
Parole chiave: tragedia, giustizia, fato, mito, rappresentazione
TRA DIKE E FATO
Istituto Nazionale del Dramma Antico
Sessantesima stagione di rappresentazioni classiche al teatro greco di Siracusa
9 maggio – 6 luglio 2025
Sofocle – Elettra ed Edipo a Colono
di Pierluigi Moressa
“Dove si potrà scorgere gioia, quando si sia varcato il limite dovuto?” (Sofocle, Edipo a Colono).
Il senso del limite, l’incombere del fato voluto dagli dèi, la responsabilità dell’uomo nel conformarsi ai dettami di Dike, la giustizia che regge il mondo: questi i temi ricorrenti nelle due tragedie sofoclee programmate quest’anno a Siracusa. Entro la cavea del teatro greco gli uomini tornano ad ascoltare gli dèi. Il contatto con le fonti della cultura classica si ripristina nella suggestiva atmosfera siracusana, quando il tramonto, accompagnato dal volo degli uccelli e accarezzato dalle brezze di mare, vede entrare in scena i protagonisti di drammi antichi e sempre attuali. Elettra ed Edipo a Colono (tragedie rappresentate per la prima volta nel V secolo a. C.) portano in scena il complesso rapporto fra il destino umano, segnato dalla volontà divina, e le decisioni personali. I personaggi di Sofocle appaiono condizionati da un’idea e a quella restano fedeli: il senso di una giustizia da ottenere a ogni costo nell’Elettra, il vincolo estremo per le scelte da compiere nell’Edipo a Colono. L’azione umana, così determinata e gravida di conseguenze, è sempre vissuta nello spazio di un fato ineludibile. Se questo, da un lato, sembra togliere all’uomo la responsabilità delle sue azioni, dall’altro rappresenta un obbligo a cui nessuno può sottrarsi, tanto da suscitare l’impiego di gesti e lo sviluppo di strategie, la sopportazione di fatiche e l’incombere di rischi.


L’Elettra porta in scena la necessità della vendetta compiuta dai figli di Clitennestra contro la madre ed Egisto, il suo nuovo marito, colpevoli dell’omicidio di Agamennone, il loro padre. Viene alla mente l’interpretazione del mito offerta da Eugene O’Neill ne Il lutto si addice a Elettra (1931). Ed è lutto vivo, non elaborato, esitato in uno stato d’animo ferocemente espresso entro i cardini di un odio inemendabile quello che anima la protagonista interpretata con pathos da Sonia Bergamasco. Colpisce la modernità dell’impianto drammaturgico sofocleo, che si serve di un espediente, quando annuncia la finta morte di Oreste, il fratello di Elettra; la notizia consente di far allentare la vigilanza entro la reggia di Micene e precipita Elettra in un dolore ancora più acuto. Alla sua comparsa, Oreste si fa autore della vendetta che impone la giustizia alla discendenza di Atreo. L’evoluzione del dramma verso la catarsi coinvolge lo spettatore e apre interrogativi destinati a prolungarsi nella mente oltre il termine della rappresentazione: in che misura l’uomo può essere ritenuto responsabile dei propri atti se la sua vita è sovradeterminata dal fato? Quali sono i termini della giustizia che espone ogni vivente a eventi atroci e a condanne inesorabili? Nel testo di Sofocle circola la presenza di “Dike che presagisce ogni cosa”, della Erinni inesorabile destinata a placare le sofferenze e a pareggiare i torti. La colpa che grava sull’uomo è un evento transgenerazionale, destino che incombe a partire da un misfatto, dal dilagare di ύβρις, la tracotanza che viola il limite imposto dall’alto alla vita e alla condotta. Esiste, dunque, la disgrazia ed esiste anche il bene supremo che Zeus potrà ripristinare. Egisto è figura senza sfumature, tiranno dalla personalità monolitica, vittima inconsapevole di un ruolo che egli accetta tanto in vita quanto in morte. Si intuisce che il tormento di Elettra e di Oreste, dopo il duplice omicidio, non è terminato, ma il testo sofocleo fa presagire prospettive di equità da ottenere e conservare oltre l’afflizione che era apparsa inquietante e infinita.
Il contrasto fra un altro tiranno, Creonte, e il saggio re di Atene, Teseo, viene proposto nel testo dell’Edipo a Colono. Il fato ha condotto ad Atene l’anziano Edipo, scacciato da Tebe, cieco, guidato da sua figlia Antigone. Entro il sacro bosco di Colono egli chiede sepoltura, pur in presenza del divieto di entrarvi imposto dalle “Eumenidi … le Dee Tremende figlie della Terra e della Tenebra”. Ma il vecchio Edipo è collocato ormai al di là delle leggi umane e divine: è portatore di un fato che ha segnato la sua esistenza e allo stesso tempo si mostra preoccupato per la sorte che toccherà ai suoi figli. Improvviso compare Polinice, pronto ad affrontare, nella mortale battaglia che si annuncia, suo fratello Eteocle. La lotta per il potere condotta dai due figli è biasimata da Edipo, portato in scena magistralmente da Giuseppe Sartori, ma è osservata ormai da lontano; il senso di giustizia non va affermato attraverso la volontà di potenza, mentre il destino che incombe sui Labdacidi pare contenere scie di sangue ancora profonde. Prospettive di pace si annunciano ad Atene, perché la città che ospiterà il sepolcro di Edipo sarà, dice l’oracolo, invincibile. Creonte tenta, coi suoi uomini,di strappare Edipo all’ultima dimora cui egli si è diretto e ne imprigiona le figlie: Antigone e Ismene. L’intervento di Teseo si rivela catartico ed equilibratore. Il senso di giustizia e i fondamenti etici stabiliti dagli dèi imprimono la quiete all’istante in cui Edipo muore, trasfigurato dalla luce di Zeus, oltre ogni umana aspettativa: “Senza pianto, senza malattia, senza dolore,/ se ne è andato, come nessun altro dei mortali, nel miracolo”.
L’equilibrio raggiunto tra lo spirito apollineo (ispiratore di magnificenza olimpica e di armonie estetiche) e quello dionisiaco (simbolo dell’ebbrezza e della frenesia) aveva generato, nell’interpretazione di Friedrich Nietzsche, “il miracolo metafisico”: la genesi di una suprema forma d’arte, identificata nella tragedia attica. A questa tesi, Alberto Moravia oppose la constatazione di una ricerca diretta alla razionalità superiore come fonte di ispirazione per la tragedia, in quanto fra i popoli antichi le forze irrazionali apparivano funeste e urgenti e, di conseguenza, dovevano trovare una più matura organizzazione attraverso la narrazione catartica e la rappresentazione dei miti. Per questo, la tragedia conserva ancora oggi il valore di spazio in cui la passione trova il nome, il senso di giustizia l’appagamento, la certezza di un ordine superiore la sua concreta definizione. La cornice del teatro offre alla mente un luogo collocato oltre il tempo, una posizione adatta a favorire pensieri destinati a rinnovarsi attraverso le generazioni: “E i teatri non mi sembrarono mai così belli, a Segesta, a Ostia, a Epidauro, a Delfo, come quando li vidi vuoti e morti; caldi di sole, con le lucertole guizzanti per le pietre e le erbe fervide di insetti; deserti di spettatori per tutto il fitto sgretolio dei gradini rovinati; con la campagna distesa e silenziosa là dove, oltre il proscenio, un tempo si erano agitati con visi coperti da maschere i piccoli uomini dalle voci cavernose” (Moravia 1939, 431).
Bibliografia
Moravia A. (1939). Viaggi – Articoli 1930-1990. Bompiani, Milano, 1997.
Nietzsche F. (1886). La nascita della tragedia. Adelphi, Milano, 1977.
O’ Neill E. (1931). Il lutto si addice a Elettra. Einaudi, Torino, 1974.
Sofocle. Le tragedie. Marsilio, Venezia, 2004.