoria stessa smarrisce il suo senso di deposito storico, dissolta in un eterno presente dominato dal tracotante gesto di plasmare il futuro.

Ancora una volta lasciamo che l’arte venga in soccorso al pensiero psicoanalitico, disorientato dalle estreme sfide della modernità. L’azione creativa di Alberto Soi è arditamente tesa a declinare la contemporaneità secondo codici interpretativi attualissimi, ma, nel contempo, dal sapore antico. Nel suo Barocco digitale (2016) egli propone un’emozionante rilettura dell’iconografia devozionale filtrata attraverso le membrane digitali, che si prestano a fungere da contenitore di memorie, remote ed universali (Alberto Soi, L’ultima cena (in: Barocco digitale, 2016) Alberto Soi, Madonna col Bambino (in: Barocco digitale, 2016)).

L’operazione che ne segue è un recupero, un riassemblaggio e una restaurazione di memorie d’epoche tra loro lontanissime, una contaminazione tra il mito eterno e Τέχνη, dove l’egemonia autarchica di quest’ultima pare intenerirsi al suono della Voce collettiva devozionale. La macchina può divenire, allora, un prezioso custode di reliquie umane (10).

Le tradizionali geografie dello psicosoma e le sue rappresentazioni artistiche sono state totalmente sconvolte dalla supremazia postmoderna di Τέχνη. Tale irrefrenabile processo viene letto secondo modelli socio-antropologici e psicologici ambivalenti ed antitetici. Si oscilla tra posizioni da «moralista apocalittico» a «ottimista integrato (…), l’uno dissenziente ad oltranza mentre l’altro consenziente ad ogni costo», ma rimanendo ambedue «in una dimensione restrittiva unidirezionale, senza cogliere la dimensione di complessità del problema» (11). Il prepotente avanzamento delle biotecnologie ripara corpi malati, allunga e migliora la qualità della vita. Eppure sarebbe cieco voler cantare un entusiastico peana, celebrandone esclusivamente gli aspetti senza dubbio positivi e vitali. Ma sarebbe ugualmente miope rassegnarsi ad un’ineludibile transustanziazione del pensiero umano in pensiero sintetico. La sorgente di umanità continuerà a sgorgare dall’incontro con l’Altro carnale? Forse. Dipende dall’uomo, forse (12).