Cultura e Società

GUERRA, PANDEMIA, SOCIAL MEDIA. L’invito di N. Nociforo a prendere posizione e pubblicare

21/06/22
GUERRA, PANDEMIA, SOCIAL MEDIA. La difficoltà di pensare e lo stato del “processo di incivilimento” oggi. A cura di N. Nociforo

WILLIAM KENTRIGDE,1998-99

GUERRA, PANDEMIA, SOCIAL MEDIA

La difficoltà di pensare e lo stato del “processo di incivilimento” oggi

A cura di Nicola Nociforo

Parole chiave: Freud S., Eistein A., Psicoanalisi, Bion W.R., Pacifismo

Credo che la ragione principale per cui ci indigniamo contro la guerra è che non possiamo fare diversamente. Siamo pacifisti perché a ciò siamo necessitati da ragioni organiche (…) Da tempo immemorabile l’umanità è soggetta al processo di incivilimento (altri, lo so, chiamano più volentieri questo processo civilizzazione)[1]. Dobbiamo ad esso il meglio di ciò che siamo diventati e buona parte dei nostri mali. Le sue cause e origini sono oscure, il suo esito incerto, alcuni dei suoi caratteri facilmente penetrabili (…) Forse questo processo si può paragonare all’addomesticamento di certe specie animali; senza dubbio comporta modificazioni fisiche (…) Di tutti i caratteri psicologici della civiltà, due sembrano i più importanti: il rafforzamento dell’intelletto, che comincia a dominare la vita pulsionale, e l’interiorizzazione dell’aggressività, con tutti i vantaggi e i pericoli che da ciò conseguono. Orbene, poiché la guerra contraddice nel modo più stridente a tutto l’atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo di incivilimento, dobbiamo necessariamente ribellarci contro di essa: semplicemente non la sopportiamo più; non si tratta soltanto di un rifiuto intellettuale e affettivo, per noi pacifisti si tratta di un’intolleranza costituzionale, di una idiosincrasia portata, per così dire, al massimo livello (…) Quanto dovremo aspettare perché anche gli altri diventino pacifisti? Non si può dirlo (…) nel frattempo possiamo dire una cosa: tutto ciò che favorisce l’incivilimento lavora anche contro la guerra.

La saluto cordialmente e Le chiedo scusa se le mie osservazioni L’hanno delusa.

                                                                                                                           Suo

Sigmund Freud (1932:302)

Interpellato da Albert Einstein, incaricato a sua volta di “organizzare un dibattito epistolare (…) su temi di universale interesse” per conto dell’allora Società delle Nazioni, l’attuale ONU, Sigmund Freud, prima persona ad essere contattata, risponde nell’estate del 1932 alla questione che il fisico sceglie di porgli, <<La più urgente fra tutte quelle che si pongono alla civiltà>> (Einstein A., 1932: 289).

L’ormai celeberrimo carteggio che ne nacque fu pubblicato nel 1933. Sei anni dopo l’Europa venne devastata dal furore di una seconda guerra mondiale e dal dispiegarsi di un totalitarismo pervaso da un convinto desiderio di olocausto. Nel frattempo le guerre non sono mai cessate, al punto da indurre il rappresentante mondiale della chiesa cattolica a coniare una definizione estremamente rappresentativa della realtà attuale quando, nel 2014, parlò di “terza guerra mondiale a pezzi”. A novant’anni esatti da quello scambio epistolare una nuova guerra divampa in Europa rischiando di coinvolgere il resto del mondo.

L’impegno, quindi, di due tra i più grandi intellettuali dell’epoca a pensare insieme sulla possibilità di prevenire, se non addirittura impedire, l’esplosione di nuovi conflitti armati, soprattutto alla luce di un avanzamento tecnologico che renderebbe possibile l’estinzione del genere umano, sembra essere naufragato nel nulla. Eppure chi scrive osa pensare che in quel carteggio permanga l’avvio di una riflessione che non dovrebbe smettere, né smettere di perseguire il proprio scopo. Densa di intuizioni e domande che ci permetterebbero di non ripartire da zero e che, novant’anni dopo, potrebbero e dovrebbero essere articolate con quanto di nuovo la psicoanalisi, tra le altre discipline, abbia scoperto alla base delle motivazioni inconsce della distruttività umana e del possibile disinnesco dei suoi effetti devastanti sul mondo e sulla stessa umanità.

Il concetto di incivilimento in particolare rappresenta, ad avviso di chi scrive, la più straordinaria delle concettualizzazioni proposte da Freud in risposta ad Einstein, basata sull’intuizione di una significativa differenza tra civilizzazione quale processo di acquisizione o imposizione “dall’esterno” di un modello culturale ed incivilimento, invece, quale processo di cambiamento che proviene dalla capacità di modificare innanzitutto noi stessi. Paragonato all’addomesticamento di certe specie animali, dall’incivilimento come cambiamento di sé potrebbe scaturire, come secondo Freud è già in parte accaduto nel corso del lungo processo di ominazione, un nuovo modo di porsi in relazione con il mondo esterno, più efficace e duraturo di quello basato sulla civilizzazione e sulla guerra quale suo plausibile correlato. Incivilimento, quindi, ancora secondo Freud, come processo psichico capace di determinare significative e durature modificazioni fisiche, tali da rendere intollerabile costituzionalmente, negli esseri umani che le hanno acquisite, quello che una volta risultava appetibile, come il piacere di uccidere altri esseri umani.

La differenza tra i due processi appare estremamente significativa in relazione alla direzione del cambiamento intrapreso dall’umanità nel suo rapporto con il mondo: da un’idea, cioè, quella della civilizzazione, fondata su un presupposto, si potrebbe dire, “colonizzante”, almeno sul piano della fantasia, dell’uomo sulla realtà e dell’uomo e degli uomini sugli altri esseri umani,  ad una, quella dell’incivilimento, basata piuttosto sulla capacità di predisporsi a riconoscere ed accogliere la realtà, a partire dalla realtà del proprio mondo affettivo ed ideativo interno; tentando, quindi, di mettersi in relazione e accettando, di conseguenza, di lasciarsi modificare, così come si viene inevitabilmente modificati nella relazione di accoglienza e nel processo, sempre reciproco, di addomesticamento.

Viene in mente, da una parte, la lotta millenaria tra i modelli del patriarcato e del matriarcato, che si sarebbero combattuti nei millenni, e dall’altra la potenzialità di un maschile e di un femminile che, in quanto funzioni psichiche presenti in ogni essere umano, potrebbero riconoscersi, favorendo una relazione di scambio e reciproco arricchimento. Ci si potrebbe, quindi, chiedere: il dilagare di una “terza guerra mondiale a pezzi” è il segno di una cristallizzazione dell’antica lotta tra patriarcato e matriarcato? E l’attacco sempre più feroce alle donne in qualsiasi società contemporanea è un’espressione di questa cristallizzazione e, in particolare, di un attacco al femminile da parte di una logica patriarcale, negli uomini come nelle donne, tendente al controllo ed alla prevaricazione? E tra il patriarcato e l’uccisione dei bambini da parte dei genitori, come da parte delle stesse madri, c’è una relazione? C’è un possibile nesso tra le madri che uccidono i figli e la logica patriarcale delle invasioni e delle guerre a scopo di civilizzazione con cui si continua ad uccidere i bambini in ogni parte del mondo?

E cosa possono dirci gli psicoanalisti oggi di tutto questo, a novant’anni di distanza dal carteggio tra Freud ed Einstein? C’è un legame tra il concetto di incivilimento proposto da Freud e quello di funzione analitica della mente quale funzione alla base della capacità di modificare se stessi teorizzata successivamente da Wilfred Bion, fautore, tra l’altro, della propensione a contattare ed addomesticare i pensieri selvaggi? Oppure siamo in un momento di regressione e perdita di funzioni faticosamente germinanti e non ancora acquisite nel bagaglio filogenetico dell’umanità? Abbiamo ancora qualcosa da dire al mondo rispetto a domande che risultano così urgenti? Può dirci qualcosa, in proposito, lo studio psicoanalitico delle dinamiche inconsce dei gruppi a fronte del dilagare di fenomeni sempre più evidenti di impoverimento del pensiero e davanti all’urgenza di occuparsi delle ferite inferte dall’uomo all’ambiente?

Il dilagare della guerra potrebbe essere anche la manifestazione di una difesa irrazionale dall’incombere di questi rischi così gravi, per cui i gruppi umani preferirebbero ricorrere al non-pensiero, per quanta distruzione ne possano ricavare, piuttosto che fare la fatica di cambiare mettendosi in contatto con le idee nuove?

La diffusione dei social media può avere rafforzato una tendenza anti-noetica capace di modificare, o che sta già modificando, il nostro modo di pensare e di porci in relazione con la realtà? E se sì, in che modo? Ad esempio favorendo il dilagare del conformismo e dei luoghi comuni?

Effettivamente l’impressione è che quello che Freud (1921) definiva “ululare con i lupi”  stia prendendo sempre più piede, sostituendo la capacità di pensare.

Francesco Corrao definiva i luoghi comuni degli “enunciati virali”[2] (Neri C.,1998) per il pensiero, capaci di distruggerne la funzionalità così come un virus può distruggere dei corpi.

In un’epoca contrassegnata dalla pandemia, quindi, è ancora possibile chiederci, avendo in mente la metafora di Tebe assediata dalla peste, se abbiamo indossato le mascherine per difenderci dall’improvviso diffondersi nel mondo di un virus o se, piuttosto, il diffondersi virale dei luoghi comuni abbia soppiantato la libertà di parola e la capacità di pensare, contribuendo all’innesco di un contagio di impensabilità e delle sue gravi ripercussioni? L’essere umano che smette di pensare è, cioè, più esposto alle intemperie dell’ambiente che lo circonda, come a quelle dei propri impulsi, sia in una direzione palesemente distruttiva, come quella di una guerra, sia nel senso dell’inevitabile distruzione di se stesso, tra cui il possibile cambiamento della reazione immunitaria agli agenti della realtà esterna? E laddove viene meno il processo autopoietico e trasformativo della parola e della libertà di pensiero, le tensioni interne degli esseri umani non hanno altra via che quella di produrre sintomi?

Nel 1961 Bion scriveva, “…Non si è ancora cercato di spingere la società a curare i suoi disturbi psicologici con mezzi psicologici, perché essa non ha raggiunto una capacità di introspezione sufficiente a valutare la natura delle sue sofferenze (1971:20).”

Sessant’anni dopo la capacità di introspezione delle società nel mondo è migliorata o peggiorata? Sono ancora possibili queste domande oggi, nella civiltà contemporanea? Possiamo ancora interrogarci, soprattutto come psicoanalisti, su questi aspetti cruciali del rapporto con la realtà che ci circonda?

Questo è un tentativo di ottenere una risposta affermativa da parte dei colleghi, un invito a prendere posizione, a pubblic/are, nell’accezione di Bion, ovvero ad assumere la responsabilità dei propri pensieri, per contribuire al processo di incivilimento e mantenere vive le speranze che ci offre per l’umanità futura. Anche a rischio di deludere chi ci legge, ma sottraendoci alla tentazione di assecondare il desiderio di un’illusoria certezza.


[1] Kukturentwicklung, tradotto nell’edizione italiana con il termine incivilimento, <<che privilegia gli aspetti della formazione e dell’arricchimento intellettuale di un individuo o di una società>>; e Zivilisation, <<reso con l’italiano “civilizzazione”>> che <<allude alle acquisizione esteriori di una società civile ed è comunque un termine che Freud cita solo per rifiutarlo come superfluo>> (Freud S., 1927, p. 434, vol. X, corsivi del redattore)

[2] <<I “luoghi comuni” – dice Corrao – sono “enunciati virali”: hanno la capacità di autoreplicarsi mille e mille volte. Non sono veri pensieri, ma piuttosto “forme pregiudiziali”>> (Neri C., in Orme, Vol. Secondo, Raffaello, 1998).

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