Cultura e Società

Incontri inattesi. Don McCullin a Roma di S. Mondini

22/12/23
Incontri inattesi. Don McCullin a Roma. A cura di S. Mondini

Senzatetto irlandese (1970)


Parole chiave: Psicoanalisi, Morte, Fotografia, Pulsione, Freud 

Incontri inattesi. Don McCullin a Roma

di Silvia Mondini

Palazzo Esposizioni Roma, visitabile fino al 28 gennaio 2024-Still Life. Ai confini tra il vivere e il morire (a cura di) L. Preta

“Fotografare non vuol dire semplicemente scattare. Ha a che fare con l’esperienza di essere lì. Nelle mie fotografie metto quello che sono i principi che ho in testa e quello che mi propongo di fare. Ci metto il senso di ciò che sono e di ciò che ho visto. Ci metto dentro la mia identità attraverso il mio modo di stampare

Imperdibile questa personale di Don McCullin che accompagna la pubblicazione del volume Life, Death and Everything in Between (2023), ovvero, Vita, Morte e tutto quello che sta nel mezzo, attualmente non disponibile nella versione italiana.

Mostra – visitabile fino al 28 gennaio prossimo – che potrebbe definirsi perfetta se, solo, fosse stato mantenuto il titolo del volume invece che sostituirlo con l’incolore Don McCullin a Roma.

Titolo troppo anonimo per un autore che ha sempre posto in primo piano le proprie difficili, mai rinnegate, origini e il complesso quanto interminabile lavoro che gli é stato necessario per essere […] essere lì […] dire “Io c’ero, invece che per fortuna non è capitato a me […] conquistare e mantenere la propria natura umana” soprattutto dopo “aver visto quanto gli esseri umani possano diventare atroci nei confronti degli altri esseri umani”. (McCullIn, 2006, 2023).

L’umanità – scrive Lorena Preta nell’introduzione a Still Life, l’ultimo bellissimo volume da lei curato e uscito quasi in contemporanea a Life, Death and Everything in Between  – non è qualcosa che è dato sin dall’inizio ma qualcosa che si diventa, si conquista sul campo, tramite un lavoro processuale che per Freud corrisponde al “lavoro della cultura”; lavoro costante e continuo che opera un controllo degli istinti e della distruttività consentendo anche quella loro dinamica così necessaria alla sopravvivenza e alla creatività. (Preta, 2023).

Parole, le sue, che mi colpiscono non tanto e non solo perché nel descrivere una dinamica universale sembrano pensate appositamente per McCullin quanto per via di alcune circostanze inattese che la vita talora ci riserva; cambi di programmi, eventi fortuiti, imprevisti che, al di là di ogni apparenza, mi consentono di ritrovare un incontro con immagini e parole che avrebbe potuto apparire perduto. Mi riferisco al fatto di trovarmi a visitare Palazzo delle Esposizioni in quel momento, alla sezione interamente dedicata a “Landscape e Still life”[1] e a quel qualcosa che, al di là di qualsiasi intenzione cosciente, presenta, ripropone, rimanda al volume curato da Lorena Preta; qualcosa che se fatto apposta, non sarebbe riuscito così bene. 

E mentre attraverso questo spazio – in cui si riuniscono alcune coincidenze, duecentocinquanta immagini e innumerevoli pensieri – avverto come un brivido l’invito ad accostarmi alla miseria e alla morte; un brivido comunque di vita, nato dal rispetto, dall’intima compassione, dall’eros che trasuda anche dalla più macabra delle foto di McCullin. Foto impregnate di un’identità che guardando in faccia la morte la mitiga, l’addolcisce, la impasta con la vita; vita di un uomo che ancor oggi, nonostante gli ottantotto anni compiuti il giorno dell’inaugurazione, non rinuncia a lavorare e a stampare le proprie immagini – rigorosamente in bianco e nero – utilizzando ora come sempre la gelatina ai sali d’argento. Testimonianza, questa, di un profondo e mai sopito desiderio di imprimere, fino all’ultimo passaggio, la propria cifra alla rappresentazione della “realtà” decidendone ombre, chiaroscuri, grado di saturazione. Una vera e propria Weltanschauung da cui traspare quel continuo impasto e disimpasto pulsionale (Freud, 1920), quell’umanità che ci sentire la vita dove c’è la morte e la morte dove ancora c’è vita… Still life, appunto!

Weltanschauung che, McCullin, tenta di definire anche attraverso il linguaggio verbale. “La sua parola – scrivono Pledge e Deschavanne, 2006 – ha la stessa forza asciutta delle sue fotografie, ruvida e straziata, dolente e spesso disperata”.

Una parola schietta che, insieme alle immagini, possiamo incontrare durante il percorso tra le sei grandi sale dedicate ai diversi capitoli di una carriera non ancora conclusa. In ciascuna sala campeggia la gigantografia più rappresentativa dell’intera sezione, una sorta di monito a non abbandonarsi troppo al flusso di pensieri, ricordi e paragoni che, incuranti della presenza di altri (troppi) visitatori, si susseguono senza sosta. Un flusso intimo, personale, che talvolta seduce al confronto con qualche altro grande della fotografia salvo poi accantonarlo perchè McCullin, nel suo stare alla larga dalla dimensione estetizzante della sofferenza, è unico. 

Gli inizi

Nato in un poverissimo quartiere di Londra (Finsbury Parck,9 ottobre 1935), Don McCullin trascorre un’infanzia a dir poco difficile; “educato nell’ignoranza, nella povertà e nella superstizione” (McCullen, 2006), minacciato dai bombardamenti e dalla morte. 

Radici difficili, mai rinnegate, da lui stesso definite “stimmate” su cui lavorerà per tutta la vita in modo solitario e personalissimo sino a raggiungere quell’umanità che sempre si ritrova nelle sue immagini. 

Di questo travagliatissimo inizio sono testimonianza le foto ambientate nella Londra fine anni 50/inizio 60, “ritratti” dei luoghi in cui è nato e delle persone che ancora frequenta; tra questi la foto della “grande svolta”, quella che lui stesso consegna a The Observer e che gli cambierà la vita per sempre: “I Guvnor vestiti a festa” (1968), ovvero, il ritratto di una gang giovanile che, pur non direttamente implicata in un fatto di cronaca nera, alimenta il dramma della delinquenza giovanile a Finsbury Park; sette  ragazzi vestiti a festa e incastonati tra le stanze di un edificio in ricostruzione;

una foto che nella sua staticità permette di intravedere il desiderio di una presa di distanza da quel mondo.

The Guvnor in their Sunday Suits– Finsbury Park, London, England (1958)

Poi, con il piccolo gruzzolo di cui dispone, compra un biglietto aereo destinazione Berlino. Quella Berlino in cui si iniziava a costruire il muro; paesaggi desolati e desolanti che lui documenta con sguardo curioso e già carico di un’identità che non cede alla dimensione estetizzante.

La guerra e i conflitti (anni 60 – fine 70)

Tormentato dai fantasmi del passato, McCullin, inizia a documentare alcuni dei più importanti conflitti bellici del secondo Novecento (Cipro, Libano, Vietnam, Congo) rifiutando sempre e con decisione la definizione di fotografo di guerra[2]: lui vuole essere solo e soltanto un uomo che “scatta”, che entra in azione, sulla spinta di un’identificazione che lo fa sentire visceralmente in comunione con le vittime.

“Scatti” che, talora, esaltano la percezione del movimento, della torsione, del guizzo finale, di quell’attimo in cui si è letteralmente “still life” perché la morte potrebbe nascondersi lì, proprio dietro l’angolo. 

Combattente turco esce dall’entrata di un cinema durante un’azione di pulizia etnica. Limassol, Cipro (1964).

The Bogside, Londonderry, Irlanda del Nord (1971)

Più spesso, “scatti” che nella loro immobilità restituiscono voce e dignità alle vittime. Tra i molti possibili esempi, la foto del giovane soldato nordvietnamita (1968) circondato dai suoi effetti personali; si tratta dell’unica foto di guerra in cui l’autore dichiara di aver manipolato la costruzione dell’immagine per ridare dignità ad un ragazzo ucciso in battaglia e poi depredato e calpestato da due soldati americani “Sul campo di battaglia – dichiara McCullin, 2023 – non c’è bisogno di andare in giro ad organizzare nature morte” […] “quell’uomo però meritava una voce. Non poteva più parlare e così l’ho fatto io al suo posto”.

Giovane caduto durante la guerra del Vietnam (1968)

“Le guerre hanno differenze terribili, ma anche sensibili somiglianze. Si dorme con i morti, si cullano i morti, si vive con i vivi che si apprestano a morire. Spesso durante un conflitto pensi che domani sarai tu ad essere disteso per terra col volto rivolto alle stelle. Ė strano immaginare un corpo umano steso in una posizione definitiva, che fissa le stelle senza vederle” (McCullin, 2006).

“Le mie fotografie hanno una connotazione religiosa. […] Quando gli esseri umani soffrono, hanno la tendenza a guardare per aria, come se la salvezza potesse derivare dall’alto…. Ed é in quel preciso momento che scatto” (McCullin, 2006, 2023).

E così, mentre leggo questi pensieri, mi vien spontaneo associarli alle parole di Lorena Preta quando, in Still Life, ricorda la “brutalità del presente” – di un presente purtroppo da sempre attuale – in cui […] “la morte riprende la scena senza più mediazioni (p.11) […] e i corpi rimangono senza sepoltura. (p.10).

E da qui il pensiero si sposta nella direzione di Anselm Kiefer – artista poliedrico, alchimista contemporaneo, amante delle mutazioni ad opera del tempo e, all’epoca dei suoi esordi, artista controverso della “memoria senza[3] ricordi” (Balsamo, 2022) delle atrocità naziste. Nel suo Senza titolo (1995) un uomo disteso a terra ha il volto rivolto in direzione delle stelle, quasi a sottolineare un vacillare dei confini tra l’interno e l’esterno, la dimensione umana e quella cosmica. Kiefer, come McCullin, ama le stelle, le atmosfere wagneriane e le rovine.

Senza parole, A. Kiefer (1995)

Paesaggi e Stiil Life: fine anni 70 in poi

 Verso la fine degli anni 70, McCullin, dopo aver dedicato vent’anni della sua vita a fotografare guerre e rivoluzioni desidera trovare una tregua alla dimensione tragica che accompagna il suo lavoro.

“Mi sento sempre colpevole: colpevole di non praticare la mia religione, colpevole di essere andato via nel momento in cui un uomo muore di fame, in cui un altro é sul punto di essere ucciso. E sono stanco di questo senso di colpa, stanco di dirmi: non sono stato io a uccidere questo uomo, non sono stato io a far morire di fame quel bambino […] Ora voglio fotografare fiori e paesaggi, mi condanno alla pace”. (McCullin, 1979, 2023).

Spinto da questa condanna alla pace si rifugia nel dolce paesaggio del Somerset … ma il suo momento preferito continua ad essere il buio; quel buio che segnala – a lui stesso e agli altri – che la dimensione in cui abita è il “senza tempo”, quella dimensione inconscia in cui i contrari si equivalgono e a scomparire è proprio l’alternanza tra il giorno e la notte. Per lui – imprigionato in questa atemporalità – la quiete del silenzio presente continua a risvegliare il ricordo di un passato che è anche futuro.

“[…] i ricordi di quegli anni dolorosi cercano quasi sempre di rovinarmi le giornate […]. Mi ricordo i sorrisi contorti dei cadaveri in quel loro sonno eterno; ancora mi ossessionano e fermentano nelle oscurità del mio io mentre passeggio nei campi”.

Somerset Levels – Glastonbury, 1990

Il fiume Alham, Somerset (metà anni ’90) 

“Nei miei paesaggi si vedono le nuvole scure wagneriane, che quando stampo scurisco ulteriormente, la nudità degli alberi e il vuoto che fanno sembrare la terra come se fosse stata bruciata o polverizzata dalle bombe […] A volte, mentre cammino nelle brughiere […] il vento passa sferzando tra l’erba e mi sembra di essere sulla strada di Anloc in Vietman e di sentire i gemiti dei soldati sul ciglio. Mi pare di udire in lontananza i mortai da 106mm. Non mi usciranno mai dalla testa.” (2023).

Costretto ad abitare la dimensione di un trauma sempre attuale e, dunque, senza tempo – McCullin – ci consegna un paesaggio in cui, al contrario di quello che accadeva di fronte alla tragedia, è la rappresentazione della vita ad essere profondamente intrisa di morte; ennesima e forse inutile dimostrazione del prevalere della realtà psichica su qualsiasi proposito cosciente (condannarsi alla pace) e su qualsiasi esterno (la bellezza del Somerset).

Parallelamente le sue nature morte – quelle che lui stesso compone mettendo insieme oggetti imperituri raccolti durante le sue imprese e altri dal destino contrario trovati nelle vicinanze (frutti, funghi, animali) – propongono una forma ancora più profonda di evasione di quanto non facciano i paesaggi.” (2023)

Un’evasione che si ritrova tipicamente in ogni Still Life e che – dopo tanta morte – può coincidere con l’essere “sospesi in uno spazio speciale e ambiguo […] in uno “stato di fissità che non rimanda alla […] decomposizione ma […] rende eterni ricordando “le origini vitali” del nostro essere, del nostro essere lì. […] Ogni cosa fissata in un tempo tra la vita e la morte, ai confini tra il vivere e il morire. Ai bordi di due processualità che sembrano non tollerare di essere fissate in una presunta immobilità.” (Preta, 2023, p.13).

Prugne, 1980 circa

Tante altre cose si potrebbe dire su questa mostra e sul volume collettaneo curato da Preta ma – al momento – preferisco fermarmi qui. Per tutto il resto si rimanda alla visita di “McCullin a Roma” (fino al 28 gennaio), alla lettura di Still Life e alla toccante recensione di A. Cordioli.

La Mostra “Don McCullin a Roma” è curata di Simon Baker, Direttore della Maison Européenne de la Photographie di Parigi, in stretta collaborazione con Don McCullin e con Tim Jefferies della Hamiltons Gallery di Londra, e con l’assistenza di Catherine Fairweather, Jeanne Grouet e Lachlann Forbes.

Bibliografia

Balsamo M. (2021). Memorie senza ricordi. Frontiere della psicoanalisi. Storia, memoria, deformazioni. Vol1/2021. Il Mulino, Bologna, 2021.

Freud S. (1920). Al di là del principio di piacere. Vol. IX, O.S.F, Bollati Boringhieri, Torino.

McCullin D. (1979). Homecoming. Saint Martin’s Press, New York, 1979.

Mc Cullin D. (2006). Contrastodue, Roma.

McCullin D. (2023). Life, Death and Everything in Between. GOST Books, Londra.

Preta L. (a cura di) (2023). Still life. Ai confini tra il vivere e il morire. Mimesis Edizioni, Milano, 2023.


[1] Gli Inizi”, “La guerra e i conflitti”, “Le immagini documentarie del Regno Unito”, “Le immagini documentarie dell’estero”, “Paesaggi e Still life”, “L’Impero Romano”.

[2] “Amo la fotografia, la rispetto, la venero, ci penso sempre. Ma non voglio che si dica di me che sono un fotografo di guerra. Sono un fotografo e basta. Ed è l’unico titolo che rivendico.” (2023).

[3] Anselm Kiefer (8 marzo 1945) “mostra attraverso composizioni complesse il substrato inconscio di ricordi, posture, pratiche di cui non necessariamente l’artista ha memoria nel senso individuale del termine, ma di cui egli si fa tramite espressivo, rappresentazione di “una memoria senza ricordi”, la definisce Arasse, esercizi di risorgenza/denuncia di memorie collettive, immagini malgrado tutto. Il pittore entra dunque nell’abisso della storia, gettandosi nella voragine e indossando una divisa militare, per assumerne su di sé tutto il peso”. (Balsamo, 2021, p. 59).


Nota: le foto di questo articolo sono state effettuate dal catalogo della mostra per mano dell’autrice

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