Cultura e Società

Edipo Re. Recensione di M. Trivisani

15/06/22

PAROLE CHIAVE: FREUD, COMPLESSO EDIPICO PSICOANALISI

Introduzione di Nicola Nociforo.  In tempi incerti, come quelli che stiamo vivendo, una riflessione che parta da un parallelo tra la Tebe dell’incesto e della peste e l’Argo della guerra che sacrifica i figli,   le tragedie di Eschilo sembrano essere ancora tragicamente attuali. Se solo fossimo anche noi capaci di soffrire la tragedia, ovvero limitarci a metterla in scena piuttosto che agirla nel quotidiano, saremmo portati ad evitare ripetuti incommensurabili orrori. 
Recensione di Mirko Trivisani

Edipo Re

57° stagione dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico al Teatro Greco di Siracusa

Con la traduzione di Francesco Morosi e per la regia di Robert Carsen

Recensione di Mirko Trivisani

Il teatro di Siracusa è per la prima volta alla massima capienza dopo gli eventi sanitari degli ultimi due anni, l’atmosfera è frizzante, un vivo brusio risuona per tutta la cavea. Siamo in attesa della prima dell’Edipo Re, il debutto del regista canadese Robert Carsen alle rappresentazioni classiche organizzate dalla fondazione INDA. Nessuno di noi spettatori indossa la mascherina, non vi è traccia apparente del recente contagio. Davanti a noi si staglia, altissima, una scalinata rivestita in calcestruzzo, una enorme struttura monolitica, grezza, priva di qualunque elemento decorativo; una struttura brutalista come la definisce il suo autore, lo scenografo Radu Boruzescu. Ad un tratto il brusio viene interrotto da rintocchi sordi e lenti, campane a morto, entra in scena, dai due lati ai piedi della scalinata, il coro, il popolo di Tebe, numerosissimo, ben ottanta bravissimi attori dell’INDA. Il coro è vestito di nero, il colore del lutto dei popoli del mediterraneo meridionale. Piangono i morti del contagio della peste che imperversa a Tebe. Dopo qualche istante ci accorgiamo che ciascun componente del coro indossa una mascherina chirurgica, nera anch’essa, la stessa che noi abbiamo con sollievo messo da parte qualche momento prima. Dunque quello di Tebe deve essere un contagio virale, non batterico. Ciò che abbiamo tentato di mettere da parte ci torna indietro attraverso lo spazio scenico; questa sarà la prima di numerose volte in cui ciò accadrà.

Edipo compare dopo qualche tempo in cima alla scalinata di calcestruzzo, decentrato e reso piccolo dalla prospettiva; inizialmente quasi non ci accorgiamo di lui, il coro occupa in basso la scena. Assomiglia ad uno di quei personaggi che nel corso di una analisi fanno la loro comparsa, un po’ defilati, in una data seduta, per poi essere però destinati ad occupare lungamente la scena analitica. Edipo resta in silenzio e ci guarda, ci dà il tempo di scorgerlo, infine ci chiama figli e assume su di sé il peso del contagio.

Indossa un vestito da uomo d’affari, da uomo di potere; egli infatti attraverso la potente spinta idealizzante di Polibo e Merope (Soavi, 1995), dalla lontana Corinto ha percorso la scala del potere, sino a raggiungere le vette del palazzo reale di Tebe da cui adesso ci parla. Rampollo idealizzato della casa reale di Corinto, che ha visto in lui il segno del perdono degli dei, la cancellazione della maledizione della sterilità, figlio amatissimo e designato dal padre adottivo Polibo suo erede al trono di Corinto, nonostante i suoi lunghi anni di assenza. Uomo dotato di straordinaria forza fisica, come testimonia la strage che egli seminò al trivio di Focide, ed eccezionale intelligenza, capace di sconfiggere la mostruosa sfinge che tormentava Tebe. Nel racconto di Robert Carsen sarà proprio il perfetto vestito di Edipo, un bravissimo Giuseppe Sartori, a rappresentare la maschera idealizzante che ha coperto antiche ferite di cui porta traccia il suo nome. L’annuncio della morte di Polibo segna il graduale abbandono della maschera di idealizzazione, segna l’inizio della svestizione di Edipo. Man mano che egli scoprirà la verità, quindi scoprirà se stesso e le sue colpe, sarà sempre meno vestito, sino a raggiungere la completa nudità con la quale si offre a noi spettatori, ormai inerme e cieco; quella sarà la sua definitiva dipartita dal palazzo reale.

Carsen ci lascia intuire ciò che è accaduto e accade nel palazzo reale di Tebe, non vediamo ma intuiamo l’irrefrenabile passione che lega Edipo a Giocasta, il fuoco dell’edipo (Munari, 2022).

L’opera di Sofocle è tradotta per la regia di Carsen da Francesco Morosi, il quale si era già occupato da diversi anni della traduzione di Sofocle per il teatro con un gruppo di studiosi della Scuola Normale Superiore di Pisa (Cannizzaro, Fanucchi, Morosi, Ozbek, 2018). L’opera di Morosi riesce a dipanarsi in un delicato percorso che va dalla filologia alla scena, approfondendo quindi anche la dimensione performativa e scenica del dramma antico, raggiungendo un effetto di immediata comprensione, facilmente pronunciabile e stilisticamente efficace.

La scalinata in calcestruzzo, che costituisce il riflesso della cavea, le mascherine indossate dal coro, la contemporaneità dei costumi, il linguaggio moderno degli attori non lasciano scampo a noi spettatori, amplificando il senso di attualità che da sempre l’opera di Sofocle veicola. Risultano a questo proposito interessanti due reazioni del pubblico; non appena il messaggero inviato da Corinto comunica ad Edipo che egli non è il figlio biologico di Polibo e Merope, un lieve moto ilare, un risolino nervoso, si propaga lungo la cavea, nella vana speranza di trasformare in commedia la tragedia che si sta consumando: Edipo e Giocasta iniziano a comprendere. In un altro momento topico, quando Edipo ha ormai pienamente compreso le sue colpe, noi spettatori non riusciamo a frenare un applauso inopportuno, capace di impedire ad Edipo di pronunciare le sue dolorose parole. A nulla valgono però le nostre resistenze, Edipo, implacabile, con uno sguardo incredulo, sgomento, allucinato, afferma: “Ahimè: tutto è chiaro. Luce, che io ti possa vedere adesso per l’ultima volta. Io, che sono nato da chi non dovevo, mi sono unito a chi non dovevo, ho ucciso chi non dovevo”. L’opera figurativa scelta dall’INDA per rappresentare la stagione teatrale del 2022, Lo Sguardo, di Arnold Schönberg sembra prestarsi a rappresentare in modo intenso l’Edipo che ha ormai compreso e che pronuncia queste tragiche parole, l’Edipo immediatamente prima dell’accecamento.     

Scrive Freud a Fliess il 15 ottobre del 1897 mentre è impegnato nella sua autoanalisi: «Non è una cosa facile [la sua autoanalisi]. Essere del tutto onesti con sé stessi è un buon esercizio. Mi è nata una sola idea di valore generale: in me stesso ho trovato l’innamoramento per la madre e la gelosia verso il padre, e ora ritengo che questo sia un evento generale della prima infanzia […]. Se è così, si comprende il potere avvincente dell’Edipo Re, nonostante le obiezioni che la ragione oppone alla premessa del fato […]. Il nostro sentimento insorge contro qualsiasi costrizione individuale arbitraria […], ma la saga greca si rifà a una costrizione che ognuno riconosce per averne avvertita in sé l’esistenza. Ogni membro dell’uditorio è stato, una volta, un tale Edipo in germe e in fantasia e, da questa realizzazione di un sogno trasferita nella realtà, ognuno si ritrae con orrore e con tutto il peso della rimozione che separa lo stato infantile da quello adulto» (p. 307). Con il risolino nervoso e l’applauso inopportuno abbiamo cercato di ritrarci, inutilmente.

La divina Giocasta, come la definisce il messaggero e forse Edipo stesso, è ormai morta suicida. Edipo scioglie il nodo che pende e, posata a terra l’amata, si acceca con le spille dorate della madre e moglie. Ma Edipo non si ferma all’accecamento, vuole mostrarsi al coro, al mondo, nudo, inerme e accecato. Un servo gli porge un drappo bianco che istantaneamente si tinge di sangue, con indosso solo quel drappo discende per l’ultima volta la scalinata, lasciando per sempre il palazzo reale e dirigendosi verso la cavea. Quest’ultimo Edipo di Carsen assume delle sembianze cristiche; se al suo ingresso in scena aveva immediatamente assunto su di sé il peso del contagio, al momento della sua uscita di scena assume su di sé le nostre colpe, percorrendo lentamente e dolorosamente i nostri gradini, quelli della cavea, lasciando dietro di sé i gradini speculari dello spazio scenico.

Bibliografia

Cannizzaro F., Fanucchi S., Morosi F., Ozbek L., Sofocle per il teatro Vol. II. Edipo Re e Aiace tradotti per la scena, 2018, Edizioni della Scuola Normale Superiore Pisa.

Freud S., Sigmund Freud Lettere a Wilhelm Fliess 1887 – 1904, 1986. Trad. it. Maria Anna Masimello, Boringhieri, Torino.

INDA, Edipo Re. Catalogo ufficiale della 57° stagione dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico al teatro greco di Siracusa. 

Munari F., La ruota delle meraviglie, ovvero l’Edipo è per sempre, 2022. Sito web del Centro Veneto di Psicoanalisi.

Soavi G.C., L’Edipo di Corinto o dell’idealizzazione, 1995. Rivista di Psicoanalisi, 41(3): 411-420.

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