Cultura e Società

“Dalla Pandemia alla Guerra. Appunti” di D. Lisciotto. Recensione di A. A. Moroni

30/06/22
"Dalla Pandemia alla Guerra. Appunti."di D. Lisciotto. Recensione di D. Scotto di Fasano

Dalla Pandemia alla Guerra. Appunti

di Donatella Lisciotto (Edizioni Bette, 2022)

a cura di Angelo A. Moroni

Parole chiave: #Bion, #trauma, #capacità negativa

Al termine della lettura di un libro o della visione di un film, usualmente lascio che mi affiorino alla mente parole, immagini, associazioni spontanee, tutti elementi che trovo in après coup sempre molto utili per cogliere quali emozioni profonde ha mosso in me la fruizione dell’opera di cui al momento mi sto occupando. Il libro di Donatella Lisciotto “Dalla Pandemia alla Guerra. Appunti”, ha evocato immediatamente in me due parole, “profondo” e “fresco”, aggettivi che, nel presentarsi nella loro semplicità e consuetudine nel parlato quotidiano, mi hanno fornito indicazioni importanti nel portare avanti alcune mie riflessioni su questo libro, che proverò qui a condividere. Il testo è costituito da frammenti dialogici interiori dell’Autrice, annotati durante la seconda fase della Pandemia da Covid-19 (2021-2022), quasi un insieme di “pagine sparse” di sveviana memoria (Svevo, 1968), nelle quali l’intento estetico-narrativo e la passione per la psicoanalisi si intrecciano con rara naturalezza. E’ forse proprio in questo senso che i due aggettivi di cui dicevo più sopra hanno bussato alla porta della mia mente dopo la mia lettura: il “profondo” guarda verso la psicoanalisi e le sue attitudini a farsi sonda che esplora l’ignoto; il “fresco” rimanda ad un “affresco”, a qualcosa cioè che attiene all’arte, alla creatività.  Non è facile peraltro, soprattutto per uno psicoanalista, trovare un “genere letterario” idoneo a descrivere il proprio essere immersi in un trauma collettivo di cui sentiamo tuttora gli effetti, come è stato quello della Pandemia. In questi casi infatti il rischio, sempre dietro l’angolo, è quello di correre verso quel fenomeno psichico che Meltzer ha definito “delirio di chiarezza dell’insight” (Meltzer, 1976), “delirio” dal quale spesso anche gli analisti non sono immuni. Si tratta cioè, in casi come questi, di andare verso una naturale spinta difensiva onnipotente (e/o teorizzante) a dare spiegazioni affrettate e ultimative al senso di precarietà in cui ci hanno avvolto e ci avvolgono tuttora gli eventi traumatici e la violenza sociale della Pandemia (prima) e della Guerra russo-ucraina (più recentemente). Stiamo parlando di traumi cumulativi i cui effetti stiamo ancora vivendo, così potenti, da evocare nell’Autrice una intensa immagine proveniente dalla sua infanzia, quella della “bottiglia di passata di pomodoro” che si spacca e va in frantumi, metafora di una mente non preparata a contenere un dolore emotivo troppo grande, e a spiegarlo, guardando ai contesti sociali da cui scaturisce. Contesti in cui, sempre più, emergono “sconfinamenti” che occorre pensare, sognare e di cui è necessario farsi carico: sconfinamenti dell’identità di genere; dei quadri clinici, sempre più compositi, mutevoli e cangianti; dei linguaggi e delle grammatiche linguistico-affettive delle nuove generazioni; del rapporto mente-corpo-macchina-tecnologia; del Sé che si fa rifrattivo all’interno di una società nella quale il Sé medesimo si sente vivo e reale solo se “è visto” attraverso lo sguardo voyeuristico-esibizionistico dei Social Networks. Sé che rimandano gli uni gli altri immagini intese come schegge frammentate/agglutinate – come la “bottiglia di passata di pomodoro” che va in frantumi, appunto – di azioni-parole-schemi comportamentali, privi di soggettivazione, ma al contrario rifratti, riflessi infinite volte, senza significato e pensiero critico. Ben lontana dai rischi denunciati a suo tempo da Meltzer, Lisciotto ci invita ad “abbellire le cose cominciando dal loro deficit, rimarcandone la precarietà, piuttosto che nascondendola” e questo per cercare di “dare forma a cose nuove e inimitabili” (p. 13). La “freschezza” e la ”profondità” di questo libro di Donatella Lisciotto, si ritrovano agevolmente anche in questa sua frase appena citata. E’ questo un invito implicito a promuove e sostenere quella che Bion definisce “capacità negativa” (Bion, 1970), cioè qella competenza analitica anti-evacuativa che tenta di auto-contenere e non agire. Si tratta della capacità dell’analista e dello psicoterapeuta di gruppo di rimanere a lungo in una condizione di mancanza di certezze, evitando di saturare e bloccare ciò che sta evolvendo con l’attribuzione troppo precoce dì un significato. Qui tocchiamo subito con mano la “profondità” psicoanalitica del testo di Lisciotto, che è denso di rimandi proprio al pensiero di Bion, direi all’ultimo Bion, che vede nell’intuizione poetica e nei riferimenti a Keats e a Coleridge, un’ispirazione fondativa dell’operare della psicoanalisi all’interno della cultura umana, in particolare nei momenti più drammatici e spaesanti. Scrive Lisciotto: “Purtroppo la pandemia ha privato tutti del sentimento di futuro. Se fate caso, si parla spesso di passato – torneremo ad essere come prima? – o del presente (…). Viviamo tra la nostalgia e la paura” (p. 41).

Ma, nonostante questi “appunti” siano stati scritti in momenti in cui dominava la paura di perdere di vista la speranza nella possibile elaborazione del trauma, l’Autrice non perde mai di vista l’importanza di mantenere viva la fiamma della funzione analitica, cioè della capacità di sognare, di tentare una alfabetizzazione degli elementi beta rappresentati oggi da Pandemia e Guerra. Il suo modo di scrivere mi ha fatto tornare alla mente a tale proposito la seguente, importante indicazione di Bion agli analisti: quando “il paziente si trova in uno stato mentale che non ha  un corrispondente nell’apparato verbale, (allora) lo psicoanalista si trova costantemente di fronte all’esigenza di produrre un suo proprio apparato di indagine, mentre sta svolgendo l’indagine» (Bion 1970).  Lisciotto nei suoi “Appunti” descrive, a mio avviso magistralmente, la presenza di una funzione analitica adeguata cioè a sperimentare quel movimento di “oscillazione” tra posizione depressiva e posizione schizo-paranoide che Bion così spesso descrive. E l’Autrice è in grado di evocare questi temi psicoanalitici così profondi e densi, proprio immergendo la psicoanalisi nella contemporaneità, quasi a volerci ricordare che l’ethos della psicoanalisi assume ancor più senso nel momento in cui è più presente nel cuore della krisis, nel luogo in cui maggiormente vibra l’angoscia. Non a caso Lisciotto contrappunta le sue note con sogni, sia suoi che di suoi pazienti, sogni in cui il “residuo” diurno traumatico dei giorni attuali che stiamo vivendo, assume un “diritto di cittadinanza” pari a quello del “contenuto latente”: non possiamo cioè sottovalutare l’impatto della “violenza delle emozioni” (Civitarese, 2007) sul nostro apparato per pensare. Solo non sottovalutando questo impatto, potremo ricominciare a nutrire la nostra capacità di sognare. Un altro, non secondario, pregio del libro di Lisciotto consiste nel porsi come un appello sottinteso agli psicoanalisti e alla psicoanalisi contemporanea, a non dimenticare i contesti sociali in cui la psicoanalisi stessa opera. Un invito vibrante relativo alla necessità ineludibile che la psicoanalisi si interfacci continuamente con la realtà sociale e con la sofferenza che questo “sociale” esprime. Non farlo significherebbe per la psicoanalisi, secondo l’Autrice, perdere di vista uno dei suoi compiti costitutivi: prendersi cura della sofferenza dell’umanità di cui fa parte.

Riferimenti bibliografici

Bion., W.R. (1970), Attenzione e interpretazione.Dall’apprendimento alla crescita, Armando, Roma, 1971.

Civitarese, G. (2007), La violenza delle emozioni, Raffaello Cortina, Milano.

Meltzer, D. (1976), Delusion of clarity of insight, in International Journal of Psychoanalysis, 57: 141-6.

Svevo, I., Racconti – Saggi- Pagine sparse, Dall’Oglio,Trieste, 1968.

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